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Anche gli Shame non vogliono sentire il peso delle aspettative

Le pressioni, la creatività, sentirsi vecchi a 25 anni. Ma anche le click farm coreane e il "nostro" Kiko Loiacono. Charlie Steen racconta 'Food for Worms', «la Lambo dei dischi degli Shame»
shame Food for Worms intervista

Foto press

«Siamo al terzo disco ed è come se fossimo dei veterani». A un certo punto dell’intervista Charlie Steen, il frontman degli Shame, se ne esce con queste parole. Da qualche parte aveva già detto «sono vecchio», asserzione che per un più o meno 25enne appare quantomeno fuori luogo. Ma in collegamento su Zoom, alla richiesta di spiegazioni, va dritto al punto: «È che oggi il mercato discografico segue ritmi talmente serrati che basta poco per sentirsi come se si fosse in attività da chissà quanto».

Questione non da poco: con premesse del genere, quanto può durare una band? L’interrogativo vale per il pop più commerciale come per qualunque altro genere e il gruppo di South London, tra i migliori della fervida scena post punk contemporanea, ha pagato il prezzo: domani gli Shame pubblicheranno Food for Worms, il loro terzo album, e non nascondono di avere fatto fatica a realizzarlo. «Abbiamo trascorso tutto il 2021 a cercare di scrivere nuovi brani senza riuscirci», racconta Steen. «Troppa pressione, troppe aspettative; le idee da cui partire c’erano, ci trovavamo a jammare, ma niente. Non so come mai, potrebbe aver giocato un ruolo la pandemia, o meglio, l’illusione che una volta finita ci sarebbe venuto tutto facile, e invece… Probabilmente abbiamo sbagliato a prendere una sala in uno studio di registrazione a Londra dove c’erano altri gruppi che provavano cinque giorni a settimana. Quella modalità non faceva per noi: avevamo l’impressione che tutto si riducesse a un lavoro».

Alla fine ci si è messo di mezzo il management. «Ci ha lanciato una sfida: avete due settimane di tempo per buttare giù dei nuovi pezzi da presentare dal vivo a Brixton, al Windmill pub. A quel punto avevamo un obiettivo, una scadenza, e finalmente siamo riusciti a tornare all’atmosfera degli esordi, a quando lavoravamo al nostro debutto e ciò che volevamo era scrivere brani pensati per essere suonati live. È stato incredibile, dopo un anno senza combinare nulla abbiamo chiuso il nuovo disco in tre mesi, più rapidamente di quanto avessimo mai fatto».

Questa la genesi di Food for Worms, il cui artwork è un’opera dal sapore surreale del canadese Marcel Dzama. «Il titolo dell’album è un’espressione comune nel Regno Unito, si può interpretare in un’ottica triste, ma anche in prospettiva, come quando si contempla l’oceano e ci si sente minuscoli, ma in pace con se stessi. Esprime un conflitto che riguarda tutti, perché la fine è inevitabile, fa parte del ciclo della vita, ma non è così semplice capire come godersi il proprio tempo». Questi i temi: l’amicizia, il bisogno di fiducia negli altri, i rapporti che mutano. «E la rinascita», precisa Steen, «in fondo persino la morte ci fa rinascere riconsegnandoci a madre natura. Come cibo per vermi, appunto. Sì, per noi questo è un nuovo inizio, tra malinconia e speranza».

«La Lamborghini dei dischi degli Shame», così Steen ha definito il disco stando a quanto scritto nella cartella stampa. «È vero, è vero», conferma. «La Lamborghini hai sempre voglia di portarla in giro, di metterla in mostra, no?». Concetto chiaro, com’è evidente che con questa terza prova gli Shame abbiano tentato di spingere oltre l’esplorazione sonora che da Songs of Praise, l’album che cinque anni fa valse alla band la prima dose di notorietà, li ha condotti sin qui passando per Drunk Tank Pink, che nel 2021 è entrato nella top 10 del Regno Unito: le radici post punk sono ancora lì, le chitarre affilate, il drumming nervoso, le dissonanze e i wall of sound pure, ma è indubbio che tra rimandi a Fugazi e Sonic Youth e inserti garage il quintetto abbia ricercato una maggiore dinamica in termini di struttura dei brani e abbracciato uno spettro di sonorità più ampio, in linea con un approccio a tratti più melodico se non più morbido, basti pensare alla chitarra acustica in Orchid e all’atmosfera lo-fi di All the People.

“My voice ain’t the best you’ve heard and you can choose to hate my words, but do I give a fuck?”, recitava il bel singolo del 2018 One Rizla, ed è quel tipo di attitudine, di sfrontatezza, che gli Shame desideravano recuperare. «Continuare a pensare a cosa il pubblico si aspetta da te è deleterio», chiosa Steen. Non a caso la band ha registrato per la prima volta live, approccio perfetto per riconquistare spontaneità, per poi lanciare il singolo Fingers of Steel con uno spassoso video diretto da James Humby che, rivelando ciò che si cela dietro certi hype, sbeffeggia l’ossessione per se stessi indotta dai social media.

