Aaron Frazer era in cucina a preparare la cena, quando, all’improvviso, un numero dall’Ohio è comparso sul display del suo cellulare. Con una padella in una mano e nell’altra il telefono il musicista ha risposto distrattamente alla chiamata: non era telemarketing, ma si trattava di Dan Auerbach dei Black Keys che gli proponeva di produrre il suo primo disco solista.
Da quella chiamata e dal ricchissimo mondo interiore di Aaron pieno zeppo di riferimenti culturali di diversa estrazione è nato Introducing … Aaron Frazer: un album prodotto in pochi giorni negli studi di Dan Auerbach a Nashville, realizzato con la cura e l’attenzione artigianale di chi fa della musica il suo mestiere, e per questo la tratta con estrema serietà e dedizione.
Non è certo un nuovo talento in circolazione: con i Durand Jones & The Indications ha riportato in auge lo stile alla Motown e ora nel suo primo disco solista si è spinto ancora più lontano: soul and r’n’b e «temi che riguardano tutti, a prescindere da ogni geografia».
Parla d’amore e lo fa su melodie senza tempo, alla Marvin Gaye, ma non mancano testi dalle sfumature politiche alla Woody Guthrie (Bad News, come ci racconterà nell’intervista, è nata per parlare del cambiamento climatico tanto che fuori di metafora dice “I know I’m getting older but the winter is much colder than before”). La sua musica suona come un revival a un primo ascolto, ma in realtà ha la freschezza di qualcosa di nuovo. Soul, r’n’b, hip hop, rock e anche tanto gospel vengono shakerati insieme al cuore e alla voce in falsetto di Aaron regalando un risultato dal sapore analogico, ma contemporaneo e lo rendono per questo una voce interessante del panorama internazionale.
Abbiamo parlato insieme a lungo e mi ha raccontato delle sue radici napoletane, del suo progetto gospel, della delicatezza che ha sul tema dell’appropriazione culturale, del suo attivismo politico e dei tanti progetti che ha in cantiere per i prossimi mesi. E della necessità di riuscire a focalizzarsi sugli aspetti positivi del presente, anche in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo.
Questo è il tuo primo disco da solista, so che lo hai scritto in quattro giorni. Mi racconteresti di più?
Ero un periodo pieno di impegni della mia band (Durand Jones & The Indications) e ho trovato un momento libero in un’agenda molto piena, ma c’è stato anche un altro aspetto non intenzionale nel lavorare in pochi giorni. A Dan Auerbach dei Black Keys che ha prodotto il disco piaceva molto l’idea di non soffermarsi troppo ad analizzare ogni aspetto: a volte la prima idea che ti viene in mente è quella giusta. Se ti dai un po’ di pressione, anche dal punto di vista delle tempistiche, e segui il tuo istinto, allora il tuo cervello automaticamente spegne quella parte che crea dubbi e incertezze e si concentra sul risultato. Ovviamente cervello, istinto e cuore lavorano insieme nella scrittura di un disco.
So che Dan Auerbach ti ha chiamato all’improvviso, tu non avevi neanche il suo numero, ma ti sei fatto trovare pronto per lavorare con lui. Com’è andata?
Sì, ero in cucina, stavo preparando la cena e ho visto una chiamata in arrivo da un numero dell’Ohio.
Sembrava quasi una chiamata di qualche call center, telemarketing…
Esatto, è stato surreale. Pensa che io ho imparato a cantare stando da solo in auto, mentre imparavo anche a guidare e le canzoni che cantavo erano proprio quelle dei Black Keys. Sono stato un grande fan di Dan per tanti anni ed è stato strano ricevere una telefonata all’improvviso da lui, ma appena ci siamo parlati abbiamo scoperto un grande feeling, ci è sembrato di conoscerci da tempo.
Ti è sembrato diverso lavorare a un disco solista invece di lavorare con la band?
Questa è stata l’occasione di inserire nella mia musica anche altre influenze davvero importanti per la mia vita che magari non erano pertinenti con i miei progetti precedenti. Can’t Leave it Alone ha qualcosa dell’hip hop e ne sono orgoglioso. In Done Lyin’ mi è sembrato di portare anche un po’ del r’n’b degli anni ‘90 e di Sade. Leanin’ on Your Everlasting Love deve qualcosa al country, che mi è sempre stato d’ispirazione, soprattutto per la scrittura e anche al gospel. Insomma ho voluto fare questo disco da solo per poter tirare fuori tutto ciò che mi ha formato nel tempo musicalmente, e non è una cosa che puoi fare del tutto quando lavori in gruppo.
