Un’artista pazzesca, con una carriera unica. Amii Stewart from Washington D.C. è stata una star della disco music, ma anche del teatro, della musica italiana e internazionale. Ha interpretato colonne sonore e ha sempre cercato il bello, la forza, l’energia di essere se stessa. Dopo un exploit sotto Natale a Ferrara, dove ha cantato per le strade, adesso è pronta per nuove avventure live. Il 27 gennaio sarà al Teatro Petruzzelli di Bari e il 9 e 10 febbraio al Teatro Massimo Bellini di Catania. In questa chiacchierata ci ha raccontato la sua vasta carriera.
Se dovessi cominciare a raccontare la tua vita, da dove inizieresti?
Dai miei studi, senza i miei insegnanti non sarei dove sono in questo momento. A 9 anni ho iniziato ad andare a lezione di ballo nell’oratorio della chiesa, il sabato. Lì ho iniziato a fare ballo, tip-tap. E mi sono innamorata di questo mondo: non mi sono mai fermata nel fare arte. Dalla scuola della parrocchia sono passata a quella di Belle Arti. Fino a che non ho iniziato a lavorare come attrice. Ero preparata al mille per mille: sapevo fare il trucco, sapevo fare tutto.
Ma è vero che tra i tuoi prof c’era Debbie Allen, la celeberrima Lydia Grant di Saranno famosi?
Sì, ed è stata fondamentale insieme agli altri insegnanti. Mi ha dato il senso del rispetto per quello che si fa, per il lavoro.
Tipo?
Se non si arrivava minimo mezz’ora prima delle lezioni, si era già in ritardo. Un’ora prima era ancora meglio, per arrivare, vestirsi e riscaldare il corpo. Questo modo di guardare il lavoro l’ho riportato in tutto il resto della mia vita. Era una lezione di vita: essere sempre pronta e non fare mai attendere gli altri. È una forma di rispetto.
Hai vissuto a Washington D.C., ma che infanzia hai avuto?
Mia madre era una di 13 figli. Avevo tante zie, la nonna, ero circondata da famiglia, calore, amore. Un senso di appartenenza a qualcosa di importante. Eravamo religiosi, ma non troppo. I miei erano grandi lavoratori, non eravamo ricchi ma non ci mancava mai niente. Ricordo cene, musica, litigi, come in tutte le famiglie. La mia infanzia è stata gioiosa.
Hai mai avuto problemi per il colore della pelle?
Sì. Washington e l’America erano posti molto razzisti, negli anni ’60. Mia mamma era una delle sole tre persone di colore a lavorare in un grande magazzino per i bianchi.
Come si trovava?
La tenevano dove non poteva essere vista dagli altri. E quel lavoro l’ha ottenuto solo perché era un po’ più chiara di carnagione.
C’è stato un episodio che ti ha fatto male?
Quand’ero molto giovane sono andata nel grande magazzino dove lavorava mia mamma per comprare un paio di scarpe. Appena sono entrata mi hanno fermato e mi hanno chiesto chi fossi e dove andassi. Ho detto loro che stavo andando da mia madre, che lavorava lì. Dopo tante domande sul reparto dove lavorava mi fanno andare. Mia mamma mi dice: “Vai al reparto scarpe, scegli quelle che vuoi e dimmi quali sono, così le metto da parte, le compro e le porto a casa”. Così vado a sceglierle, ma mentre guardavo c’era una commessa, mi osservava, ma non mi voleva servire. Mi avvicino io, chiedendole se poteva farmi vedere un paio di scarpe.
E lei?
Mi disse che non avevo i soldi, che non me le sarei potute permettere. Mi guarda con disprezzo e sento un calore sulla schiena, mi stavo arrabbiando ma non potevo dire niente, non potevo lottare perché era rischioso. Visto che non andavo via, torna dopo 20 minuti e mi domanda: “Fammi vedere le scarpe che vuoi”. Gliene indico quattro paia. Lei me le porta e me le butta ai piedi con disprezzo. A quel punto non ho capito più niente: ho preso le scatole e le ho buttate per aria, le scarpe sono andate da tutte le parti. A quel punto le ho detto: “Adesso pulisci”.
