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Alain Johannes: «Chris Cornell mi è apparso in sogno e mi ha suggerito che musica fare»

Il braccio destro di Mark Lanegan racconta ‘Hum’ nato da depressione e lutti, come quello per il cantante dei Soundgarden. «Era come un fratello. Non riesco ad accettare il suo suicidio, c’è qualcosa che non torna»

Alain Johannes è uno di quei personaggi che ti pare di conoscere, ma non sai bene dove l’hai sentito nominare. Poi scorri i credits di uno dei tuoi album preferiti e lo trovi lì, menzionato per aver suonato qualche strumento (è uno stimato polistrumentista, quindi c’è l’imbarazzo della scelta) e aver offerto la sua visione come produttore o il suo tocco al missaggio.

L’hanno voluto tra gli altri Chris Cornell per il suo primo album solista Euphoria Morning e PJ Harvey, i Them Crooked Vultures (il supergruppo formato da Dave Grohl, John Paul Jones e Josh Homme) e gli UNKLE, gli Arctic Monkeys e i No Doubt, ma più di tutti Mark Lanegan nei suoi dischi migliori e i Queens of the Stone Age. È amato e rispettato non solo per il talento, ma anche per l’umiltà, per la capacità di stare nell’ombra facendo risaltare il musicista, per le conoscenze tecniche (costruisce lui stesso alcuni strumenti) e la drammatica esperienza di vita che l’ha reso un uomo saggio. Per chi volesse documentarsi esiste anche il film-documentario di Rodolfo Gárate Unfinished Plan: The Path of Alain Johannes, che ne racconta vita e carriera attraverso le testimonianze di Chris Cornell, Mark Lanegan, Josh Homme e Matt Cameron, solo per citarne alcuni.

Nato nel 1962 a Santiago del Cile in una famiglia di artisti, è cresciuto negli Stati Uniti alimentando la passione per la musica nel periodo in cui stava germinando la scena cosiddetta alternativa. Negli anni ’80 ha incontrato la futura moglie Natasha Shneider e con lei ha formato gli Eleven. Quando è morta di cancro a 52 anni nel 2008, Johannes è scivolato in una profonda depressione. Nel giro di poco tempo ha perso anche la madre, il padre e l’amico fraterno Chris Cornell, a cui si è aggiunta una polmonite cronica sfiancante. Da queste esperienze è nato il terzo album solista intitolato Hum. Ce ne parla mentre è bloccato dal lockdown in Cile e cerca un volo per tornare negli Stati Uniti.

Hum è il titolo del tuo nuovo album, ma è anche la vibrazione da cui, secondo il testo sacro indiano dei Veda, ha avuto origine la creazione. Esiste una qualche connessione?
La creatività è un processo sacro e, nel mio caso, anche taumaturgico. Ho iniziato ad abbozzare i pezzi durante il periodo in cui ero depresso per la morte di mia moglie, dei miei genitori e di Chris Cornell, che era come un fratello. Volevo trascendere quella sofferenza. Ho fatto tutto da solo. Di notte, nel silenzio del mio piccolo studio di registrazione, mi connettevo con l’energia universale che percepisco fin da bambino e che ora, dopo tutte le mie perdite, sento ancora di più. Lasciavo che venisse a me nella forma di suono. Da qui il titolo Hum. Credo che la musica sia già scritta da qualche parte e che gli artisti siano solo dei canalizzatori di quella vibrazione cosmica che è presente ovunque e che pervade ogni cosa.

È un discorso che sfiora il misticismo.
Non sono un mistico, ma un essere umano dalla forte sensibilità che attraverso l’esperienza della morte ha capito che tutto è uno. Durante quei giorni di travaglio creativo e profondo malessere fisico ho sognato Natasha e Chris Cornell che mi incoraggiavano e mi suggerivano la via da seguire musicalmente. Ho capito che l’album doveva essere come un vinile anni ’70, per cui ho aggiunto fiati e armonium.

Com’era l’intesa tra te, Natasha e Chris Cornell?
Ho conosciuto Chris ai tempi dei Soundgarden e poi io e Natasha abbiamo co-prodotto con lui Euphoria Morning. Chris era una persona speciale e dolcissima, un talento enorme, un’anima pulita, per cui era meraviglioso stare in sua compagnia. Era un momento delicato per lui: i Soundgarden si erano sciolti, aveva avuto problemi di tossicodipendenza, personali e di salute. Le sue corde vocali erano in sofferenza un po’ perché quell’album era musicalmente impegnativo, un po’ perché erano danneggiate dall’abuso di alcol e sostanze stupefacenti, e difatti durante il tour ha dovuto cancellare alcune date. Era un artista delicato con una voce altrettanto delicata. Per lui Euphoria Morning rappresentava un’occasione di rinascita artistica e personale. In seguito ha scelto produttori più mainstream, ma siamo comunque rimasti in contatto, ci telefonavamo spesso e mi è stato vicino dopo la morte di mia moglie. Li sento entrambi accanto a me soprattutto quando creo canzoni, è come se lo facessimo ancora in tre e loro mi suggerissero le idee. La sua morte mi ha sconvolto anche perché non me l’aspettavo.

