Nel 2012, tra gli addetti ai lavori cominciò a circolare freneticamente un videoclip che aveva lasciato tutti a bocca aperta. Si trattava di un cantante di allora 26 anni, Andrea Nardinocchi, che aveva alle spalle qualche piccola collaborazione con un allora sconosciuto Mecna e, sotto l’egida del rapper Dargen D’Amico e della sua neonata etichetta Giada Mesi, presentava il suo primo singolo, Un posto per me. Un brano bellissimo, intenso, intimo, commovente, che non aveva nulla da invidiare alle grandi produzioni del pop internazionale. Quando poi Nardinocchi cominciò a fare qualche showcase riservato ai giornalisti di settore, lo stupore aumentò a dismisura: era praticamente il primo in Italia a utilizzare anche dal vivo loop station, effetti e pedaliere, che padroneggiava come i colleghi dalla formazione più tradizionale padroneggiavano l’uso della chitarra o del pianoforte.
La sua storia e la sua persona erano non convenzionali sotto tutti gli aspetti. Nato e cresciuto a Bologna, campione italiano di freestyle basket, a un certo punto aveva mollato lo sport per cominciare a fare musica, ed era riuscito a creare un sound originalissimo e incisivo, pieno di sfaccettature e reminescenze, che affascinava ancora di più l’ascoltatore perché era in netto contrasto con il suo carattere riflessivo, timido e riservato. La critica specializzata lo incoronò ufficialmente come nuovo profeta della canzone italiana; la discografia fece a gara per accaparrarselo (per la cronaca vinse EMI, poi assorbita da Universal) e lo mandò a Sanremo con tutti gli onori. Poteva essere l’inizio di una storia straordinaria, e in un certo senso lo fu, perché i suoi primi due album furono tra le produzioni più fresche e non convenzionali del pop italiano, uno sprazzo di urban anni prima che si cominciasse a parlare di urban.
Pian piano, però, fu chiaro che quella miracolosa scalata alle classifiche che tutti preconizzavano non sarebbe mai arrivata – succede anche ai migliori, purtroppo: il pubblico è imprevedibile – e la sua presenza si fece sempre più evanescente e sporadica, fino a sparire quasi del tutto qualche anno fa. In giro si raccontavano parecchie leggende metropolitane su di lui: che non era più in grado di cantare perché era vittima di attacchi di panico fortissimi ogni volta che saliva sul palco, che aveva mollato tutto per tornare allo sport, che per contratto non avrebbe più potuto pubblicare dischi. Almeno fino a qualche mese fa, quando Andrea Nardinocchi è tornato da indipendente con un paio di singoli, culminati nella pubblicazione dell’album La stessa emozione, che esce proprio oggi, a cinque anni di distanza dal suo ultimo lavoro. E la magia è esattamente quella che ci aveva stregato la primissima volta che l’avevamo ascoltato.
Perché tutto questo tempo tra questo album e il precedente?
La verità è che La stessa emozione sarebbe dovuto uscire due anni fa: gli accordi, però, non sono stati rispettati. Da parte mia sapevo che non potevo fare molto per obbligare la mia controparte a farlo; certo, avrei potuto diffonderlo per conto mio, ma sentivo di non voler forzare la situazione e affrettare le cose per pura testardaggine. Non nascondo che ho sofferto molto a fare questa scelta, perché quando sei pronto a pubblicare un disco e ti trovi costretto ad aspettare in eterno, da artista senti di avere ben poco controllo sulla tua creatività. Era stata una delusione enorme: avevo lavorato per tutto il 2016 e il 2017 sulle mie canzoni, e quando mi hanno fatto capire che non sarebbero più uscite, qualcosa dentro di me è morto. Avevo deciso di mettere una pietra sopra alla mia musica, per sempre.
E a quel punto che è successo?