Come ti sei sentita?
Tremavo e piangevo per la rabbia, ma pure per la paura che mia mamma perdesse il lavoro. Così le ho spiegato tutto. Ma lei mi disse: “Non preoccuparti, hai fatto bene. Quella signora è molto maleducata: se perderò il lavoro, pazienza”.
Lo ha perso?
No, perché mia mamma era amata e lavorava bene. Ma di quel momento non mi scordo, perché ho avuto un coraggio che non so da dove è uscito, non ci pensavo minimamente a quell’età, avrò avuto massimo 12 anni.
Torniamo alla carriera. A un certo punto diventi attrice di musical e debutti nello spettacolo Bubbling Brown Sugar di Loften Mitchell, con composizioni di artisti afroamericani alla base del movimento culturale e intellettuale conosciuto come Harlem Renaissance.
Quel musical mi ha aperto tantissime porte. Mi hanno preso subito per la preparazione anche se ho cominciato dal basso: prima sostituita e poi ballerina, in Florida.
Come sostituta?
A Broadway ero solamente una sostituta. Però mentre facevo questo lavoro, visto che mi annoiavo da morire, mi mettevo dietro le quinte su una sedia, e io imparavo tutti i ruoli, le battute, conoscevo lo spettacolo dall’inizio alla fine, coreografie comprese. Così, quando il musical andò nel West End di Londra, ci sono arrivata come assistente alla regia, assistente coreografa e con un ruolo principale. Questa è una lezione: anche se sembra che non c’è niente da fare c’è sempre qualcosa da fare.
A Londra che succede?
Ero felicissima perché avevo un cachet altissimo, ma facevo pure tre mansioni. Quella prima volta fuori dall’America doveva essere solo per sei mesi, ma durò tre anni. Durante quel periodo un produttore discografico, dopo aver assistito allo spettacolo, mi chiede di fare un provino. Vado per fare nuove esperienze. Sono andata in studio, dove ho conosciuto Barry Lang, il produttore di Knock on Wood, anche se il primo brano che mi ha fatto cantare era You Really Touched My Heart. Ma è stata sicuramente la svolta.
Il successo di Knock on Wood è indiscutibile: siamo sul finire degli anni ’70, e tu diventi una vera star. Ma dimmi, sei mai stata al famosissimo Studio 54?
Sì.
E com’è andata?
Allo Studio 54 accadeva tutto quello che la gente diceva. Era tutto vero e anche di più. Era talmente tanto che mi sono impaurita.
Addirittura!
C’era tantissima gente, non puoi capire, non vedevi nemmeno il pavimento per quante persone c’erano, e vestite nella maniera più pazzesca. Modelle, cantanti, attori, attrici, colori, urla e droga. Quando sono entrata e hanno annunciato la mia presenza sono tutti impazziti perché Knock on Wood era prima in classifica ovunque. Mi hanno presa, mi hanno alzata fisicamente e mi hanno messo in piedi su un tavolo: volevano ballassi.
E tu?
Ero imbarazzatissima: la mia mentalità era completamente all’opposto. Fu una serata incredibile.
Cosa ricordi di più?
Il rumore, un muro di suono, un muro di gente, di colore. Era Babilonia.
Ma ti sei divertita almeno?
Mi sono divertita, ma era sbalordita. Mi sono resa conto di quanto fossi immatura. Ero una ventenne.
Perché immatura?
Quando lavori in teatro hai orari, otto repliche la settimana, non si fanno follie: il giorno dopo si deve essere lucidi e presenti. Io andavo in discoteca solo la domenica perché lunedì non lavoravo. E lì sì che ballavo tutta la notte, poi andavo ad Harlem a mangiare waffle e pollo fritto, tornavo a casa e dormivo tutto il giorno. Ero impreparata per lo Studio 54.
Le cronache dell’epoca raccontano che, in luoghi come lo Studio 54, la droga girava parecchio. La tua esperienza?
