Il deserto la notte il mare è l’evocativo titolo del nuovo album di Andrea Chimenti, elegantissimo signore della new wave italiana. Uno che ha vissuto la Firenze dei primi anni ’80 e che si è fatto le ossa insieme a gruppi come Litfiba e Diaframma. Andrea cantava nei Moda (attenzione, senza l’accento sulla a), autori di tre album che hanno caratterizzato quella indimenticabile stagione del rock italiano.
Dopo lo scioglimento della band ha cominciato una carriera solista fatta di dischi sempre colti e raffinati, oltre che di collaborazioni d’alto rango. Ora torna con una sorta di summa del suo lavoro, un album con echi cantautorali, new wave, addirittura prog. Insieme abbiamo ripercorso la sua storia.
Mi interessa sviscerare questo concetto di deserto che è parte del titolo del tuo nuovo album…
Da occidentale guardo ciò che ci sta accadendo, che ci riguarda tutti e che è sempre avvenuto nella storia dell’uomo: la trasmigrazione dei popoli. Questo con la consapevolezza di non potere più vivere in un mondo scollegato, nel quale ognuno coltiva il proprio orticello fregandosene di ciò che avviene al vicino. Il mio pensiero va quindi a queste persone che letteralmente devono affrontare il deserto, la notte e il mare.
Il deserto è anche culturale?
Certo. Il titolo racchiude il tempo che stiamo vivendo da un punto di vista culturale e spirituale. È un periodo di deserto e di notte, a volte di vero e proprio buio. Il mare riguarda invece la vastità che ci distanzia da un approdo, da una possibile soluzione. Il mare è anche la profondità, quella profondità con la quale questi tempi sembrano non volere avere a che fare a scapito di una continua superficialità.
Come si pone questo disco all’interno della tua evoluzione artistica?
Credo vi confluiscano tante esperienze del passato, ho recuperato anche alcune cose del mio primo album solista La maschera del corvo nero, del 1992, nel quale già si parlava di immigrazione. Per certi aspetti Il deserto la notte il mare è quindi collegato ai miei inizi e vi confluiscono esperienze anche legate ai dischi successivi. È un po’ una summa, un tirare le fila e osservare quello che ho fatto fino a oggi.
Si nota anche a livello di collaborazioni, una sorta di riunione con tanti personaggi con i quali nel corso del tempo hai incrociato la strada.
Esatto, ci sono Fabio Galavotti, tastierista dei Moda, Francesco Magnelli, Ginevra Di Marco, Antonio Aiazzi… Poi c’è David Jackson, con il quale non avevo mai collaborato ma che fa parte del mio bagaglio musicale giovanile: i Van Der Graaf Generator mi appassionavano e hanno contribuito alla mia formazione.
Nel disco infatti c’è anche una venatura prog.
C’è eccome, anche per merito del produttore, Cristiano Roversi, personaggio chiave per la buona riuscita del disco.
Facciamo un passo indietro: ricordi quando hai cominciato a pensare di volere fare il musicista?
Ho studiato cinema d’animazione a Urbino e nella vita pensavo di fare il disegnatore di cartoni animati, ero appassionato a questa disciplina e avevo iniziato a cercare lavoro in tal senso. Verso la fine degli anni ’70 c’è stato però l’avvento dell’animazione giapponese che furoreggiava in Italia e che era realizzata a costi bassissimi. Tutte le produzioni autoctone quindi crollarono e sopravvenne una grande crisi. Io mi trovai, giovane di studi, a girare con la mia cartella alla ricerca di un’occupazione, il mio sogno era collaborare con Bruno Bozzetto. Alla fine però mi sono trovato a lavorare nell’ambito pubblicitario. Nel frattempo, inizialmente un po’ anche per gioco, era uscita questa cosa di suonare con una serie di amici che nel tempo ha preso sempre più piede: durante il giorno ero impegnato in uno studio pubblicitario ad Arezzo mentre la sera prendevo il treno, andavo a Firenze, facevo le prove di notte e riprendevo il treno per essere in studio la mattina successiva. Così ho fatto per tanto tempo col risultato che alla fine non rendevo più né da una parte né dall’altra. Quindi fui costretto a scegliere tra la musica e il disegno.
