In questi tempi di ritmi rallentati e incertezze siamo tutti portati al ricordo, al recupero di un passato di cui sentiamo nostalgia. Ne sanno qualcosa i Subsonica, che in quarantena si sono messi a cercare nei loro archivi ricavandone quello che oggi esce come un nuovo album, il loro nono, ma che in realtà è un album vecchio, registrato nel 2004 e mai pubblicato. Un disco a sorpresa, strumentale e quindi inconsueto per la produzione della band torinese, realizzato in un momento particolare.
Dopo il tour di Amorematico e l’uscita del live Controllo del livello di rombo Samuel, Max Casacci e soci avevano un contratto in scadenza con la loro etichetta di allora, la Mescal, il rapporto con la quale era, però, consumato al limite del logoramento. Non volevano rinnovarlo, quel contratto, erano decisi a trovare una nuova via per garantirsi una rinnovata libertà artistica, ma gli restavano ancora due album, o un doppio, da consegnare alla stessa Mescal prima di poter cambiare rotta. Optarono per un disco strumentale ed è quel disco, che la Mescal si rifiutò di dare alle stampe, che ora abbiamo tra le mani con il titolo Mentale strumentale: dieci brani che intrecciando synth analogici, percussioni, strumenti a corde, voci ‘sfigurate’ e tanti multi-effetto ci conducono idealmente nell’iperspazio o in chissà quale universo lontano attraverso paesaggi sonori in bilico tra oscurità e luce.
Il gruppo di Microchip emozionale ci mostra, così, il suo lato più sperimentale: niente canzoni, niente ritornelli, niente ritmi da ballare, qui il viaggio è imbevuto di ascolti di colonne sonore e di dischi come Amnesiac dei Radiohead e Drukqs di Aphex Twin. «Nel mezzo di questa sospensione temporale cui siamo stati costretti, nel mezzo di questo momento di riflessione forzata e collettiva, è come se si fosse creata improvvisamente la condizione giusta per regalarlo al nostro pubblico e a chi vorrà ascoltarlo», dice Max Casacci.
Come mai avete deciso di riesumare questo album ora?
È un album di cui siamo sempre andati fieri, rappresenta un momento molto importante della nostra storia. Abbiamo più volte cercato un’occasione per pubblicarlo, ma essendo così diverso dal nostro solito passo di marcia non eravamo mai riusciti a trovare la cornice adatta. Oggi riteniamo possa incoraggiare a guardare le cose da una prospettiva diversa, e una prospettiva diversa serve, se si vuole che questo mondo migliori.
La musica non può cambiare il mondo, ma può cambiare il nostro sguardo sul mondo.
Il suono nutre il pensiero, diceva un pensatore: è la frase che ci ha fatto da sottotesto nel momento in cui questo disco stava prendendo forma. Ecco, nel mondo sospeso di oggi, tra tutte le ansie, le paure e le speranze che si avvicendano dentro di noi, ci è sembrato opportuno proporre un album che crediamo possa stimolare un’ispirazione, accompagnare un viaggio interiore attraverso gli spazi e i tempi di queste giornate così particolari. Molto più opportuno che presentare la versione di noi stessi in ciabatte e pigiama su Instagram.
La versione in cui sentiamo il disco oggi è proprio quella che avevate registrato nel 2004 o ci sono stati rimaneggiamenti?
Quello che si sente è esattamente quello che è stato inciso e mixato all’epoca. L’intervento che è stato fatto è di altro tipo, ossia abbiamo selezionato le dieci tracce che compongono l’album partendo dal doppio del materiale. Dopodiché le abbiamo rifinite dal punto di vista dell’editing, per cui alcuni pezzi sono stati un po’ ridotti in modo da mettere maggiormente a fuoco le suggestioni che possono evocare.
Chiaro. Anche perché dovevate consegnare alla Mescal ancora due album o un doppio…
Sì, abbiamo preferito concentrarci sui brani più strutturati, perché gli altri dieci che avevamo — e che abbiamo ancora, naturalmente — erano più astratti. Non è detto che in futuro non pubblicheremo le tracce restanti, forti magari anche di questo primo esperimento. Vediamo se il pubblico è disposto a seguirci in questo percorso, c’è ancora dell’ottimo materiale nel cassetto.