L’ho provata, ma nulla di eccezionale. Il fatto è che non mi piaceva perdere il controllo. Sono una seria di carattere, so come divertirmi e ti assicuro che mi sono divertita tanto, ma il lavoro per me vale tantissimo: quando fumavo uno spinello o bevevo un bicchierino in più sentivo di non avere il pieno controllo delle mie facoltà sul palco, una cosa che mi dava parecchio fastidio. Motivo per cui non sono mai caduta nel pozzo senza fondo della droga. Quando stai sul palco, se le cose non vanno bene la colpa è tua, anche se hai tanta gente intorno. Bisognava essere da esempio ai ballerini e ai musicisti con cui condividevo gli spettacoli.
Aneddoti dell’epoca?
Una cosa molto bella, incredibile. Negli anni ’70 c’erano tantissimi spettacoli tv musicali in giro per il mondo. Ero a Parigi, in camerino per un enorme spettacolo di disco music. Bussano alla porta: era una persona dello staff, mi disse che era arrivato Sylvester senza la valigia per il trucco, persa in aeroporto. Ho detto: “Dagli la mia”. Dopo 45 minuti bussano di nuovo alla porta ed è Sylvester, l’ho guardato, gli ho dato un buffetto sulla faccia e me ne sono uscita con: “Questa è l’ultima volta che ti presto il trucco, perché sei più bella di me”. E giù a ridere tutti e due. Sylvester era eccezionale con il brano You Make Me Feel (Mighty Real).
Altre cose?
Quando stavo a Londra portai mia mamma a vedere Stevie Wonder. Andiamo nel backstage per incontrarlo per la prima volta. E mia mamma fu molto affettuosa, gli accarezzò il viso, lo abbracciò, lo baciò, mentre lui stava cercando di capire chi fosse quella persona. Tutto si è risolto quando ho ammesso a Stevie che quella donna era mia madre.
Chi ti ha deluso?
Sono rimasta scioccata al concerto di Etta James.
Cioè?
Lei aveva grossi problemi di droga, era talmente fatta che non riusciva a salire sul palco a rimanere in piedi, a cantare, aveva perso definitivamente il controllo. Vederla in quello stato mi ha fatto male: non era una delusione, molto di più. Mi sono ripromessa non sarei mai caduta nella morsa della droga, ho sempre voluto essere presente a me stessa.
Knock on Wood cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto?
Dato tutto, tolto nulla. Quando si canta un brano dal successo tanto ampio, quelli che arrivano dopo restano un grande dilemma. Sono nota a tutto il mondo per un genere di musica che non mi rappresenta, ma era una piattaforma, un trampolino per fare quello che volevo. Non è stato semplice, ma non è colpa di Knock on Wood. Sapevo solo che non sarei morta con la disco music. Gli altri artisti per rimanere a galla dovevano uscire con un brano che ricalcava quelle sonorità. A un certo punto l’industria musicale ha detto basta e ha ucciso la disco music.
E tu?
Non potevo morire in un genere musicale. E sono sopravvissuta grazie alla BMG Italia: mi hanno detto che avrei potuto fare quello che volevo.
Le altre etichette, invece?
Volevano facessi R&B, ma io venivo dal teatro, dal bel canto. BMG Italia mi ha dato carta bianca. Da lì sono arrivati Grazie perché con Gianni Morandi, la musica di Mike Francis, il repertorio di Ennio Morricone che mi ha trasformato in interprete. Volevo essere quello. Non volevo essere etichettata o essere in una scatola in cui mi dicevano che genere avrei dovuto cantare. Mi sentivo in catene, ma poi ho preso le redini della mia carriera: ho fatto Jesus Christ Superstar con Carl Anderson, La pietà con Nicola Piovani, Shakespeare in Jazz con Giorgio Albertazzi.
Parliamo del tuo grande amico Mike Francis.
Lui era un artista della BMG, l’ho conosciuto al bar. Ci siamo “innamorati” subito. È diventato il mio fratellino, era uno dei pochi italiani che parlavano inglese in quegli anni. Prima di conoscerlo, quando lo vidi in tv mentre cantava Survivor, pensai quanto fosse bella quella canzone. Francesco era una persona di una dolcezza rara. Siamo diventati amici stretti.