«L’idea mi è venuta dopo aver scoperto dell’esistenza di queste click farms, in Corea per esempio, dove gruppi di lavoratori devono cliccare su link di vario tipo, inclusi video su YouTube di artisti sotto major. Mi ha fatto ridere, il video è satirico, ci siamo divertiti un sacco a girarlo. Noi britannici siamo abituati a usare l’umorismo per far valere il nostro punto di vista, in questo caso il focus è sui social, strumenti che spingono a mostrarsi ogni secondo e che provocano una smania per la propria immagine pubblica che può causare problemi di salute mentale. Se ne parla molto ultimamente e conosco già qualcuno che ha deciso di rinunciare a tutto questo. Vedi Flood, che è praticamente irrintracciabile: si è preso un vecchio telefonino non smart per le chiamate e usa un tablet per le mail, ma non è che puoi parlarci quando ti pare. Ecco, io vorrei arrivare a fare lo stesso passo, ma non è facile».

Flood è Mark Ellis, produttore già al fianco di U2, Depeche Mode, Smashing Pumpkins, Nick Cave, Placebo, PJ Harvey, Killers. Gli Shame lo hanno voluto con sé per questo nuovo capitolo della loro carriera. «Un pazzo! Ma registrare live è stata una scommessa, avevamo bisogno di uno come lui che ci guidasse. Ha portato con sé diversi ingegneri del suono, Richie Kennedy, Tom Herbert, Ed Farrell e Jacob Zinzan Tresidder: era la sua priorità. A ragione, visto che parliamo di tecnici importantissimi a cui non viene mai dato abbastanza credito».

Non solo: per Food for Worms Steen, che al microfono si muove tra cantato e spoken word alla Idles o alla Protomartyr, ha ingaggiato per qualche sessione una vocal coach, Rebecca Phillips, mentre per i testi si è ispirato in particolar modo a Lou Reed. «È l’artista che mi ha influenzato di più nella vita, basta un ascolto per rimanere colpiti dalla semplicità dei suoi testi, e questa è una qualità così rara e difficile da ottenere… Le sue canzoni sono come fiabe o filastrocche che ti restano dentro per sempre: essenziali, dirette, immediate. Versi come “he’s never early, he’s always late, first thing you learn is that you always gotta wait” (da I’m Waiting For The Man, nda) sono senza tempo. Il suo pezzo che preferisco probabilmente è Berlin». Si mette a declamare: “in Berlin, you were five foot ten inches tall, it was very nice, candlelight and Dubonnet on ice; we were in a small cafe, you could hear the guitars play, it was very nice, it was paradise”. E commenta: «In poche frasi c’è un mondo intero. È proprio vero che less is more».

Da questo punto di vista Steen confida che la traccia di Food for Worms che lo soddisfa di più è Adderall, brano che parla di psicofarmaci e che vede ospite la compagna di etichetta degli Shame, Phoebe Bridgers, come loro su Dead Oceans. È forse il più riuscito del lotto e il frontman lo ha impreziosito con un giro di basso da lui stesso concepito prendendo momentaneamente il posto del bassista Josh Finerty. Poi uno scambio su Burning by Design sposta la conversazione sull’Italia, dove gli Shame faranno tappa per un concerto il prossimo 23 marzo al Magnolia di Segrate (MI). «L’idea di quella canzone mi è venuta durante una vacanza in Sicilia con la mia fidanzata, eravamo a Palermo, nella zona della Vucciria, quel mercato dove voi italiani parlate tutti insieme contemporaneamente e senza sosta. Tratta di opportunismo, le parole “you don’t care about the feeling anymore” si riferiscono a quei momenti in cui ti senti trattato come merce da qualcuno. Insomma, noi facciamo musica perché amiamo la musica, ma in questi anni a volte ci è parso di doverla fare per altri. Ma ok, si cresce anche rendendosi conto che non tutti sono quello che sembrano».

Gli chiediamo cosa conosce del nostro Paese. «Il migliore amico mio e di Sean (Coyle-Smith, chitarrista, nda) vive a Londra ed è metà italiano, metà marocchino; inoltre per un anno e mezzo abbiamo avuto un tour manager originario di Bari, Dr. Kiko, riposi in pace (Kiko Loiacono è morto all’età di 54 anni lo scorso novembre, nda). Era una persona autentica, leale. Qualche anno fa, durante una tappa in Germania – era dicembre, faceva freddo, eravamo molto stanchi – mi è venuto un attacco di panico e Kiko mi ha aiutato molto, grande uomo. Una volta è venuto anche a trovare me e la mia famiglia per Natale e ho un ricordo vivido di lui che nudo sotto la doccia, nella stanza di un hotel a San Diego, cantava a voce altissima la nostra Tasteless: “I like you better when you’re not around…”».

Intona questi versi, ma gli aneddoti italici non sono finiti. «Quando abbiamo suonato all’Ypsigrock, in Sicilia, ho sognato di trasferirmici per qualche mese. Per questo ci sono tornato con la mia ragazza, ed è andato tutto benissimo finché cinque ore prima di salire in aereo sono stato derubato. Ma sono stato io stupido, sono andato a farmi un bagno in mare lasciando tutto sulla spiaggia. Adoro l’Italia e gli italiani, ho persino imparato a scrivere la mia prima parola lì, in Sardegna: ero in vacanza non so dove con i miei e mia nonna, insegnante delle scuole primarie, e col suo aiuto ho scritto ant, formica».

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