Anche i titoli delle dieci tracce suggeriscono l’idea del viaggio: si parte da Decollo – Voce off per chiudere con Rientro in atmosfera. Ciascuno potrà viverlo a modo suo, questo viaggio, ma voi come lo avevate concepito?
Come un viaggio che deve scuoterti e che, dunque, non può essere la replica della tua comfort zone traslata semplicemente altrove. Motivo per cui la traccia d’apertura è il momento più importante, perché è davvero come un decollo che provoca scossoni, fa venire in mente il lancio di un razzo nello spazio, esprime anche bene l’aspetto un po’ traumatico del distaccarsi da una consuetudine. E sotto il profilo strettamente musicale per i nostri fan la consuetudine è la forma canzone.
Una componente di vocalità, però, non manca.
Come del resto non mancava in alcuni esperimenti primigeni dei Subsonica: le prime cose che facemmo dal vivo furono dei live strumentali dentro a gallerie d’arte e nell’ambito di eventi legati al mondo dell’arte e dell’architettura, e lì Samuel era impegnato a vocalizzare degli effetti e a suonare voci registrate su nastro.
Come credete reagiranno i vostri fan?
Di sicuro la prima traccia non concede molto, o ti respinge o ci entri dentro; se ci entri dentro, allora puoi arrivare anche a degli spazi più morbidi, più sognanti. Il bello dei dischi strumentali è che a ogni ascolto la percezione di ciò che senti cambia — penso, per esempio, ai lavori di Brian Eno che mi hanno formato, ogni volta che li ascolto ne ricavo suggestioni diverse. Questo fa sì che certi album non invecchino e penso sia il motivo per cui nemmeno questi nostri pezzi, pur se risalenti a più di 15 anni fa, non siano invecchiati. Anche grazie al modo in cui volevamo esprimerci in quel particolare periodo.
A cosa ti riferisci?
Al fatto che in questo disco di elettronica e di programmazione digitale c’è molto poco, ed è uno dei motivi per cui non ha subìto l’obsolescenza del tempo. Se avessimo usato degli strumenti digitali anziché dei synth analogici, le sonorità sarebbero risultate quelle della metà degli anni Zero. Invece ci sembra che tutto suoni perfettamente attuale, o almeno questa è l’impressione che abbiamo.
Mi ha colpito A di addio, brano che eleva quasi a un livello spirituale, con una voce femminile accreditata a tale Madame Mystère: chi è?
Mi strappi un sorriso, hai aperto una botola che adesso… Allora, Madame Mystère non ci ricordiamo chi sia.
Di sicuro è una donna.
Sì, sì, non sto eludendo la domanda. All’epoca lo studio Casasonica si trovava in piazza Vittorio a Torino, di fianco a un bar storico, il Caffè Elena, noto anche perché era stato frequentato da Cesare Pavese. Ebbene, noi in quel bar ci andavamo spesso e una barista era una cantante lirica che io avevo già utilizzato in un pezzo degli Assalti Frontali che avevo prodotto e che ho poi coinvolto, appunto, per il brano A di addio. Ne è venuta fuori una progressione armonica secondo me molto bella, il problema è che sono passati talmente tanti anni che questa barista-cantante nel frattempo l’abbiamo persa di vista e oltretutto non ci ricordiamo come si chiami. Nemmeno gli Assalti Frontali ci hanno potuto aiutare: per qualche motivo non l’avevano messa nei crediti e neppure loro rammentano il nome. E quindi…
E quindi facciamo un appello perché Madame Mystère si palesi.
Eh, sì, era anche molto brava.
Qual era il mondo sonoro in cui i Subsonica erano immersi in quel 2004? Alcune influenze, dai Radiohead di Amnesiac a certe colonne sonore italiane degli anni ’70, sono piuttosto evidenti in alcuni punti del disco.
