C’è una dolcezza di fondo nelle canzoni del nuovo album di Alessandro Fiori Mi sono perso nel bosco. Finalista al Premio Tenco nel 2013, il cantautore aretino sta per tornare con un disco che è un racconto esistenziale in bilico tra levità e profondità, un’immersione nelle cose semplici della vita in cui amore e morte, paura e gioia non sono che l’espressione di un unico grande sogno: il fatto che siamo qui, che al di là di ogni disincanto possiamo giocarcela.
«L’ho scritto dopo avere attraversato un periodo di disillusione forte, che mi ha portato a chiedermi se non fosse il caso di smettere con la musica», racconta il 45enne, che pubblicherà questo suo quinto lavoro solista il prossimo 22 aprile. «Vivere facendo il cantautore non è facile, specie se hai figli come me l’incertezza insita in un mestiere come questo alla lunga stanca, a volte ti sembra di disperdere energie. Ma ha influito anche una serie di lutti: dopo avere avuto tutti i nonni con me anche in età adulta, li ho persi uno dopo l’altro nel giro di pochi mesi e questo mi ha portato a riflettere sulla mancanza, sulla perdita. A un certo punto mi era venuto a mancare lo stimolo e ho cominciato a pensare di fare della musica un hobby, di buttarmi in qualche altro altro lavoro più semplice. Se è andata diversamente è perché un sacco di amici e colleghi mi hanno aiutato, coccolato, fatto coraggio, confidato che la mia musica li ha ispirati. Alcuni di loro hanno poi partecipato al disco, da Marco Parente a Dente, da Colapesce a Dario Brunori. È stato bello, ed è bastato poco, questo piccolo slancio, per far sì che mi rimettessi a comporre. Tra l’altro al pianoforte, cosa che non accadeva da tanto, in pratica dal mio primo disco Attento a me stesso».
Anticipato dal singolo Amami meglio, Mi sono perso nel bosco segna l’approdo di Fiori alla 42 Records, l’etichetta di Dimartino e Colapesce, Andrea Laszlo De Simone, Cosmo. Un roster di qualità, in cui il cantautore, alle spalle quattro dischi solisti, una lunga militanza nei Mariposa e una varietà di altri progetti, s’inserisce con il suo talento di songwriter raffinato e poliedrico, non rinchiuso in stilemi preconfezionati. Ad accompagnarlo, alcuni dei migliori musicisti della scena odierna: un ensemble che a Giovanni Ferrario e Alessandro “Asso” Stefana, qui anche produttori, affianca, tra gli altri, Enrico Gabrielli, Massimo Martellotta, Niccolò Fornabaio, Emanuele Maniscalco, più un gruppetto di colleghi stretti – oltre ai nomi citati da Alessandro, compare Iosonouncane – per arrivare a Brunori Sas e Levante, ospiti al microfono in due brani. Fiori firma testi e musiche, canta e suona.
«L’idea era quella di un incrocio tra cantautorato e pop; idea per modo di dire, perché quando scrivo seguo l’istinto. Ma mentre arrangiavo i pezzi avevo in testa questo strano connubio tra il cantautorato italiano classico – quello di Endrigo, di Tenco, quello dei miei primi ascolti, delle cassettine che da bambino ascoltavo in macchina con i miei – e una produzione non canonica, leggermente stridente, un po’ alla Flaming Lips, il loro rock psichedelico mi piace molto».
Nelle 12 tracce dell’album c’è anche molto altro, una ricchezza compositiva che attingendo dalla classica come dal rock e dal folk va in più direzioni confluendo in arrangiamenti ricercati, in un pop di classe che nel rincorrersi di note di pianoforte, chitarre, bassi, synth, clavicembali, mellotron, violini, sax, clarinetti, flauti, armonium e tanto altro, mette in scena una scrittura alta, un’idea di canzone come costruzione di un paesaggio sonoro che è di per sé manifesto emotivo.
«È un po’ come se fossi ritornato a un approccio classicistico, anche se tra mille virgolette, solo come suggestione di partenza. Non so perché; potrebbe essere una reazione inconscia al fatto che la canzone in Italia vive un momento particolare, di trasformazione, di approdo a delle derive così nuove, in così poco tempo, che non capisci nemmeno cosa salvare e cosa no: ci sono cose straordinarie che magari non riesci a vedere per scetticismo, oppure cose troppo semplificate che però ti fai scorrere dentro perché, che so, magari perché sei padre e ai tuoi figli piacciono. In più il mio precedente lavoro, Plancton, era un disco sperimentale, con scampoli di canzoni all’interno di un grosso magma di elettronica: forse anche per questo mi è tornata la voglia di appoggiarmi a metodi che conosco e sento miei, per cui, come ai miei esordi da solista, mi sono messo al piano e via. Dopodiché spero che questi nuovi brani siano percepiti come vivi, freschi, pronti a mettersi in gioco, che riescano a conquistare da un punto di vista sentimentale. Perché io scrivo così, per amare ed essere amato, e se tutto questo non arriva, cosa lo faccio a fare questo mestiere?».
