La prima volta che il nome di Aloe Blacc è arrivato alle orecchie del grande pubblico è stato nell’ormai lontano 2010. Non era un esordiente totale: come rapper si era già fatto un nome nel circuito underground, prima con il duo Emanon e poi da solista, ma aveva appena deciso di abbandonare l’hip hop («È un genere troppo dominato dall’ego», aveva dichiarato all’epoca) e di iniziare a cantare. E il suo primo singolo da cantante, I Need a Dollar, era stato scelto come sigla per la serie HBO How to Make It in America, raggiungendo un discreto successo globale. Tre anni dopo, la sua popolarità è letteralmente esplosa grazie alla hit di Avicii Wake Me Up, che vedeva Aloe prestare la voce alle contagiose melodie del produttore EDM più famoso del momento. L’album che era seguito a ruota nello stesso anno, Lift Your Spirit, era stato accolto molto positivamente, consolidandone la fama. Dopodiché, però, l’artista è quasi scomparso dai radar: a parte un album natalizio del 2018, Christmas Funk, e nonostante qualche comparsata in progetti collettivi o altrui, non ha più pubblicato un lavoro solista a suo nome. Almeno fino ad oggi, perché venerdì scorso è uscito il disco che segna il suo ritorno, All Love Everything, e la domanda che tutti non possono fare a meno di porgli è fin troppo scontata: che fine aveva fatto?
«In realtà non ho mai smesso di fare musica: semplicemente, ho deciso di focalizzarmi maggiormente sulla famiglia. Volevo essere più presente per mia figlia Mandela, che era appena nata quando è uscito Lift Your Spirit, e di godermi del tempo a casa con lei e mia moglie», spiega lui, in collegamento via Zoom dal suo home studio. «Nel mentre ho registrato moltissime canzoni e ho avuto moltissime idee per album e progetti diversi, ma l’unico che contava davvero per me era questo: un disco che raccogliesse le mie esperienze di padre e marito».
In effetti, All Love Everything è un album molto intimo, che non ha un genere preciso: la coesione deriva soprattutto dalle tematiche, ispiranti e piene di sentimenti, e dalle atmosfere, calde e familiari. «Voglio che mia figlia possa ascoltare ciò che faccio, che possa apprezzarlo», racconta Aloe Blacc. «Paradossalmente non è così complicato fare musica per gli adulti, ma con i bambini è molto più difficile. Ho dovuto imparare a raccontare storie da una nuova prospettiva. E in un periodo in cui molti di noi sono a casa per prendersi cura delle proprie famiglie, magari ascoltare brani che raccontano le piccole cose belle della vita darà conforto a qualcuno». Storie come quella dell’ultima traccia, Harvard, in cui paragona l’esistenza di chi ha ricevuto un’istruzione di lusso a quella di una donna che lavora tantissimo e fa due o tre lavori per mantenersi, attraversando un’infinità di problemi. «È una delle mie canzoni preferite, l’ho messa alla fine dell’album perché contiene una sorta di messaggio universale», racconta, ridendo all’idea dell’effetto che potrebbe sortire nel celebre ateneo della Ivy League, visto che il succo del discorso è che non c’è bisogno di frequentarlo per realizzarsi nella vita, e che abbiamo tutti il diritto di sognare in grande. «Magari la ascolteranno e decideranno di aprire una facoltà di musica, chissà» (ad Harvard esiste un dipartimento di musica che offre corsi di laurea di primo livello e magistrale, ndr).
Colpisce molto la trasformazione che Aloe Blacc ha compiuto negli anni: le sue sonorità di oggi non assomigliano affatto a quelle di Good Things, il suo apprezzatissimo album di debutto. Sono meno smaccatamente black e più variegate e universali, il che può essere visto come un’evoluzione positiva o una perdita di identità, a seconda dei punti di vista. In realtà, dice il diretto interessato, quella che ascoltiamo in All Love Everything è solo una minuscola porzione del suo mondo. «Parallelamente a questo disco ne ho realizzato un altro, che ha degli arrangiamenti più simili a quelli di Good Things, con atmosfere che richiamano al soul degli anni ’60 e ’70», rivela. «Più avanti pubblicherò anche quello, ma ora la mia priorità era raccontare il momento della vita che sto attraversando».
