Baffetto, capelli lunghi mossi e sigaretta perennemente in bocca, Andrea Laszlo De Simone pare uscito da un fumetto di Andrea Pazienza. Giunto alla terza prova solista, Immensità, viene paragonato a Lucio Battisti – e non è un accostamento inesatto –, ma gli va riconosciuta una capacità di scrittura personale, classica e contemporanea al contempo, in grado di creare un immaginario forte, denso, carico di emozioni.
Uscito a inizio novembre per 42 Records, Immensità è stato annunciato come colonna sonora dell’omonimo mediometraggio musicale diretto dallo stesso Laszlo, ma il film non è pronto, ci ha confidato il 33enne in quest’intervista strappatagli prima del concerto all’Angelo Mai di Roma del 17 novembre, prima delle quattro date che lo stanno portando in giro per l’Italia, occasioni per immergersi in questa sua composizione concepita come una suite in quattro capitoli o canzoni. È un’unica sinfonia di 25 minuti in cui venature anni ’60 e ’70 si fondono con arrangiamenti orchestrali magniloquenti e parole che sanno di poesia. Dal vivo viene presentata nella sua interezza dal sestetto del torinese Laszlo assieme a tre nuovi elementi: Giulia Pecora al violino, Clarissa Marino al violoncello, Stefano Piri Colosimo alla tromba e al flicorno. Il concerto lascia affiorare un’attitudine rock d’altri tempi, con una prima parte dedicata a Immensità e una seconda riservata a vecchi brani come Vieni a salvarmi, La guerra dei baci, Fiore mio, Sogno l’amore.
Andrea, innanzitutto una curiosità: perché una suite di circa mezz’ora?
In realtà il progetto iniziale era di realizzare due dischi che dialogassero tra loro, uno intitolato Figlio, l’altro Padre. Dovevano essere il seguito dei miei album Ecce homo e Uomo donna. Poi, però, ho cambiato il progetto: se mi sono ritrovato a scrivere un pezzo unico con questo minutaggio è perché all’inizio della produzione ho scoperto di stare per diventare di nuovo papà.
Quindi ciò che avevi in mente era un doppio album sul tuo primo figlio?
Più o meno, ma alla fine ho circoscritto il discorso, mi sono concentrato sul concetto della circolarità del tempo ed è nata questa suite. Tu mi dirai: cosa c’entra la circolarità del tempo? In effetti non dico sia evidente. Per me è la sensazione che mi trasmettevano i capitoli di cui si compone Immensità ed è il tema su cui si fonda il mediometraggio d’improvvisazioni di cui la suite sarà la colonna sonora.
Abbiamo una colonna sonora senza film: quando lo vedremo?
Non lo so, sto impazzendo, perché è composto da un pezzo improvvisato sei mesi fa, un altro cinque giorni fa; è assurdo, vediamo che succede. Non è che abbia mai pensato razionalmente di fare tutto questo, ma nella fase finale del lavoro sono andato a Parigi a registrare un quartetto d’archi e a un certo punto, visto che stavamo facendo delle riprese, mi è venuta l’idea di farne altre fuori di lì, incentrate sulla violoncellista che stava andando a prendere la metropolitana. Da questo spunto casuale è scaturito il resto.
Casuale per modo di dire: tu non lavoravi come assistente sui set cinematografici e come montatore video?
Sì, ma adesso è da un po’ che faccio il musicista.
Lo ammetti, finalmente! Per un periodo hai continuato a sostenere che la musica non era il tuo mestiere e che non volevi diventasse tale.
Vero, però da un po’ la musica è diventata una fonte di sostentamento, per cui… Ma è comunque vero che non sono un musicista io: ho una fetta di vita molto grande da un’altra parte, lontano dal palcoscenico.
Come vuoi, di certo nelle recensioni di Immensità uscite finora ti si riconosce – e giustamente – una notevole ambizione artistica.
Mi fa piacere che scrivano così, ma non è che sia un mio intento avere un’ambizione artistica.