Cosa ascoltavi in quel periodo?
Un po’ tutto quello che mi colpiva, in Italia la new wave stava sempre più prendendo campo e mi piaceva molto. In pole position però c’era Brian Eno, che per me era il numero uno. Non dimenticavo poi degli anni ’70 da pochissimo trascorsi. I Moda infatti sono anche stati molto legati al glam, ci rifacevamo un certo rock anni ’70, per noi non era tutto da buttare. Non ascoltavo molto i cantautori, col tempo me ne sono profondamente pentito e ho riscoperto molte cose.
Ricordi il fermento della Firenze dei primi anni ’80?
Certo, con locali come il Tenax, che era il vero e proprio tempio di questa nuova ondata. Camminavi per la città e incrociavi continuamente gente vestita di nero, con scarpe a punta, mille fibbie, capelli dritti… Era una rivoluzione. Una cosa che forse manca a un gruppo di oggi è il non essere inserito all’interno di un’ondata vera e propria. In quegli anni questo accadeva, ti sentivi parte di un movimento musicale importante che inglobava tutto, anche le sfilate di moda e le mostre d’arte. È stato uno dei rari momenti in cui l’Italia è stata al passo con gli altri Paesi, tutti marciavamo in contemporanea verso queste nuove frontiere musicali e di costume.
Come sei diventato cantante?
Strimpellavo un po’ la chitarra e le tastiere ma dopo un po’, sai come succede con gli amici con cui suoni… ci provi, ti dicono che hai una bella voce e allora ti butti. Poi lentamente, con l’esperienza, migliori sempre più. All’inizio cantavo solo in inglese, in seguito però mi sono chiesto il motivo per il quale avrei dovuto continuare a esprimermi con una lingua che non era la mia. Se avevo qualcosa da dire dovevo dirlo in italiano, però con sonorità che non erano certo tipicamente italiane.
Raccontami dell’ascesa e della caduta dei Moda.
Una volta messa su la band e composte le nostre prime canzoni abbiamo deciso di registrare un provino da presentare alle etichette discografiche indipendenti. Così andammo in uno studio a Firenze che si chiamava Gas, di proprietà di Checco Loy, figlio del famoso regista Nanni, e di Massimo Altomare. I due avevano anche realizzato dei dischi insieme negli anni ’70. Da loro registrammo un paio di brani. Mentre lavoravamo c’era uno strano tipo con barba e sigaro in bocca che non si era presentato ma che si aggirava nello studio ascoltando quello che facevamo. Dopo tre giorni, alla fine delle registrazioni, finalmente si presentò: ci disse che era Alberto Pirelli, che stava mettendo su una nuova etichetta che si sarebbe dovuta chiamare IRA Records e che avrebbe dovuto avere sotto contratto anche i nostri amici Litfiba. Se volevamo anche noi fare parte della scuderia eravamo i benvenuti. Ancora prima di portare la nostra cassetta con i provini in giro ci siamo quindi ritrovati accasati. La prima cosa che pubblicammo con la IRA furono due canzoni nella compilation Catalogue Issue che comprendeva anche brani di Litfiba, Diaframma e Underground Life. Il disco ci dette una bella visibilità, da lì partirono i concerti e nuove registrazioni in un crescendo che sfociò, nel 1986, nella pubblicazione del nostro primo album: Bandiera. L’anno successivo registrammo il secondo, Canto pagano, il mio lavoro preferito, realizzato con la produzione di Mick Ronson, già chitarrista di David Bowie.
Bel colpo quello di Ronson.
Lui era in Italia per registrare il disco della Andi Sex Gang, nel quale suonava anche Piero Balleggi, tastierista dei Neon, il quale semplicemente gli diede una cassetta con i provini del nuovo album. A Mick piacquero, così ci incontrammo e andammo in pizzeria. Lì lui ci disse: «Appena torno dagli Stati Uniti, a dicembre, farò il vostro disco». Fu una bella esperienza, un lavoro condiviso per qualche mese che per me ha rappresentato un grande insegnamento.