Come dicevo noi avevamo iniziato proprio con dei live strumentali, ma indubbiamente Amnesiac ha fatto sì che un pubblico crescente apprezzasse un certo tipo di musica più sperimentale. Per quanto riguarda la cinematografia italiana c’entra ovviamente il fatto che Casasonica aveva sede nello studio cinematografico di mio padre (l’attore e regista Ferruccio Casacci, nda), quindi noi ci siamo sempre mossi tra pizze, moviole, proiettori. Ma c’entra anche un’esigenza che all’epoca sentivamo molto, ossia quella di garantirci, tramite certi riferimenti, un’italianità, un retrogusto italiano che fosse veramente nostro. Calcola che io ai tempi certe sonorità prese dal cinema le avevo un po’ sperimentate con i Sikitikis, e non c’erano ancora i Calibro 35. E in Amorematico, del 2002, un brano come Ieri giocava con alcune idee morriconiane. Senza contare che mio padre aveva dei cataloghi di sonorizzazione con dei nomi fantastici, tipo Alberico Vitalini, Vibrazioni Lunari, materiale che ascoltavamo sempre con grande curiosità.
In alcuni passaggi di Mentale strumentale si aggiungono anche delle tinte esotiche.
Questo perché sempre all’epoca avevano aperto in corso Regina un negozio specializzato in strumenti del mondo, diciamo etnici, e io e Boosta ogni tanto ci andavamo e ci davamo all’acquisto compulsivo (ride, nda). È la ragione per cui nel disco si sentono qua e là delle corde boliviane, un bodhran indiano, un balafon dell’Alto Volta.
Stiamo vivendo una sospensione del tempo, dicevi, e in una situazione del genere si auspicherebbe una riflessione volta a un cambiamento. Non ti sembra, invece, che tutti vogliano tornare il più rapidamente possibile alla vita di prima e alle stesse pratiche che ci hanno condotti a questo disastro?
Queste sono fasi in cui si ha paura di abbandonare il mondo così come lo si era conosciuto, è il motivo per cui dopo nemmeno due giorni che eravamo in casa tanti musicisti si sono messi a fare dirette streaming, quasi per sostituire la possibilità di suonare dal vivo con un surrogato digitale. Dopo c’è stato il momento “andrà tutto bene, il mondo cambierà in meglio”, atteggiamento legittimo e che, anzi, da inguaribile idealista quale sono non denigro, ma vi ho avvertito un po’ il tic, una sorta di riflesso condizionato. Sta di fatto, però, che le cose cambieranno davvero e che questa pandemia ha fermato una direzione di marcia che ci era sfuggita dalle mani. Ormai eravamo assuefatti alle notizie allarmanti riguardanti la condizione del pianeta, per esempio, e anche disconnessi dalla percezione di appartenere a una collettività.
Dunque, che cosa ti aspetti?
Da un lato percepisco un nuovo senso di appartenenza che per le persone della mia generazione è una bella riappropriazione di elementi di coscienza, di consapevolezza. Dall’altro penso che gli adolescenti si siano resi conto che certe azioni individuali possono influire sulla realtà collettiva, che ogni scelta comporta una responsabilità sociale, ed è un insegnamento che credo si porteranno dentro per molto, che resterà in circolazione per anni. Non solo: chiudendoci in casa per il bene comune abbiamo dimostrato di essere capaci di immaginare e articolare un’azione collettiva, e allora chissà, forse potremo agire collettivamente anche per salvaguardare l’ambiente. Fino a ieri sembrava impensabile, adesso non abbiamo più scuse.
E con la musica, che si fa?
Io credo che dovremo tornare a creare situazioni di socialità attraverso la musica in condizioni di sicurezza — il che significa con concentrazione di meno persone — e quindi magari a guardare anche a musicisti che non conosciamo e che sono quelli che in questo momento patiscono maggiormente la precarietà. Ce ne sono tantissimi e molti sono bravi, diamogli spazio per ricominciare dal piccolo e dal nuovo. La fame di musica che in questo periodo senza concerti avvertiamo potrebbe farci diventare degli ascoltatori migliori.