Lo canta anche nel disco, Fiori, che scrive per amare ed essere amato, ed è forse questo che ha a che fare con la dolcezza evocata all’inizio di questo articolo: la sua è una poetica che lascia affiorare uno sguardo romantico, fanciullesco, sognante, attraversato da guizzi di fantasia dal gusto a tratti surreale. Un esempio è Mi sono perso nel bosco, title track e assieme traccia di apertura. «Lì racconto lo smarrimento che ho provato prima di ricominciare a scrivere, lo descrivo come un brutto sogno che alla fine, nella canzone, si risolve con l’uscita dall’incubo, con la mano della mia compagna che in un immaginario quasi dantesco diventa un po’ come Beatrice che nel Paradiso sostituisce Virgilio, e quindi con la casa ritrovata, la nostra casa».
Tra gli altri brani, Una sera raggiunge un lirismo toccante, L’appuntamento ed Estate hanno il tocco della colonna sonora, Per il tuo compleanno evoca Gino Paoli, Stella cadente culla come una ninnananna. Poi ci sono i duetti: Io e te, con Brunori, malinconicamente arioso e riuscitissimo, e Fermo accanto a te con Levante, una sorpresa. «Rappresentano un timido avvicinamento a un mondo che rispetto al mio è più mainstream, mi hanno stimolato molto. Dario è un amico da tanti anni, da quando andava ancora in giro con il baffo e qualche chilo in più, e riuscire a coinvolgere in un pezzo come questo una cantante come Levante, che oltre a essere brava ha una sua estetica, è stato veramente spassoso».
La canzone ruota attorno a un incontro tra due ex che si sono lasciati: lui fa di tutto per strapparle una serata insieme, lei risponde sbattendogli in faccia la noia della routine. È ironica, giocosa, strappa più di un sorriso. «Non mi sono rifatto a un modello, però un tempo capitava che ci fossero queste canzoni scritte in forma quasi dialogica, con una voce maschile e una femminile. La cosa buffa è che in fase di scrittura non avevo pensato a Levante, ma alla Bertè: mi pareva, la sua, una tempra femminile adatta a un brano in cui il ruolo di lei è respingere le avance anche un po’ penose dell’ex. Alla fine il destino mi ha donato la voce meravigliosa di Levante e non posso che essere contento».
Il mood si fa più drammatico in Pigi pigi, scritta con Luca Caserta. «È il gestore di un locale storico di Avellino, il Godot Art Bistrot, ci lega un rapporto di stima reciproca. Un giorno mi ha fatto sentire questo pezzo che mi ha commosso, anche perché parla di un tema sempre troppo poco trattato, per quanto doloroso e clamoroso (si riferisce al dramma delle morti in mare, nda). E dunque l’ho preso con gioia, intervenendo solo sotto il profilo melodico e armonico per riadattarlo al mio cantato e al mio modo di veicolare le emozioni».
È la prima volta che Fiori include in un disco una canzone di un altro autore, ma anche qui il tono è delicato, coerente con un’opera che nel suo insieme poggia su un immaginario autobiografico in cui è la dimensione intima a farsi poesia. «Ho riascoltato da poco il mio primo disco» osserva lui a questo proposito «e mi sono accorto che col passare del tempo il mio interesse per una dialettica di tipo sociale e politico si è indebolito, probabilmente schermato dalla paternità. Sarà anche che quando nel passato ho scritto canzoni usando un grandangolo, poi ho notato che bastava passasse un po’ di tempo perché non fossi più del tutto d’accordo con le mie stesse idee, il che alimentava degli strani cortocircuiti. Per cui pian piano ho iniziato a guardare la realtà più da vicino, per cantare le piccole cose, i piccoli mondi. Non l’ho deciso, è successo. Del resto, sono 15 anni che vivo in montagna, a 700 metri di altitudine, nell’Appennino tosco-romagnolo. Abbiamo l’orto, le galline, le arnie, un rapporto con la vita giocato su gesti più quotidiani, più normali. Non condanno le città, né si tratta di avere slanci rivoluzionari, se in futuro i miei figli mi chiedessero di trasferirci a Milano lo farei. Per ora sto bene in questo modo di vivere trasognato, nelle giornate in cui ci si sveglia all’alba per portare la bimba al pulmino, magari a piedi perché la strada è congelata, e si saluta la civetta che è sempre lì, e il torrente…».
Ascoltandolo diventa chiaro come mai Mi sono perso nel bosco si chiuda con Troppo silenzio e con questi versi: “La vita è solo un sogno, dimenticato da un altro sogno, che s’è svegliato di soprassalto, perché ha sognato troppo silenzio, e si è spaventato”. «Faccio mio il motto di Calderón de la Barca, la vita è sogno, spingendolo all’ennesima potenza, al limite estremo in cui la vita è sogno di un sogno. Credo che il senso sia che tutto sommato, pur con i dolori, le difficoltà, le guerre che dobbiamo affrontare, tutto quello che succederà sarà comunque meglio che il niente assoluto, che non avere la possibilità di giocare a questo gioco insieme agli altri».