Quante vite ha vissuto Alice Cooper? Sembra il classico cliché rock’n’roll, ma sono pochi quelli che hanno osato tanto e sono riusciti sempre a rinascere. Te lo ricordi nei primi anni ’70 che mette a ferro e fuoco l’America, diventandone il nemico pubblico per eccellenza e uno degli artisti più influenti per chiunque abbia pubblicato un album dal 1973 in avanti (chiedere, tra gli altri, a New York Dolls, Aerosmith e Kiss). Poi pensi a lui all’inizio del decennio successivo, alcolizzato e disilluso, che cerca una nuova via senza trovarla, col pubblico e le case discografiche che lo abbandonano senza pietà nella sua miseria.
L’Alice Cooper di oggi nasce invece dall’amore delle persone che lo circondavano e che continuano a farlo: quello della moglie, in primis, e quello dei tanti discepoli che hanno deciso che uno come lui non poteva finire così male. E per Trash, l’album della rinascita, si sono messi in tanti a dargli una mano. Una dimostrazione d’affetto che Cooper ha ripagato lasciando da parte i vecchi vizi e proponendosi a una nuova generazione di fan con più entusiasmo e ispirazione che mai. Perché ogni volta in cui è morto metaforicamente, Alice è riuscito a rinascere con un pizzico di consapevolezza in più. Quella che a ogni ricaduta gli è servita a non morire mai davvero come tutti i vecchi amici che da anni celebra insieme a Joe Perry e Johnny Depp negli Hollywood Vampires.
Perché la cosa più bella di Cooper oggi è proprio quella di contrapporre autocompiacimento e autocelebrazione a consigli da vecchio saggio, da nonno che ti dice: «Fai quello che dico e non quello che ho fatto». Il tutto senza un briciolo di moralismo da sopravvissuto e condito da quel mix iconico di ironia macabra e nostalgia vera, che non ti fa mai capire bene quale sia il limite tra le sue due anime e che trova oggi il suo apice nella nuova Rules of the Road, sorta di vademecum semiserio in cui sembra dirti: «Io ti insegno tutto per poter morire a 27 anni come i tuoi più grandi eroi, poi scegli tu in che modo farlo».
Il nuovo album Road in questo senso è forse l’album più autobiografico di un artista che comunque non ha mai avuto paura di mettere in piazza la propria vita, senza paura di tralasciare gli aspetti più terribili e i punti più bassi. Per i quali prova sicuramente vergogna, ma che sa perfettamente essere inutile nascondere. Per tutto questo, parlare con lui è sempre un’esperienza difficile da dimenticare. Piccolo inciso: l’intervista è stata fatta prima che Cooper si esponesse apertamente sulla questione della transizione di genere (definita una moda passeggera) e in generale sull’argomento wokeness, benché fin dagli esordi si fosse sempre apertamente schierato a favore di pansessualità e bisessualità.
Un giorno Tommy Lee mi ha detto: «Il più grande errore che puoi commettere nel nostro mondo (e io l’ho commesso) è chiedere ad Alice Cooper di aprire un tuo concerto, perché non puoi competere con Dio».
(Ride) A un certo punto della mia carriera, quando ero arrivato a far fatica persino a raggiungere il luogo dove avrei dovuto tenere un concerto, ho promesso a me stesso che non avrei mai fatto più pentire qualcuno dopo avermi ingaggiato o dopo aver assistito a un mio show. Negli anni ’70 e ’80 vendere bene significava diventare ricchi, ma io spendevo più per gli aftershow rispetto a quello che guadagnavo. Oggi tutto si è invertito e se non cercassi ogni volta di mettere in piedi lo show migliore della mia carriera, mi avrebbero già invitato gentilmente a passare il resto del mio tempo a giocare a golf. Mentre quello lo posso fare nei mesi in cui non giro per il mondo. Non tornerei mai a quando avevo 25 anni, perché ero da buttare. Oggi vivo il momento migliore della mia vita.
Hai parlato del golf, un argomento cui gira intorno gran parte della tua autobiografia. Un libro in cui parli molto anche di Dio. Sono loro ad averti salvato?
Pur avendo spesso trattato temi spaventosi, orrorifici o comunque legati ai lati oscuri di ognuno di noi, ho sempre avuto una fede fortissima, cui ho potuto attingere nei momenti peggiori. Un’altra cosa che spesso la gente mi dice sembrare impensabile è che Alice Cooper sia un patito di golf. In realtà è uno sport in cui il lato spirituale è molto forte. Non per forza di cose in senso religioso, ma da un punto di vista squisitamente introspettivo. Sicuramente le due cose mi hanno aiutato, ma a farlo nella pratica sono stati sempre mia moglie e quei colleghi che mi non mi hanno mai fatto mancare il loro amore.