L’immagine dei Moda era assai più ricercata rispetto ai vostri colleghi
Tenevamo molto anche a quell’aspetto. Negli anni ’80 il look era parte integrante del proporre musica. Era difficile, se ascoltavi un certo genere, non dare importanza anche al modo di vestire.
Vi hanno accostati anche al movimento new romantic, ve ne sentivate parte?
No, secondo me questo accostamento è nato per il fatto che ci chiamavamo Moda. In realtà la scelta di questo nome avvenne totalmente per caso. Ricordo che eravamo a casa mia a Firenze e ci chiedevamo come avremmo dovuto chiamare il gruppo. Qualcuno aveva in mano un vocabolario e cadde l’occhio sulla parola moda che secondo la definizione significava “costume contemporaneo”. Questa cosa ci colpì, poi il nome era breve, semplice, facilmente memorizzabile. Il significato però è stato molto travisato, è stato preso solo dal punto di vista più superficiale. Il raffronto con il new romantic, con gruppi come gli Spandau Ballet o i Duran Duran, è stato quasi automatico senza però che la nostra musica avesse nulla a che fare con la loro.
Poi cosa successe?
Andavamo forte, con molti concerti e apparizioni in tv, tanto che a un certo punto Pirelli pensò che fossimo adatti per affrontare un pubblico più vasto, mentre i Litfiba avrebbero dovuto essere il gruppo cult. Ci spinse così a buttare giù materiale più commerciale. A quel punto all’interno dei Moda si creò una frattura: una parte della band non voleva quel tipo di passo, altri invece erano d’accordo per tentare la strada del mainstream. Io mi schierai decisamente per continuare a portare avanti il nostro suono, sulla scia di Canto pagano, senza svenderci. Questa frattura si concretizzò in qualche modo nel nostro terzo disco, Senza rumore, un lavoro a mio parere ibrido che si spinge da una parte in una direzione, dall’altra in quella opposta. L’album alla fine andò anche bene ma i Moda a quel punto non potevano stare più in piedi, non si riusciva più a lavorare insieme in armonia. Così nel 1989 ho sciolto il gruppo. La cosa particolare fu che lo scioglimento avvenne a Bologna, dopo un concerto insieme ai Litfiba, nella stessa sera in cui anche Gianni Maroccolo e Antonio Aiazzi lasciarono la band.
Alla fine è successo il contrario di quello che Pirelli voleva: i Litfiba sono diventati la band mainstream mentre tu sei rimasto fedele al tuo ruolo di artista di culto
Devo dire che non mi aspettavo quella svolta da parte di Piero e Ghigo, sono rimasto stupito del loro passaggio repentino. Forse secondo la IRA i Litfiba a quel punto avrebbero dovuto riempire anche lo spazio lasciato vuoto dai Moda. Anche tra di loro però si erano create due fazioni, lo dimostra tutto quello che Gianni e Antonio hanno fatto dopo. Del resto è anche vero che i Litfiba erano arrivati a un punto tale di popolarità nel circuito underground che o si accontentavano di quel pubblico o facevano il grande balzo verso la conquista di nuovi territori.
Tu invece non hai mai creduto a questo tipo di scelta
Più che altro mi sono sempre reso conto di ciò di cui sono capace e ho sempre creduto che il mio mondo fosse quello dell’indie. Poi quando si è giovani non stai a fare troppi calcoli, sei talmente preso dalla passione per quello che fai. Io ero sicuro che anche rimanendo entro certi limiti avrei potuto continuare a fare ciò che più mi piaceva. Alberto Pirelli, nei suoi ragionamenti da imprenditore, probabilmente aveva ragione. Le mie invece sono state scelte di cuore, di istinto.
C’era però all’epoca, anche numericamente, un pubblico che forse avrebbe potuto sostenere artisti più di nicchia
Certo, infatti sono dell’idea che avremmo ancora potuto continuare sulla strada di Canto pagano, forse però i tempi stavano cambiando, gli anni ’80 stavano terminando. È andata così…
Cosa pensi dell’indie di oggi?
Oggi a mio avviso l’indie non esiste più, infatti quando mi chiedono se io sono indie rispondo che no, io sono underground. Recupero questa parola così desueta che però ben mi rappresenta. Alla fine faccio musica sotterranea, non sono indie. Allora questa parola aveva un senso ma oggi è solo una sorta di anticamera del mainstream, quando va bene.
