Cantautore d’altri tempi e oltre i tempi, Gabriele Mencacci Amalfitano, in arte Amalfitano. Abbiamo avuto il piacere di conoscerlo dal vivo lo scorso febbraio a OGR Club, il format che si svolge nei suggestivi spazi del Duomo delle Officine Grandi Riparazioni (OGR) di Torino in cui gli artisti si esibiscono a stretto e intimo contatto con il pubblico. Il cantautore romano per l’occasione aveva suonato le canzoni del suo primo disco solista, intitolato “Il disco di Palermo” in onore della città che ha adottato le registrazioni dell’album, ma ora è al nuovo lavoro su un secondo album che vanta la produzione di Francesco Bianconi dei Baustelle alla produzione.
In anticipo sulla sua prossima data prevista per il 30 marzo all’Alcazar Live di Roma, abbiamo fatto due chiacchiere con lui, per scoprire presente, passato e futuro della sua musica sospesa nel tempo.
Partiamo dal tuo primo lavoro, Il disco di Palermo: raccontaci come nasce.
Il disco di Palermo è nato dopo che per sette anni ho avuto un progetto in inglese che si chiamava Joe Victor. All’inizio mi veniva spontaneo scrivere in inglese per via dei miei ascolti, dato che sono cresciuto con la musica americana e inglese e ho iniziato a scrivere seguendo quei modelli. Durante l’esperienza con i Joe Victor ci siamo interfacciati sempre più spesso con la scena indipendente italiana, e in maniera naturale ho iniziato a scrivere sempre più spesso in italiano, e quando i Joe Victor sono finiti mi sono trovato con una manciata di canzoni già pronte. In quel periodo stavo spesso a Palermo, un po’ per amore, un po’ perché mi piaceva la città e un po’ per evadere da Roma, e avevo conosciuto la scena musicale che ruotava attorno alla 800A Records e agli Indigo Studios: confrontandomi con loro ci siamo detti che quella manciata di canzoni erano da produrre, e che andava fatto a Palermo. Così mi sono trasferito lì per registrare il disco, che era pronto a fine 2019 e in programma per uscire a marzo 2020.
Abbiamo già capito…
Sì, con la pandemia abbiamo dovuto rimandare: è iniziato un periodo surreale in cui eravamo all’interno di Sugar, un’etichetta importante, e in cui si continuava a riprogrammare, ma il disco continuava a non uscire. Abbiamo centellinato qualche singolo provando a stare dietro ai pochi momenti di apertura. Il disco non aveva un titolo, ma parlando tra di noi lo chiamavamo il disco di Palermo”. Del tipo: “oh, ma il disco di Palermo quand’è che esce?”. E alla fine lo abbiamo chiamato così.
Estate Capodanno, uno dei brani de Il disco di Palermo, in ogni caso, è entrato a far parte della colonna sonora di Summertime.
Esperienza incredibile: una sera mi ha scritto un fan per dirmi questa cosa. Io non ne sapevo niente, e non conoscevo nemmeno la serie. Mi ha fatto molto piacere, anche perché secondo me il sync è venuto bene: c’era questa scena tutte luci ambientata in un luna park accompagnata dal mio brano. La cosa è finita lì, ma è stata molto piacevole.
Roma, Palermo, sicuramente Milano durante la parentesi con Sugar: la tua esperienza musicale gravita attorno a un asse che copre tutto il Paese: come lo vedi, da musicista, questo Paese?
Credo che l’Italia sia molto unita per quanto riguarda il panorama alternativo, nel senso che mi sembra che ci siano degli ascolti molto attenti tra le realtà giovani da nord a sud. Chiaro poi che quando si tratta di mainstream cambia proprio il pianeta, e che ci sono delle differenze di approccio e di coinvolgimento da una città all’altra, che si vedono soprattutto quando si suona dal vivo: suonare a Milano e suonare a Palermo sono due esperienze molto diverse. Però l’attenzione alla musica indipendente di per sé mi sembra molto omogenea, non ci sono posti in cui la musica non arriva.
E a proposito di musica indipendente italiana, al momento stai lavorando a un disco con uno dei santini della scena: come hai conosciuto Francesco Bianconi, e come è diventato il tuo produttore?
Durante il periodo in Sugar l’etichetta si era innamorata delle canzoni nuove e aveva spinto affinché ci fosse un produttore artistico di un certo tipo, e quindi ci aveva fatto conoscere Francesco. Quando poi sono uscito da Sugar, l’ho comunque richiamato per dirgli che, nonostante non fossi più in etichetta, mi sarebbe piaciuto in ogni caso lavorare con lui al disco nuovo. Lui mi ha risposto che le canzoni gli piacevano molto e che avrebbe voluto fare questa cosa a tutti i costi. È stato molto bello, e quindi siamo riusciti lo stesso a lavorare insieme.