Eppure oggi tanti di quei colleghi, anche più giovani di te, dal vivo spesso arrancano, a differenza tua.
Io sono stato solo fortunato, avevo una dipendenza seria e tanti prima e dopo di me non hanno avuto seconde possibilità. Però me la sono anche goduta e mi piace ancora giocarci, anche se non con cinismo. Diciamo che non sono diventato un bacchettone dopo aver passato quello che ho passato. E parlando di gruppi che non pensavo potessero arrivare ad oggi, ho visto da poco i miei amici Guns N’ Roses. Ecco, ogni volta che ci si vedeva alla fine degli anni ’80 li salutavo uno per uno abbracciandoli forte, perché poteva sempre essere l’ultima. Non ho mai visto nessuno rovinarsi come loro ogni sera.
Beh, Road è un po’ la celebrazione di tutto questo: vivere perennemente sulla strada e vederla a un certo punto come un fissa dimora. Quasi un ossimoro.
Sì, è il paradosso di chi passa la vita a suonare per il mondo, per cui la strada e le sue linee bianche continue diventano l’unica cosa certa. Parlo di una situazione che quando diventi troppo famoso smetti di vivere, ma che abbiamo vissuto tutti. Un po’ come il concetto dietro al documentario di Dave Grohl sul suo van. Io in realtà continuo a viaggiare in bus, quindi non è solo la celebrazione di una cosa simbolica o legata al mio passato, ma qualcosa che vivo ancora oggi. Per questo io e Bob (Ezrin, nda) abbiamo deciso di dare completamente spazio alla mia touring band, perché sono loro a rendere possibile tutto questo.
Oltre ad essere a tutti gli effetti un concept, Road sembra uno dei tuoi album più autobiografici.
Anche nei casi in cui può sembrarlo meno, scrivo sempre di me. Credo che in generale non esista scrittura che non sia autobiografica, in modo più o meno esplicito. Diciamo che ho cercato di creare un racconto che trattasse tutti gli aspetti e tutti i protagonisti di quello che viviamo in tour. Sempre con una buona dose di ironia. Prendi I’m Alice: è chiaramente autoreferenziale prima ancora che autobiografica in senso stretto, ma gioca anche molto su come sono stato visto dall’esterno per anni. Non a caso alla fine parlo di me come se fossi una semplice proiezione dei miei fan. Che compare e sparisce a piacimento come ogni cosa frutto di immaginazione.
Stessa cosa potremmo dire di White Line Frankenstein, Rules Of The Road e Big Boots…
Sì, per l’ultima diciamo che il gioco di parole è fin troppo puerile, ma pure io ormai devo stare attento a tutto quello che metto nero su bianco (ride). Con Rules of the Road invece ho cercato di mettere giù le regole per diventare una rockstar. Io vi insegno come fare a morire giovani e famosi, poi sta a voi. Avete sempre il libero arbitrio. Invece White Line Frankenstein è il mio personale tributo a tutti i driver che ho conosciuto. Sono persone diverse da chiunque altro. Non tutti possono guidare un tour bus, è una specie di vocazione. Sono serio, sono quasi dei martiri del rock’n’roll. Le linee bianche sono chiaramente quelle della strada…
Non tutti lo sanno, soprattutto i più giovani, ma nella tua carriera hai attraversato più generi. Dagli inizi molto influenzati da Zappa, dischi classici con cui sei esploso, per poi toccare new wave e rock d’avanguardia nei primi anni ’80 e trovarti icona dell’hair metal pochi anni dopo. Hai persino fatto qualche grande disco industrial all’inizio del millennio. Era solo voglia di sperimentare o ricerca di qualcosa che non trovavi?
Quando andai in mille pezzi, fu come se avessi perso anche tutto quello di cui ero sicuro. Mi ritrovai senza lucidità e isolato, ma soprattutto senza certezze. Quindi c’è differenza tra la prima parte del percorso di cui parli, che ritengo quella classica dei giovani musicisti che cercano di capire che siano, e la seconda. Eppure, nella sua schizofrenia, anche la successiva ha un senso. Lì puoi vedere tutte le mie fragilità, ma anche la voglia di tornare ad essere me stesso. Infatti a un certo punto ho fatto pace col periodo che ritenevo essere stato la causa dei miei problemi, quello della prima metà degli anni ’70, e musicalmente sono ripartito da lì.
Ho sempre pensato a cosa potesse cantare uno come Alice Cooper sotto la doccia.
Mi spiace amico, ma sarò banale. In genere non canto, ma quando sono ispirato metto uno dei miei cilindri, prendo il bastone e intono Singin’ in the Rain (e me la canta tutta, nda).