Dopo i Moda ti butti nella carriera solista, quasi in contemporanea con la nascita del Consorzio Produttori Indipendenti, con i quali ti accaserai.
Sì, il mio primo album è La maschera del corvo nero, prodotto da Gianni Maroccolo e con dentro Magnelli e Aiazzi. Il periodo dopo l’uscita del disco è quello che vede la nascita dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti. Sono i primi anni ’90 e l’avvento del grunge detta un po’ nuove linee musicali, più rudi ed elettriche. Io invece, sempre in controtendenza, desideravo realizzare un disco acustico. Il Consorzio però bocciò il progetto, preferivano appunto qualcosa di più rock. Io però mi impuntai e non ci fu modo di smuovermi. Presi quindi a girare per cercare alternative, ma non uscì fuori nulla. A quel punto, cominciai a meditare di mollare tutto.
A un certo punto però arriva un certo David Sylvian a tenderti la mano.
Esatto, successe che il mio manager, Paolo Bedini, era anche colui che organizzava vari concerti di artisti internazionali, tra cui appunto Sylvian. Quando questi venne in tour in Italia chiese di ascoltare qualche artista locale, così Paolo gli consegnò dei CD tra cui uno con i provini del mio disco. Inaspettatamente un giorno Bedini riceve una telefonata da David che si dice colpito dalle mie canzoni e interessato a collaborare con me. Io a quel punto avevo deciso di lasciarmi la musica alle spalle e stavo cercando lavoro. Una sera torno a casa e trovo nella segreteria telefonica un messaggio di Paolo che mi comunica la bella notizia su Sylvian. A quel punto tutto torna in ballo, compreso l’interesse da parte del Consorzio che investe sul mio secondo album, L’albero pazzo, che alla fine viene pubblicato esattamente come lo avevo in mente, con David ospite in Ti ho aspettato (I Have Waited for You) che esce anche come singolo.
È stata una collaborazione a distanza o vi siete incontrati?
Lui in quegli anni abitava a Minneapolis quindi ci fu uno scambio di nastri, per il resto ci mettemmo d’accordo via fax sulla tematica del testo e solo successivamente ci siamo incontrati per le foto o in occasione di suoi concerti. Poco prima della collaborazione una volta che lui si esibiva a Bassano io andai ma non lo potei vedere perché doveva stare dietro al figlio appena nato. Io allora uscii a cena con la moglie, la quale mi ribadì che a David piaceva moltissimo il mio disco e che sicuramente avremmo fatto qualcosa insieme. E quando gli inglesi dicono sì stai sicuro che è un vero sì.
Hai anche avuto modo di suonare con i suoi ex compagni dei Japan
In alcuni brani del mio disco del 2004 Vietato morire c’è Steve Jansen alla batteria: un vero signore, elegante e gentile, oltre che uno straordinario batterista. Con il bassista Mick Karn invece si è trattata di una collaborazione a distanza per un brano del duo Fjieri di Stefano Panunzi e Nicola Lori. Per gli ex Japan mi manca Richard Barbieri, con il quale però mi sono trovato nello stesso locale a pranzo, solo che non sapevo fosse lui.
Passando di palo in frasca c’è da segnalare il tuo contributo a Sono pazzo di Iris Blond di Carlo Verdone
Una cosa inaspettata che mi fece molto piacere. Un giorno ricevo una telefonata da uno che dice di essere Carlo Verdone. Sulle prime penso a uno scherzo di qualche amico ma poco dopo mi devo ricredere, era veramente lui. Mi dice di volermi nel suo prossimo film per interpretare una canzone. Praticamente lui avrebbe dovuto apparire mentre canta, ma con la mia voce. Sono quindi sceso a Roma, in uno studio di registrazione dove c’era anche lui e ho cantato questa Black Hole, composta da Lele Marchitelli. Carlo è stato simpaticissimo e molto gentile, quando era ospite in qualche radio faceva sempre mettere miei pezzi. Lui poi è un grande fan di David Sylvian, quindi probabilmente mi ha conosciuto grazie alla collaborazione.