Hai parlato di alcune canzoni, parlo io di un’altra: Bad News potrebbe essere l’inno di quest’anno per le ragioni che tutti conosciamo, eppure ascoltando il pezzo e il disco intero la musica è allegra, felice, trasmette positività. Dove hai trovato dentro di te tutto questo buon umore?
I miei eroi musicali sono sempre stati capaci di farlo. Bob Dylan, Curtis Mayfield, Gil Scott-Heron hanno sempre portato avanti questa che mi sembra una grande verità: nessuno è sempre concentrato su di una sola sensazione tutto il tempo. Perfino le persone che lavorano sul campo come attivisti politici devono sia riflettere sulla tristezza delle cose che accadono nel mondo e sulle loro sensazioni, ma possono anche essere grati di ciò che hanno o essere semplicemente leggeri a volte.
In questo disco ho messo tutto: la parte triste e quella allegra, quella più leggera e quella più riflessiva. Quest’anno mi ha permesso di meditare su di me e sulla mia vita e anche con la pandemia mi sento davvero fortunato di poter fare ciò che faccio. Questa gratitudine si riflette nel disco.
Hai anche suonato in questo disco, non riuscivi a stare senza toccare uno strumento, vero?
Sì, suono la batteria nel disco tra le altre cose. Mi interessano molto gli strumenti musicali, da piccolo avevo così voglia di suonare uno strumento melodico che ho scelto l’armonica ed è chiaro che devi studiare per suonarla bene, ma se hai capito la chiave di una canzone alla fine se ci soffi dentro riesci a ottenere facilmente un suono. Da lì ho poi iniziato con il banjo che è molto particolare come strumento.
Il banjo mi incuriosisce molto, perché ti parlo da Napoli e qui abbiamo un banjo molto speciale, cioè il mandolino
Questa cosa è incredibile! Parte della mia famiglia è originaria di Napoli! Mi piacerebbe tantissimo suonare lì, sono stato a Roma per uno show ed è stato davvero speciale. La prossima volta spero sarà a Napoli.
Lo spero anche io. Questo disco è revival, ma non è old school. Nell’era dell’autotune porta avanti l’eredità dei nomi che mi hai citato rispondendo alla domanda precedente e in un certo senso è al 100% americano. Ti sembra che sia un disco più adatto al pubblico americano o che sia attuale anche per un pubblico internazionale?
Mi sembra che questo disco sia veramente americano: c’è dentro tutto un mix della cultura americana musicale. Però penso che persone da tutto il mondo possono appassionarsi a queste canzoni. Ho provato a essere totalmente sincero e questo credo traspaia: si sente che sono innamorato, si percepisce che sono grato per ciò che ho, ma non ho nascosto neanche la paura per il futuro. Penso che questi siano temi che riguardano tutti, a prescindere da ogni geografia.
A proposito di amore ho visto che per San Valentino hai fatto un video sul tuo profilo Instagram per inviare gli auguri a tutti gli innamorati del mondo (e perché molti te lo avevano richiesto in privato). Per un artista è utile avere una buona relazione con i social media o toglie tempo alla composizione di nuova musica?
I social media sono uno strumento utilissimo e sono sempre stati un modo grandioso sia per conoscere nuove persone che per entrare in contatto con nuove community che non avrei conosciuto altrimenti. Quando ho iniziato con gli Indications vivevamo in Indiana, facevamo musica nel nostro garage e ci sentivamo piuttosto isolati. Grazie a internet persone da Los Angeles, dal Giappone, da Londra, dalla Finlandia e da tantissimi altri posti hanno iniziato a trovarci e abbiamo capito che c’era un grande gruppo di persone appassionate al nostro tipo di musica che altrimenti non saremmo riusciti a raggiungere. Se fai o ascolti musica un po’ più insolita i social media di permettono di non sentirti solo, di incontrare anche virtualmente persone con le tue stesse passioni o che apprezzano ciò che fai. Quando sto componendo musica però mi tengo completamente offline. Non mi piace neanche avere fotografi o videomaker nello studio per documentare il lavoro. Quando c’è da concentrarsi sulla musica mi piace dedicarmi solo a quello, poi dopo arriverà il tempo di condividere.
Mi parleresti anche del tuo progetto Gospel?
Certo. Nel 2017 avevo una linea di basso in mente che avevo salvato tra le note del mio cellulare. Con gli Indications vivevamo distanti, ma mi stavo divertendo ad esplorare sia il falsetto che l’home recording. Ho registrato due canzoni gospel nel mio soggiorno, tenendo l’amplificatore della chitarra in bagno, il microfono era appoggiato a terra…
A volte trovi la migliore acustica in posti impensabili…
Davvero! Anzi sono sorpreso che non ci siano abbastanza pezzi registrati nella doccia, dove tutto sembra suonare perfettamente!