Sarà che la tua musica è il risultato di una ricerca sonora che altrove si vede poco?
La ricerca sonora da parte mia c’è, però quello che porto avanti è un processo empirico: io suono, registro, faccio musica, ma non l’ho mai studiata né conosco le tecniche di registrazione. È sicuramente una ricerca profonda la mia, ma senza basi di riferimento cui appoggiarmi. Il che significa che per ogni suono mi devo fermare un attimo per capire come registrarlo, non avendo competenze.
Un lavoro da nerd: si può dire?
Da nerd, ma senza competenze e anche senza tutorial. Prendo il microfono, provo, faccio esperimenti e man mano capisco cosa viene fuori.
Cosa pensi, invece, di chi ascoltando i tuoi dischi va a caccia di riferimenti? Oltre a Battisti per Immensità sono stati scomodati, tra gli altri, Radiohead, Maurice Ravel, Portishead, Mercury Rev.
Incredibile. Non posso contraddire nessuno perché non ho mai comprato un disco in vita mia. Il che mi rende la persona meno adatta a raccontare e contestualizzare la mia musica. Se qualcuno mi dice che nelle mie canzoni sente delle atmosfere anni ’60 e ’70 non mi resta che rispondere “ok, hai ragione, sei tu il conoscitore”. Se poi quel qualcuno continua con un “giù la maschera, so che sai di cosa sto parlando” e comincia a farmi dei nomi, finisce che faccio delle brutte figure, perché davvero sono ignorante.
Però Battisti sì, dai…
Chiaro, lo conosco, dopo l’uscita del mio primo disco continuavano a citarlo e sono andato a sentirmi un po’ di cose. La mia cultura musicale nasce dai consigli giornalistici (ride, nda).
E dalla famiglia, no?
Assolutamente sì, in casa mia madre ascoltava classica e mio padre jazz. Però era mio fratello il musicista.
Matteo De Simone, frontman dei Nadàr Solo, gruppo in cui in passato hai suonato la batteria.
L’unico strumento che so suonare veramente, gli altri ho imparato a suonarli per necessità.
Come nascono le tue canzoni?
Scrivo registrando. Non registro dopo aver scritto, mi sembrerebbe di fare delle cover, sarebbe strano fare qualcosa che ho pensato in un momento precedente. Invece io lavoro a una prima stesura che registro già con un arrangiamento, poi la canto improvvisando il testo. A quel punto la voce rimane quella, l’arrangiamento può evolvere nel tempo, però mi piace ci sia la prima versione, la prima volta che ho aperto bocca su quella musica. Non se ne accorgerebbe nessuno se rimaneggiassi la parte vocale, ma io saprei di recitare. Che è una cosa che dal vivo è giustificata, prima no.
Sul serio non hai mai scritto un testo?
Sul serio. E per me è meglio così, altrimenti si innescherebbero delle strane forzature.
Cosa intendevi quando hai detto che la circolarità del tempo è la sensazione che ti trasmettevano i capitoli di Immensità?
Mi spiego: il concept è diviso in 4 capitoli: Il sogno, La realtà, Lo spazio, Il tempo.
E a ciascuno corrisponde una canzone, rispettivamente Immensità, La nostra fine, Mistero, Conchiglie.
Ecco, fondamentalmente mi sono immaginato un percorso esistenziale che parte dal miracolo della nascita, del fatto di venire al mondo, per continuare con uno scontro con la cruda realtà derivante dalle esperienze che si hanno su questo pianeta. Realtà che ha una grossissima costante che è la morte, morte nel senso di lutto, di smarrimento che può capitare in qualsiasi giornata della propria vita e da cui, però, finché siamo qui si rinasce. Per questo l’ultimo capitolo è legato al tempo e sostanzialmente alla resurrezione. E da lì si ricomincia. Anzi, l’idea sarebbe proprio quella di un ascolto circolare, per cui dall’ultima nota si riparte con la prima e via così.