Non c’erano stati indizi circa l’intenzione di Cornell di farla finita?
Se ci sono stati, nessuno li ha colti. È vero che come molti ex tossicodipendenti soffriva di sbalzi di umore e che quindi si aiutava con gli antidepressivi, ma non è una ragione tale da giustificare un suicidio. Inoltre, era in un periodo felice della vita: adorava la famiglia, i figli e i membri della band. Era contento di esibirsi di nuovo con i Soundgarden. Perché avrebbe dovuto farla finita? L’avevo sentito di recente prima di quel dannato 18 maggio 2017 e mi pareva di ottimo umore. Perché fingere? Con uno come me poi, che ne aveva passate di ogni nella vita e che al suicidio ci aveva anche pensato, trovando comunque sempre una ragione per vivere. Non riesco ad accettare il suo suicidio e sono molto arrabbiato. Non sono un complottista, ma c’è qualcosa che non torna. Poi quella morte strana del suo amico Chester Bennington, che aveva persino cantato al suo funerale, il giorno del compleanno di Chris. Non lo so, sembra tutto fin troppo ben architettato per essere vero.

Lavori spesso con personaggi problematici. Non ti fa arrabbiare il fatto che scelgono l’autodistruzione mentre Natasha, con il cancro, non ha potuto scegliere affatto?
La vita è un percorso personale e ciascuno fa le sue scelte. Conosco il lato oscuro di molti musicisti e so che non è possibile convincere un tossicodipendente a non farsi. Prendiamo Layne Staley: nessuno è riuscito a salvarlo anche se molti ci hanno provato. Lo stesso vale per Scott Weiland che aveva una personalità fragile e debole. Chris Cornell pareva forte abbastanza da aver superato l’abisso, per questo nessuno si aspettava la sua morte. Il rock ha come fondamento epico quello dell’eccesso e molti musicisti credono che per fare musica occorra essere alterati e abbracciare uno stile di vita rock and roll. Ovviamente lavorare con artisti sobri è molto più semplice, ma quando mi trovo con una personalità difficile non la giudico: il mio compito è portare a casa un lavoro ben fatto costringendo l’artista a rimanere focalizzato.

Parliamo di uno che ha la fama del difficile, Mark Lanegan.
I musicisti devono poterti credere per lasciarsi andare e con Mark si è stabilita un’intesa eccellente. Io lo conosco e lui si fida. So che è una persona umorale e che bisogna saper cogliere il momento giusto per cui preparo tutto accuratamente prima che venga in studio. Ci sono volte che arriva, canta poche frasi con quella sua voce gutturale e se ne va, e quindi lavoro a posteriori io sugli arrangiamenti. Altre volte è più costante e concentrato e quindi imbastiamo i brani in acustico, anche con l’aiuto del chitarrista Aldo Struyf. Quando ad esempio abbiamo registrato Gravedigger’s Song o certi brani di Bubblegum abbiamo lavorato così. Con Mark ho imparato a cogliere l’attimo, la magia del momento e a rispettare il mistero della musica.

Lanegan ha fatto anche parte dei Queens of the Stone Age durante i due album in cui hai collaborato anche tu, ossia R e Songs for the Deaf.
I Queens erano all’epoca ragazzi giovani e selvaggi, rispecchiavano tutti i cliché delle rockstar. Erano bravissimi a ficcarsi nei guai, ma insieme abbiamo passato dei bei momenti. Conoscevo Josh Homme da prima e avevo intuito che sarebbe diventato qualcuno perché aveva già un approccio professionale alla musica, non pensava solo alle ragazze e a divertirsi. Inoltre era un artista umile, requisito fondamentale per non sedersi sugli allori e continuare ad evolversi. In seguito, mi ha voluto per le sue Desert Sessions e per i Them Crooked Vultures.

Con i Them Crooked Vultures sei andato in tour. Che ricordo ne hai?
Quando Natasha è morta ero disperato e Josh, da buon amico, mi ha offerto di collaborare al suo nuovo progetto per distrarmi. Abbiamo iniziato ad abbozzare i brani solo voce e chitarra, io e lui, ma poi mi ha coinvolto nella registrazione di alcuni pezzi. In quell’occasione ho incontrato John Paul Jones, persona squisita e mossa da una vera passione per la musica. Durante le pause del tour mi invitava a suonare con lui ed ero al settimo cielo visto che i Led Zeppelin sono da sempre una delle mie band preferite. Addirittura una volta sul palco è venuto davanti a me con il basso sorridendomi e io, emozionato come un ragazzino, ho smesso di suonare. Mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava ed ero io che mi ero incantato e avevo tolto le mani dallo strumento.

Esistono musicisti con cui vorresti collaborare?
David Bowie, ma è troppo tardi. Allora direi Thom Yorke e Fiona Apple. Mi piace chi sa restare libero, fuori dal ruolo della rockstar che spesso ingabbia la creatività, perché il personaggio uccide l’artista. La musica è un’entità delicata che esige rispetto e non supponenza.

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