Sicuramente ti verrà facile dire che cosa hai imparato da lui, ma oltre a questo vorrei chiederti se pensi che lui abbia imparato qualcosa da te.
Guarda, io ho avuto la fortuna di lavorare con produttori molto bravi e molto importanti, come ad esempio Matteo Cantaluppi, e da ognuno di loro penso di aver imparato qualcosa. Quello che mi ha lasciato questa esperienza con Bianconi è molto diverso rispetto alle altre esperienze, perché lui ha un approccio molto personale e particolare alla produzione. Da lui ho imparato una visione unica. Mi ha insegnato che se si inizia a prestare attenzione ai dettagli giusti la canzone può cambiare completamente vibrazione anche senza stravolgimenti: penso per esempio all’allungamento o meno di piccole componenti metriche, al lancio di un ritornello, a piccolezze di questo tipo che svoltavano davvero i pezzi. Un’attenzione al chicco di riso che nel suo caso è quasi magica. Di solito uno pensa di cambiare il suono di batteria, il giro di chitarra, le parole. Lui invece si concentrava su cose minuscole e davvero i pezzi cambiavano grazie a queste attenzioni.
Non mi hai risposto alla seconda parte della domanda…
Non lo so se lui ha imparato qualcosa da me, però so quello che mi ha detto più volte, e cioè che è rimasto molto colpito dal mio modo di cantare appassionato, che lui dice che in Italia non si sente più così spesso, perché si predilige un tipo di cantato più contenuto e freddo. E poi mi ha sempre detto che è affascinato dal mio modo di vivere la musica.
Cioè? Qual è il tuo modo di vivere la musica?
Non so cosa intendesse lui, ma so che quando ero bambino rimasi colpito dai Blues Brothers che dicevano di essere in missione per conto di dio. Per me la musica è questa cosa qui, è una cosa che ci fa stare bene e ci solleva da tante situazioni. Io cerco questo nella musica degli altri e cerco quindi di fare la stessa cosa.
Quando uscirà questo disco?
Probabilmente in autunno.
La scorsa settimana hai pubblicato un video live alle OGR di Torino, che esperienza è stata?
È stato bellissimo, le OGR a Torino sono una realtà assurda, non avevo mai visto un luogo così poliedrico, immenso e capace di contenere realtà di tutti i tipi, da start up tecnologiche a sale per i concerti. É una realtà in cui sembra davvero di stare in Europa, nel senso che sono situazioni a cui nel nostro Paese non siamo molto abituati. Il live l’ho gestito come piace fare a me e il contorno è stato pazzesco per professionalità, backline e attrezzature perfette, il personale preparato e disponibile, insomma è stata davvero un’esperienza assurda.
In generale che rapporto hai con i live? Preferisci stare in studio o suonare dal vivo?
Per me sono tutto, non li differenzio per nulla dello studio di registrazione, sono la stessa cosa: appena scrivo una canzone in camera vorrei subito farla al live del giorno dopo. La cosa che mi piace del cantare dal vivo è vedere le persone negli occhi, anche se non sempre succede. Mi è capitato ad esempio di andare a concerti di band anche molto grosse in cui sembrava una discoteca, con la gente che chiacchierava e si fermava soltanto per fare il video delle canzoni più famose. Ecco per me questa è una cosa assurda, ma quando il live è un momento coinvolgente, quasi una specie di rituale, diventa la cosa più bella di tutte.
In questa occasione hai portato, oltre ai tuoi brani, anche una cover di Sotto il segno dei Pesci di Venditti. Che rapporto hai con la musica italiana di quel periodo?
Mi piace molto la musica degli anni ’70, Venditti ha queste canzoni che sembrano degli inni e che ti entrano nelle ossa. L’idea della cover era nata in maniera un po’ casuale durante una serata a Livorno, in cui con degli amici abbiamo cantato tutta la notte, suonando più di una volta anche questa canzone, che io avevo conosciuto quella sera lì proprio perché un amico mi aveva chiesto di suonarla. Da lì ho deciso di portarla nel repertorio dal vivo. Mi piace perché ha qualcosa di americano nel giro armonico e nella melodia, nonostante Venditti sia inconfondibilmente italiano. Mi ricorda alcune canzoni di Lou Reed.