La storia degli Acid Arab, il collettivo partito inizialmente dal duo dei parigini Guido Minisky e Hervé Carvalho, nasce una notte di fine estate a Djerba, un’isola al largo della Tunisia. Invitati per un dj set in un festival prettamente autoctono, vengono folgorati dall’atmosfera al punto di mettere da parte techno e acid house per cominciare, letteralmente in presa diretta, a partorire un’idea di linguaggio che li avrebbe accompagnati fino ad oggi.
Dieci anni più tardi, con tre album all’attivo e diverse collaborazioni che hanno fuso in un unico luogo il raï e la gasba algerina, la dabke siriana, la danza turca e l’acid house di Chicago, il collettivo può contare anche su Kenzi Bourras (tra i più assidui nella formazione live del progetto con Minisky e Carvalho), Pierre-Yves Casanova e Nicolas Borne. Il loro racconto continua ad evolversi in un’idea di elettronica mediterranea senza alcun confine, che quest’estate farà tappa anche a Ortigia Sound System, a Siracusa, a fine luglio.
Abbiamo raggiunto Guido Minisky per farci raccontare a che punto è la ricerca sonora degli Acid Arab, ormai un collettivo in constante evoluzione e fresco di terzo capitolo discografico, ٣ (Trois), uscito questo inverno.
La vostra idea di musica — che scioglie influenze, stili e culture dal Sud e l’Est del mondo dentro un club — è un’eccezione che negli anni ha cominciato a diventare sempre più la regola per molti artisti del panorama dance internazionale. Questo nonostante parta dalla stessa città di Daft Punk, French touch e Ed Banger Records, quindi con ispirazioni e stimoli di una Parigi prettamente diversa da ciò che sentiamo nel vostro repertorio. Come nasce il linguaggio degli Acid Arab?
È iniziato tutto durante un festival in Tunisia, il Pop in Djerba, dove io ed Hervé siamo stati inviati nel 2012 ed in cui suonava anche Gilb’R di Versatile, che poco dopo sarebbe diventata la nostra etichetta. Avevo questa idea di provare a mettere insieme techno, house e sample orientali, specie campionamenti di canti arabi. Nell’entusiasmo generale finimmo a fare un back to back a quattro mani con il promoter del festival, che adesso è il nostro manager, e lo stesso Gilb’R, con Hervé sulla parte acid house ed io a integrare elementi mediorientali. È nato tutto lì: la connessione che si era creata ci ha spinto a pensare un party incentrato su quelle sonorità, a cui abbiamo dato vita nell’autunno dello stesso anno a Parigi, poco prima del debutto del progetto su Versatile Records.
Mai troppo nel passato né troppo nel futuro: gli Acid Arab vivono più di tutto un loro presente. Mi vengono in mente i Nu Genea, che in Italia in maniera simile hanno riportato funk e disco napoletana di trenta o quarant’anni fa in una dimensione nuova, col Mediterraneo sempre al centro della cartina. Nel vostro caso qual è stata la chiave?
Sì, è un esempio adatto e si può assolutamente correlare alla nostra storia. Negli ultimi dieci anni c’è stato un trend piuttosto spinto che ha rivalutato la musica dell’Est e del Sud del mondo, non è stata una cosa che veniva dal nulla, per capirci. Se dovessi trovare un elemento chiave per noi è che forse abbiamo seguito prima di altri ciò che stava accadendo, lo abbiamo sentito arrivare.
Non c’è il rischio di appropriazione culturale?
Per quanto la tecnologia possa aiutarci oggi abbiamo sempre cercato di lavorare per creare storie autentiche. Da quando abbiamo iniziato Acid Arab abbiamo cominciato ad invitare artisti, cantanti e musicisti da Siria, Marocco, Giordania a registrare in studio con noi: la vera connessione con le persone è stata la cosa più importante affinché la nostra idea di musica potesse descrivere ciò che stavamo realizzando.
Di fatto da quando Acid Arab esiste ha sempre messo al centro l’idea di collettivo, a partire dalla compilation che avete curato nel 2013, Collections, in cui figurava tra i vari artisti anche Omar Souleyman. In ٣ (Trois), uscito quest’anno, sono presenti otto ospiti, tra Nord Africa, Siria e Turchia. È sicuramente un aspetto peculiare del vostro mondo: come scegliete le vostre collaborazioni?
La maggior parte delle volte sono incontri che nascono per caso, ad eventi o durante sessioni in studio mentre stiamo registrando altro, sia per chi coinvolgiamo sulle parti vocali che per chi suona sui nostri pezzi. Alla base c’è tanta voglia di conoscere nuove storie attraverso le persone: nell’ultimo album Kenzi Bourras, che collabora con noi già da tempo, conosceva molta gente tra Algeria e Marocco interessata a partecipare al progetto, ad esempio. Nasce tutto da un incontro, per finire nella musica.
Come cambia la ricezione della vostra musica tra l’Oriente e l’Occidente del mondo?
In Europa le persone si chiedono che tipo di elemento orientale potremmo portare nella nostra musica, mentre al contrario quando abbiamo occasione di esibirci in Nord Africa o Medio Oriente sono curiosi di captare gli elementi techno o acid house che integriamo. Alla fine cambia poco: si tratta di persone che vogliono ballare, divertirsi e condividere un’esperienza con noi.
Gasba algerina, trance anatolica, dabkeh sintetica, raï bionico sono solo alcuni pezzi di questo puzzle che continuate a ingrandire. Come si sta evolvendo la vostra ricerca in questo senso?
Ascoltiamo tantissima musica, anche se spesso, com’è stato per le origini del nostro percorso, le idee migliori nascono durante i live o i dj set, con intuizioni estemporanee, sensazioni.
Il ponte tra l’elettronica di stampo europeo e le tradizioni di Africa e Medio Oriente parte però già tra gli anni ’80 e ’90, se pensiamo ad esempio a progetti come Muslimgauze e Banco de Gaia, in qualche modo dei vostri padrini. Oggi questo tipo di ricerca sembra attecchire maggiormente senza rimanere nella nicchia delle cose underground. E credo voi – e il vostro calendario di date – ne siate un esempio, non credi?
Sì, i nomi che hai fatto sono decisamente ciò che ci ha portato a una simile ricerca, ciò che c’era nella nostra idea di musica prima degli Acid Arab. Nel nostro caso, già da quando nasce il party con cui abbiamo iniziato, c’era l’intento di continuare quel tipo di storia, per quanto il lavoro sia stato lungo: solo qualche anno fa in effetti molti degli artisti che volevamo spingere o con cui volevamo collaborare non erano affatto conosciuti, se non in cerchie ristrette. Un po’ come l’idea stessa alla base di questa musica.
A fine luglio sarete ospiti di Ortigia Sound System, un festival che in qualche modo sintetizza quell’espressione mediterranea incastonata tra passato e futuro – basta dare un’occhiata alla line-up – e che oltretutto ha uno palco a cielo aperto che può ricordare Djerba, da dove per voi tutto è cominciato. Che sensazioni avete per il tour?
Sarà esattamente com’è stato fatto finora, con una combinazione di elementi elettronici ed organici che portano il passato nel presente. Tra l’altro abbiamo recentemente suonato in Italia, a Roma, e il feedback che abbiamo ricevuto è stato incredibile. Stiamo tornando spesso, ricordo che tempo fa era molto più difficile per noi, ora è cambiato tutto.
È un po’ la metafora della vostra storia, se ci pensi: incontrare posti, incontrare persone e poi far succedere le cose.
Assolutamente, sì. Ed è bello avere finalmente un pubblico in Italia, davvero.