Dicevi…
Ho registrato le due canzoni e le ho fatte uscire con il nome di The Flying Stars of Brooklyn NY che suona come un nome tradizionale di una band gospel degli anni ‘60. É un modo tradizionale di nominare una band: usi un aggettivo, ci aggiungi un termine che indica qualcosa di celestiale e concludi inserendo la città di provenienza dei musicisti. Per me la musica Gospel è molto importante, è davvero potente. Anche se non sei religioso, non puoi non essere toccato dai temi a cui si rifà: la gratitudine, l’importanza di sapersi rimettere in piedi dopo un fallimento, la fede in qualsiasi cosa ci faccia sentire forti. My God Has a Telephone su Spotify è stata ascoltata più di 24 milioni di volte, è stata una soddisfazione.
Fai soul, gospel e ti rifai alla black culture. C’è una tematica molto calda in questo periodo che è la cultural appropriation. Come ti poni rispetto a questo tema?
Sono davvero sorpreso che non mi facciano più spesso questa domanda che è fondamentale. Mi interrogo su questo punto da quando ho iniziato a fare musica soul. Ho letto tutto ciò che ho potuto, ma non ho ancora trovato una definizione netta tra ciò che può essere appropriazione culturale o scambio culturale.
Il Gospel forse però è più rischioso da questo punto di vista rispetto alla musica soul in generale…
É vero, ma penso anche che un sacco di persone abitano in posti che non gli appartengono. Quando vivi in una casa che non è la tua paghi l’affitto. Io devo la mia intera carriera ad artisti neri e alla black music e ho provato a dedicarmi alla creazione di qualcosa di nuovo con una tale attenzione al dettaglio da onorare questa tradizione. Però fare le cose bene non è mai stato abbastanza per me. Così ho deciso di introdurre anche nel mio racconto quotidiano sui social media delle cause che non solo sono importanti per me, ma che colpiscono principalmente le persone la cui tradizione artistica mi è d’ispirazione: la comunità nera e quella mulatta.
Di quali cause ti sei fatto portavoce?
Ho deciso di collaborare con la Poor’s People Campaign, creata da Martin Luther King Jr. Si tratta di un movimento che ha lo scopo di unire le persone al di là del colore della pelle, dell’appartenenza geografica e anche a prescindere delle idee politiche. Ho lavorato con un gruppo di conservazione ambientale con una campagna settimanale GOOD NEWS / BAD NEWS e da qui è nata la mia Bad News. Mi sono dedicato a questa causa anche perché le persone più affette dalle conseguenze del cambiamento climatico potrebbero essere proprio quelle legate al tipo di cultura a cui mi riferisco. Insomma è una domanda complicata e sono aperto alle critiche e alla discussione, ma penso di dimostrare rispetto.
Stai facendo la promo per il disco solo via internet, mentre alcuni artisti si stanno organizzando per fare almeno degli streaming. Stai pensando di percorrere questa strada?
No, preferisco attendere. Ho registrato alcune performance che pubblicherò, ma solo perché ci sono delle cause da supportare e cioè quelle delle persone senza documenti o del cambiamento climatico. Le due tematiche si uniscono perché di recente in Texas ci sono stati dei temporali mai capitati prima con tale violenza, e sembra che ogni anno ci sia una di queste occasioni in cui ci diciamo “è la prima volta in un secolo!” ed è chiaro che tutto accade per un motivo, che è il cambiamento climatico.
Comunque preferisco fare dei concerti dal vivo in generale perché penso siano un momento catartico e mi piace che in una venue possano incontrarsi persone che provengono da estrazioni completamente differenti tra loro. La musica live ci permette di stare insieme in uno spazio in cui siamo tutti diversi, ma condividiamo qualcosa.
Cosa hai in programma per i prossimi mesi?
Ho un sacco di cose in programma! Questo periodo è davvero complicato e so che molti artisti che conosco e fanno cose incredibili non hanno alcun tipo di aiuto dal governo. Non so com’è in Italia, ma qui negli Stati Uniti non stanno facendo niente per aiutare la cultura che per forza di cose potrebbe essere il settore con la più lenta ripresa a fine pandemia. Si tratta di una parte cruciale di ciò che siamo. Io sono fortunato: con Durand Jones and the Indications stiamo chiudendo il nostro terzo disco, produrrò un paio di artisti di cui non posso ancora parlare e sarò parte di alcuni progetti di altri artisti di cui ancora non posso svelare i dettagli. Non vedo l’ora!