Come finì invece con il Consorzio Produttori Indipendenti?
Realizzammo insieme altri due dischi molto particolari, uno era basato sul Qoelet, un libro della Bibbia. Un percorso sonoro cantato e recitato insieme all’attore Francesco Maraghini. Poi è venuto il Cantico dei cantici, insieme all’attrice Anita Laurenzi, con lei che leggeva su musiche mie e di Francesco Tomei, contrabbassista proveniente dal mondo della classica. Nel frattempo avevo aperto con Francesco Maraghini un’etichetta discografica, Le Vie dei Canti, che avrebbe dovuto occuparsi di poesia e musica. Purtroppo la PolyGram, che avrebbe dovuto sostenerci e distribuirci, chiuse. Questo affossò la nostra etichetta e fu anche causa della chiusura del Consorzio. Un periodo disastroso.
Come ne uscisti?
In quel momento pensai di nuovo di lasciare la musica, successe però un nuovo cambio di scena inaspettato: Roberto Bardelli, un mio fan di Arezzo, decise di finanziare di tasca sua un mio disco. Io poco tempo prima avevo musicato una poesia di Giuseppe Ungaretti, Vanità, per uno spettacolo dell’attore Franco Di Francescantonio, e decisi quindi di dedicare un intero album proprio a Ungaretti. Questo progetto mi ha rimesso in carreggiata, anche perché il disco è piaciuto tantissimo ed è andato molto bene. Lo considero uno dei miei lavori migliori.
Hai anche scritto un romanzo
Sì, Yuri pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Zona, la storia di un ragazzo depredato dagli organi, sorta di metafora dei giovani di oggi. Noi generazioni precedenti in qualche modo li abbiamo privati di tante cose, di tante sicurezze, abbiamo distrutto le certezze e abbiamo consegnato un po’ un pacchetto vuoto. A volte quando si vede tanta superficialità e anche arroganza nella gioventù di oggi – non tutta per fortuna – io la vedo come una colpa che ricade su chi la ha preceduta.
Arriviamo a oggi, come mai solo tre brani del nuovo disco saranno disponibili in streaming e non l’intero lavoro?
L’idea è stata di David Bonato della Vrec, persona che ho avuto una grande fortuna a incontrare. Lui mi ha detto che sarebbe bello tornare a dare un valore alla musica, non trattarla semplicemente come un qualcosa da ascoltare per qualche secondo e poi skippare perché tanto non ti costa nulla. Dietro la musica c’è un costo in termini di denaro, di vita, di impegno, tempo, esperienze, speranze… Tante, tantissime cose. Tutto questo ha un costo, un valore. Questo valore va anche monetizzato, se ti interessa il disco lo compri. Abbiamo quindi messo in streaming i tre singoli, che possono dare un’idea di quello che è il contenuto del lavoro, se invece lo vuoi ascoltare tutto c’è il vinile o il CD.
Credi che i potenziali acquirenti siano ancora sensibili a tali stimoli?
Sai, io ho un pubblico piccolo ma bellissimo. Persone preparate che pretendono molto dall’artista che seguono. Loro credo potranno comprendere il mio discorso e seguirlo. Per ora infatti la risposta è molto positiva. Poi a me piacciono le cose preziose e uniche. Durante il lockdown ho realizzato un libro con cinque racconti, L’Organista di Mainz, totalmente autoprodotto e in tiratura limitata di 200 copie. Con allegata al libro una scatoletta di metallo rivestita di velluto contenente tutta una serie di piccoli oggetti collegati ai racconti. Tra gli oggetti c’era una pennetta USB con l’audiolibro e due brani cantati. È andato veramente a ruba, volatilizzato in pochi giorni. Questo mi ha fatto capire quanto le persone, perlomeno una certa categoria, abbiano voglia dell’oggetto, ne sentono ancora il valore, oggi più che mai dove tutto è virtuale. Una cosa che dico sempre è che io non posso lasciare a mio figlio dei file, voglio lasciargli libri, dischi, CD, passargli un sapere di mano in mano. L’oggetto ha un valore simbolico forte, per questo ha senso tornare ad acquistarlo.