Cosa ricordi di più dell’amicizia con lui?
Il suo cuore. Era di un’umanità incredibile e aveva un talento raro. Era italiano, ma non nell’anima. Aveva un soul, un groove, nero. Era pazzesco. Quando eravamo soli parlavamo solo in inglese e di musica black, lui adorava Marvin Gaye, James Taylor, che da piccolo ascoltava sempre. Ci ha lasciato troppo presto. Stanno facendo un documentario sulla sua vita. Quando eravamo a Londra insieme c’erano un sacco di ristoranti etnici. La sera ci incontravamo, ma prima decidevamo se mangiare indiano, thai, indonesiano, tutto quello che non c’era in Italia. I miei amici londinesi erano innamorati di lui. Poi era un bravo cuoco…
Secondo te è rimasto deluso dal mondo della musica?
Ma certo. In Italia lui era l’unico cantante italiano con repertorio inglese. Dovevano obbligarlo a esibirsi in italiano. La casa discografica lo costrinse. Gli disse che non mi piaceva, la sua voce si prestava bene all’inglese.
L’ultima volta che lo hai sentito?
Stava già molto male. Non vedeva nessuno, ma quando l’ho chiamato gli ho detto che dovevo vederlo assolutamente. Mi ha risposto: “Tu, Amii, puoi”. Siamo andati a trovarlo e mio marito mi ha pregato di non piangere assolutamente, non so come ho fatto a trattenermi. Sono stata dolce, sorridente, allegra, ho preso delle rose, gli ho portato un dolce e siamo stati lì a chiacchierare. Per lui era molto faticoso. Poi gli ho domandato se potevo tornare e mi ha confermato: “Amii, tu puoi sempre tornare”. Invece lo hanno trasportato in ospedale d’urgenza e non l’ho più visto.
Ti ha detto qualcosa prima di andarsene?
Abbiamo parlato tanto di essere fedeli a noi stessi, anche se gli altri non ci credono. Bisogna andare avanti in quello che si pensa. Pure se è uno sbaglio, almeno non resta un dubbio. Abbiamo parlato della passione, di quello che porta gioia, come pescare nel mare con una barchetta piccola piccola, toccare il mare. A Francesco piacevano le cose semplici, che rendono felici te e le persone che ti stanno accanto.
E di Ennio Morricone cosa ricordi, oltre al fatto che ti ha fatto diventare un’interprete?
La sua fiducia. Mi ripeteva sempre: “Non ti dico nulla, tu sai cosa devi fare, fallo”. Io ero incredula, vedeva il mio valore in me prima che me ne accorgessi io. Maestro non è solo un titolo, è una parola con cui si indica qualcuno in grado di vedere lontano, con intelligenza e intuizione, quasi come fosse un veggente.
Che carattere aveva?
Molto forte: se non gli piaceva qualcosa non usava giri di parole, andava dritto, nel bene e nel male. Quando mi ha onorato della sua fiducia mi ha fatto un grande dono. Ho capito che potevo superare i miei limiti. E da lì ho iniziato a prendere lezioni di canto tre volte alla settimana. Esercito sempre la voce col suo repertorio. Perché se lo faccio vuol dire che la voce è in buono stato: ci vuole controllo e respiro, per cimentarsi coi brani di Morricone.
Sei un’icona gay. Il tuo ultimo pezzo Perfectly Beautiful va in questo senso?
È un inno indipendentemente da chi lo ascolta: dice che ognuno è unico. Siamo bellissimi così, come Dio ci ha creato, e dobbiamo amarci. Anche tra di noi.
Tra i cantanti della nuova generazione chi ti piace e chi non ti piace?
Adoro Marco Mengoni. Ma non ascolto musica italiana a casa, solo in radio. Sono carente, dimmi qualche nome…
La Rappresentante di Lista.
Mi piace moltissimo Ciao ciao. Per il resto non li conosco bene. Non so se dureranno nel tempo. Marco Mengoni lo so, perché è un vero artista. Mi piace moltissimo anche Elodie per la sua grinta. Ma i cantanti in generale se vogliono diventare longevi devono curare la voce, le corde vocali sono muscoli e bisogna averne cura. Un maestro di canto bravo aiuta a sviluppare i toni alti, bassi, gravi, permette di giocare con la voce e il repertorio può diventare un po’ più difficile, puntando sulla melodia e non solo sul ritmo. Ma oggi il mondo della musica è trasformato.