Ma tutte queste riflessioni da dove nascono? Letture?
Ho letto forse Abbaiare stanca di Pennac. Ma ti giuro che non leggo niente, sono ignorante in maniera preoccupante. Ho un’ottima impostazione logica, se ho quattro nozioni sono in grado di usarle, ma non sono laureato, mi sono diplomato per un pelo al liceo classico.
Però sostieni che è tutta roba che gira nella tua testa, che nulla di specifico ti ispira queste riflessioni. Non ti crederà nessuno…
E va benissimo così! Diciamo che non sono informazioni che ho reperito in modo tradizionale.
So che ami la solitudine.
Moltissimo. Per questo passo il tempo a registrare, in quei momenti non può avvicinarsi nessuno, né mia moglie, né mio figlio, né un amico, nessuno. Mi sono risparmiato 25 anni dallo psicologo così. Per quanto sia bellissimo stare con gli altri, in compagnia non si è mai completamente liberi, anche solo banalmente per rispetto. Mentre quando si è da soli sì ed è ciò che più mi piace di questa cosa che sta diventando un mestiere. I concerti sono una scomodissima collateralità.
Non sembri a disagio sul palco. E sei anche aperto nei confronti del pubblico.
Ora di più, ma ho dovuto lavorarci tantissimo su questa cosa. Ho dovuto sforzarmi; proprio non li volevo fare, i concerti, era un no secco all’inizio. Dopo mi ha aiutato anche la paternità, lì ho sentito la responsabilità di dover concretizzare qualcosa. E mi dà coraggio il fatto che pian piano mi sto avvicinando sempre più al potenziale sogno della mia vita, che è quello di avere un’orchestra di 60 elementi, di scrivere per orchestra. Infatti adesso avere anche solo tre musicisti in più sul palco mi fa godere, riesco a non pensare che è scomodo il posto dove mi trovo.
Ma cos’è che ti mette a disagio del palco?
La cosa in sé. A parte che non sono estroverso di natura.
Nemmeno timido, direi.
Dici così perché per nascondere la timidezza divento logorroico. È che non sono abituato, per questo un po’ odiavo le interviste. Ciò che mi mette a disagio dei concerti è l’impalcatura culturale che si costruisce attorno a chi sta sul palcoscenico, per cui si tende a mitizzare un ruolo. Mentre per me stare sul palco è qualcosa quasi da pagliaccio, da un certo punto di vista. Adesso sempre meno, perché vedo che c’è gente interessata, ma inizialmente mi chiedevo quale fosse lo scopo di mettermi davanti a degli spettatori: la vanità? Che cosa? È lo stesso motivo per cui non sono uno che va ai concerti, non comprendo l’esigenza esatta di chi sta lì sopra.
Ma queste date legate a Immensità ti fanno godere, hai ammesso.
Sì, perché ho la sensazione forte di essere lì per la musica, non per gli altri.
Hai dichiarato che oggi ai musicisti viene richiesto di essere anche “imprenditori, pubblicitari e majorette”.
Ecco, di certo io quelle cose non le posso fare. Non è una questione politica, semplicemente non posso farle, non ne sono capace, non sono disposto a scendere a patti da quel punto di vista. Mi hanno anche consigliato di parlare durante i concerti, ma io credo che se uno è davvero sincero quelle persone che ha lì davanti non può che trattarle come degli sconosciuti – perché è questo che sono –, con cui al massimo si può instaurare un rapporto di simpatica empatia.
E nell’immensità di Andrea Laszlo De Simone c’è della spiritualità?
No, niente di spirituale né di religioso, ho una visione assolutamente laica e materiale della vita e della morte. Poi credo che siamo sette miliardi di persone e che ciascuno di noi rappresenti un universo parallelo: tu hai il tuo che scaturisce dalle tue elaborazioni, io il mio, e va bene così. Ma anche se auguro ai cattolici che la loro credenze si avverino, sono convinto che quando finirà rimarrò sotto terra. Per me è anche un sollievo.