La voce umana è lo strumento più bello di tutti, ma è anche il più difficile da suonare, sosteneva Richard Strauss, compositore e direttore d’orchestra tedesco del periodo tardo romantico. Lo sa bene Sharon “Shar” White, corista per Joss Stone, Stevie Winwood, Carole King, Pete Townshend, Ringo Starr e da oltre di 17 anni membro della band di Eric Clapton. E lo sa non solo perché ci vogliono costanza, duro lavoro e forza d’animo per diventare cantante di un certo livello, ma anche per la determinazione che ha dimostrato nel superare gli ostacoli. «All’inizio per sopravvivere ho cantato di tutto: reggae, r&b, rock», racconta. «Alla fine, questo esercizio mi ha consentito di avere la giusta versatilità vocale».
Inglese, Sharon White inizia a cantare in una piccola chiesa di Birmingham. Si sposta poi a Londra dove firma il primo contratto a 18 anni con la Jive Records. «Non riuscivo neanche a pagare le bollette. Ero rimasta incinta e in qualche modo dovevo sopravvivere e badare a mia figlia, a cui ho dovuto fare da madre e da padre. L’unico strumento che avevo a disposizione era la voce e ho cominciato a fare la corista. Ho capito di avercela fatta come artista quando sono stata capace di mantenere mia figlia. Ho comprato la mia prima casa senza chiedere niente a nessuno. Le chiamate di lavoro sono aumentate e sono passata dalle sessioni di studio ai tour mondiali e alle esibizioni televisive».
Oggi Sharon White si divide tra Londra e l’America, dove vive e dove ha cantato davanti agli Obama, alla Casa Bianca, assieme a Annie Lennox. «Obama è stato adorabile con i musicisti ed ha amato molto l’esibizione della band di Annie. Ricordo ancora la severità dei controlli dei servizi segreti. Ci hanno piazzati al buio in una stanza, in attesa, forse per tenerci sotto controllo mentre gli Obama si spostavano. C’era anche Mariah Carey, incinta e bellissima, e un po’ impaurita».
Oltre che con Lennox («Un faro di luce, mi ha insegnato a trattare tutti con rispetto»), White ha cantato fra i tanti anche con Bryan Ferry («Con lui sul palco è come se fosse la fashion week»), ma l’incontro più importante è stato quello con Eric Clapton. «Ci siano incontrati nel 2004. Stavo registrando una delle sue canzoni, Run Home to Me, agli Olympic Studios di Barnes, Londra che purtroppo non esistono più. Eric è entrato con Nathan East (il suo storico bassista, nda) e si è messo ad ascoltare. Gli sono piaciuta, sono stata chiamata una seconda volta, mi ha invitata a far parte della sua band». Per essere un numero uno c’è bisogno di lavorare sodo, in maniera meticolosa ed è così avviene per ogni registrazione con Clapton: «Iniziamo alle 10 del mattino. Incontro la band e ci dirigiamo verso lo studio dove c’è già Eric. Ci sono i saluti, gli abbracci, caffè, il tè e del cibo, ma appena sentiamo Eric suonare la chitarra sappiamo che è il momento di prendere posizione e iniziare a fare il nostro lavoro. Eric mette sempre del suo anche nelle parti vocali, è molto esperto e sa cosa vuole, ma mi dà anche spazio per aggiungere qualcosa di nuovo. Durante la pausa pranzo, che di solito è a base di sushi, mi fa ascoltare la musica che sta ascoltando in quel momento dal suo telefonino. Di solito finiamo verso le 15». In 18 anni questo modo di lavorare non è mai cambiato. «Eric è molto preciso, costante e disciplinato: fa i pasti a orari precisi, indipendentemente dal fuso orario». Ma non c’è solo il lavoro, c’è il lato umano di uno degli artisti più importanti dei nostri tempi e i momenti difficili che Sharon ricorda con viva emozione. «Stavo attraversando un periodo difficile ed Eric mi assicurò che se avessi avuto bisogno ci sarebbe sempre stato. Ed è così, specie quando è venuta a mancare mia madre».
L’ultima volta che si è esibita con Clapton è stato per il Ginger Baker Tribute, alla presenza di Ronnie Wood, Roger Waters, Steve Winwood, Nile Rodgers e altri musicisti che hanno ricordato il batterista dei Cream. «Uno dei momenti più alti della mia carriera. È stato toccante vedere Kofi Baker, il figlio di Ginger, suonare una assolo di batteria in onore del padre. Quando stai lì con loro quasi ti dimentichi che sono icone del rock. È gente alla mano, si comportano da vecchi amici». White non è riuscita invece a lavorare con i suoi miti Aretha Franklin, Nina Simone e Prince. «Ma è stato meraviglioso quando Eric ha omaggiato Prince nel suo annuale Crossroads Guitar Festival. Ha suonato Purple Rain ed è un po’ come se avesse realizzato il mio sogno». Viaggiare con lui ha i suoi benefit: «Ci permette di viaggiare sul suo jet e lì ascoltiamo canzoni che magari verranno inserite nella scaletta dei concerti».
Ci sono due album che Sharon ricorda con particolare emozione. Uno è la versione live a Hyde Park di Tapestry di Carole King. «Dopo le prove ufficiali, provammo anche a casa di Carol a Londra, una cosa molto rara. Le sue canzoni ti conducono nel suo mondo, ti fanno capire cosa prova lei. Sono puro genio». L’altro disco è Back Home di Eric Clapton che contiene uno dei pezzi più intensi, a tratti malinconici ma allo stesso tempo “protettivi” del chitarrista, Run Home to Me, dove il lavoro della corista è vitale e di una profondità estasiante. «È stato fantastico far parte di Back Home. Ho percepito una connessione con Eric, che sentiva la mancanza della famiglia». Tanti eventi, tanti nomi, ma il momento migliore della sua vita è stato quando la madre l’ha vista esibirsi con Clapton alla Royal Albert Hall. «Era lì in prima fila a vedere fin dov’ero arrivata partendo da zero. È stato meraviglioso».
Sharon ha saputo e sa suonare in maniera straordinaria il suo strumento, quella voce che butta fuori e che rappresenta gioie e dolori della sua persona. È come se portasse dentro di sé un verso di Arte poetica di Paul Verlaine: «La musica, ancora e sempre! Il tuo verso sia la cosa che va via, che si sente fuggire da un’anima in cammino, verso altri cieli e altri amori», e altri suoni, aggiungiamo noi.