Come?
La melodia non è più importante come la ritmica, la voce è l’ultima cosa che si mette sul piatto perché sembra non serva. Se parliamo di cantanti dobbiamo parlare di un altro genere di artisti. Ci sono tanti ragazzi molto bravi a fare spettacolo, ma sono un’altra cosa. Io forse parlo da artista vecchia, ma per me sono cose distinte. Un trapper non canta veramente, va appresso a un ritmo con intonazione. Dov’è la melodia? Non c’è.
Quindi a Amii Stewart non piace la trap.
Non è che non mi piace. È un tipo di musica non destinata a rimanere nel tempo.
Chi rimarrà?
Arisa, Elisa, Giorgia. Ma nei giovanissimi c’è ben poco. Non è colpa loro, la faccia della musica è cambiata.
Che mi dici di Achille Lauro?
Ha un’idea. È uno spettacolo in sé, ha la potenzialità di diventare un bravo artista, ma deve studiare e sviluppare lo strumento che suona. Se suono la chitarra devo esercitarmi, non posso suonare come Alex Britti in due mesi. Lo stesso vale per la voce. Non tutte le persone che cantano sono cantanti. In studio di registrazione, oggi come oggi, le note sbagliate le puoi correggere.
E di Annalisa che mi dici?
Mi dispiace, ma non la conosco.
I Kolors?
Mi stai mettendo in difficoltà (ride). Significa che sto invecchiando.
Torniamo su di te. Cosa non faresti più?
Non avrei lavorato con Bolland & Bolland, dei produttori olandesi.
Come mai?
Perché era una cosa che non volevo fare, mi convinse la casa discografica a fare Time Is Tight.
Non ce l’ho presente.
Infatti… vedi? Fu un flop. E non mi piaceva l’atmosfera dello studio, era una cosa fredda, non vedevo l’ora di andarmene via. C’era un’energia di cui potevo farne a meno.
E Sanremo?
Ho provato due volte negli ultimi anni e non è andata. Non so se a essere rifiutata sono stata io o il brano. Quest’anno mi è arrivata una canzone di una bellezza rara, ma non ho potuto presentarmi al Festival perché sono al Teatro dell’Opera di Catania. Ho suggerito agli autori di questa canzone di cercare altri cantanti, facendo anche i nomi. Anche a discapito mio, sarebbe stato brutto nei confronti di chi ha scritto il pezzo: se oggi non vai a Sanremo non vai da nessuna parte.
Mi puoi dire i nomi degli artisti che hai proposto?
Tosca e Fiorella Mannoia.
Ma mi puoi dire i nomi degli autori?
No, non posso parlare del brano.
Quando hai provato ad andare a Sanremo?
Una volta con Amadeus e una con Carlo Conti.
Chi sei oggi, Amii?
Sono sempre alla ricerca di me. Da quando ho passato la pandemia, con tutto quel tempo a stare soli con noi stessi, avevo la necessità di tornare alla Amii nuda e cruda, fare solo cose gratificanti. Cerco di essere sempre autentica, una fonte di energia positiva.
In che modo?
Tento sempre di non offendere una persona anche se lo merita. Non voglio mettere energie negative nel mondo, già ce ne sono tante.
E del tatuaggio che hai in testa che mi dici?
L’ho fatto con fierezza e convinzione, stanca del trucco e parrucco che devono farsi le donne dopo una certa età. Veniamo considerate vecchie mentre gli uomini diventano interessanti: ma vaffanculo.
Quindi?
Ho pensato di non essere condizionata da quello che dicono gli altri. Mi guardo nello specchio la mattina e mi dico: “Buona giornata, bella”. Ho deciso di fare un cambio radicale fisicamente e spiritualmente, e voglio andare avanti così, con questo modo di pensare, diventando sempre migliore. Almeno ci provo.