L’idea di vestire anche queste canzoni con un sound più soul lo aveva sfiorato, ma «non mi sembrava il modo giusto, volevo che riflettessero tutti gli aspetti di me stesso. Ad esempio, i miei genitori vengono da Panama, e sono cresciuto ascoltando la salsa e la musica caraibica, così per la prima traccia del disco, Family, ho scelto quelle sonorità». La sua palette sonora, in effetti, è sempre stata molto variegata: si è fatto inizialmente apprezzare per i suoi richiami al soul, al funk e all’R&B d’annata, e ha raggiunto il successo planetario grazie alla dance e al pop, ma non ha mai abbandonato il rap, tanto che nel 2016, dopo una pausa di oltre dieci anni, è tornato a unire le forze con il suo ex socio e produttore Exile, e ha pubblicato un nuovo album hip hop a nome del duo Emanon. «Io ed Exile stiamo ancora lavorando insieme e abbiamo già un album pronto, ma non abbiamo fretta di pubblicarlo». In parte è anche perché non si ritrova molto nelle tendenze che oggi dominano il genere. «La musica è da sempre allo stato fluido: si trasforma costantemente ed evolve in qualcosa di nuovo. Ciascuno di noi, però, resta attaccato a ciò che ama, e io amo l’hip hop classico. Chissà dove ci porteranno i prossimi trend ma, per come suona adesso, c’è spazio per un’enorme rivoluzione all’interno della scena rap».
Anche con l’EDM non ha mai troncato i legami: dopo il trionfo di Wake Me Up, Aloe Blacc ha lavorato con Owl City, Tiësto e molti altri. Sarà sempre debitore ad Avicii per avergli aperto quella strada, dice. «Sfortunatamente la nostra era una relazione soprattutto professionale: di fatto ho avuto modo di conoscerlo un po’ solo in studio di registrazione e sul palco, perché era sempre in giro per il mondo e, quando finalmente si fermava, preferiva starsene in ambienti tranquilli e lontani da tutto. Ma collaborare con Avicii è stato speciale. Era molto determinato e appassionato, adorava la musica, e riusciva a rendere memorabile una canzone non solo per il testo e per la melodia, ma anche per tutto l’arrangiamento strumentale». C’è chi sostiene che oggi la scena EDM sia troppo bianco-centrica ed escluda gli artisti neri; in parte Aloe è d’accordo con questa tesi. «Oggi la maggior parte della dance ha un approccio meno musicale rispetto al passato, e a parecchi artisti neri quella componente manca moltissimo. Mancano gli accordi, i testi, i sentimenti che si trovano di solito in tutti i generi musicali nati dalla diaspora africana». Ne fa anche una questione di abitudini ricreative, per così dire. «Quella dell’EDM è una cultura molto legata ai festival, luoghi dove è considerato sicuro per i ragazzi assumere certe droghe sintetiche. Tradizionalmente, però, i neri non assumono quel tipo di droga: secondo me, anche per questo restano più ai margini di quella scena e di quell’ambiente».
Aloe Blacc da sempre è molto attento a tutto ciò che accade all’interno della comunità nera, perché parallelamente alla carriera musicale è un attivista in prima linea nella lotta per i diritti civili. «Mi definisco un artivista, in realtà: cerco di usare la mia arte per creare un cambiamento positivo, e tutti i mezzi che ho a disposizione per parlare di problemi importanti». Per tutta la durata del lockdown, ad esempio, ha usato il suo canale Instagram per portare avanti una serie di dibattiti in diretta sul movimento Black Lives Matter, l’immunità processuale di cui godono molte autorità, le disuguaglianze sociali e molti altri argomenti. Dopo la morte di George Floyd e le proteste massicce nelle strade degli Stati Uniti e del mondo, ritiene che le istituzioni abbiano recepito il messaggio, «ma non stanno cambiando. Negli anni, mentre noi dormivamo sulla questione, hanno creato un sistema legislativo che le favorisce in tutti i modi. Da oggi in poi vorrei che la gente prestasse attenzione sia alla mia musica, sia alle cause che mi stanno a cuore: i miei doveri civili di cittadino e il dibattito pubblico della mia nazione dovrebbero essere più importanti del mondo dello spettacolo».
Come tutti, spera che le elezioni di novembre possano essere un primo passo nella direzione giusta, anche perché in tempi di Coronavirus un presidente democratico e favorevole alla sanità gratuita per tutti è ancora più cruciale. «In America, una malattia ti basta e ti avanza per diventare povero. Se hai un problema medico e non hai un’assicurazione, dovrai pagare tutte le cure di tasca tua, e se non puoi andare al lavoro perché sei malato, non sarai in grado di farlo neanche se il tuo stipendio è molto alto», spiega. «Rischi di perdere la casa, di andare in rovina. Obama aveva provato a rimediare a tutto ciò, ma ci è riuscito solo in parte. Per fortuna, però, gli americani hanno capito che il cambiamento è nelle loro mani e che votare è indispensabile: il fatto che così tante persone siano rimaste in silenzio durante la scorsa tornata è il motivo per cui adesso ci ritroviamo Trump nello Studio Ovale».