Che ho passato altri due anni a cercare di riprendermi dalla delusione e a uscire da una fase depressiva. La risalita è iniziata pian piano, disegnando: una cosa che non facevo da tanto tempo. Mentre cominciavo a stare meglio, inaspettatamente è arrivato l’Arcangelo Gabriele dal cielo, sotto forma di Davide D’Aquino (di Artist First, società di distribuzione discografica che si rivolge in particolare agli artisti indipendenti, nda). Mi ha chiesto cosa stavo facendo e, dopo aver sentito la mia storia, mi ha esortato ad andare avanti: “Non preoccuparti, ti aiuto io”. A lui si sono poi aggiunti Lucia Stacchiotti e Massimo Bonelli di iCompany, che oggi è la mia etichetta. Non avendo più nulla da perdere, mi sono fidato. E ho scoperto di sentirmi più leggero, perché finalmente ero libero dalla pressione di rappresentare “il futuro della musica italiana”, come alcuni giornalisti avevano scritto di me. Quelle parole mi avevano messo addosso un’ansia da prestazione clamorosa, che per tanti anni non ero riuscito a scrollarmi di dosso. Quando me ne sono liberato, ho ricominciato anche a scrivere tantissime canzoni, che spero di fare uscire più avanti. Ora sto molto bene: vivo meglio, faccio musica con molto più piacere e sono davvero contento.
Queste tue parole fanno riflettere, perché in effetti fin dall’uscita di Un posto per me la stampa musicale ti aveva identificato come una sicura promessa, e oggi scopriamo di aver contribuito involontariamente al tuo malessere…
Non preoccupatevi, in gran parte ho fatto tutto da solo (ride). Di certo non mi ha aiutato il fatto che, mentre ancora stavo mixando il mio primo disco, c’erano già media molto importanti che mi intervistavano e accendevano i riflettori su di me. Da una parte la cosa mi ha messo sotto pressione, e dall’altra mi ha fatto credere di possedere una forza che in realtà non avevo. Andare a Sanremo dopo pochi mesi che stavo facendo musica, ad esempio, non è stata una grande idea, perché non ero pronto: ai tempi, a parte dei piccoli showcase per la stampa, non avevo neanche mai fatto un live vero e proprio davanti a un pubblico. Anche se da fuori la mia esibizione non era stata uno spettacolo poi così raccapricciante, per me è stata un’esperienza molto dura. L’attenzione, la gente, i giornalisti, il dover parlare di te stesso e di sentimenti che hai messo in musica proprio perché non sei in grado di esprimerli a parole… Un po’ mi ha traumatizzato: mi ero convinto che tutto fosse perfetto e fantastico, e di essere un artista fortissimo, e poi ho scoperto nel peggiore dei modi che non basta curare in maniera maniacale le tue canzoni perché tutto vada bene. Devi anche essere capace di stare al centro dell’attenzione, e io non lo ero.
Su Sanremo hai scritto anche una canzone a tratti anche un po’ ironica, Sanremo amore scusa, e mi ha fatto pensare che forse se persone come Luigi Tenco fossero riuscite a mettere in musica tutta la frustrazione accumulata su quel palco, oggi racconteremmo una storia diversa…
Un’affermazione molto leggera, la tua (ride)! È vero però che ho usato la musica per sfogarmi: anche se ormai erano passati tanti anni, evidentemente avevo finalmente elaborato il trauma, anche se mi era rimasta l’amarezza di non essere riuscito a comunicare quello che era successo al resto del mondo. In realtà la canzone si rivolge a una persona nello specifico, non alle persone in generale. Le cose che racconto nel testo sono successe perché in quel periodo mi ero convinto di essere invincibile, che tutto sarebbe andato bene, che nulla avrebbe potuto fermarmi, e quindi chi se ne frega di chi mi stava intorno. Ho perso la lucidità e ho fatto degli sbagli dettati dalla mia convinzione di essere speciale, importante. Sanremo amore scusa è il mio modo per spiegare perché facevo così tanta fatica a comunicare perfino con le persone che mi apprezzavano di più.
Ti è capitato che qualche tuo collega si rispecchiasse nella tua canzone?
Hai voglia! In primis una persona che ho conosciuto proprio in gara nel 2013 e che è poi diventata una mia carissima amica, Irene Ghiotto: entrambi eravamo stati eliminati e abbiamo guardato insieme la finale in hotel. Diversi altri, tra quelli che hanno partecipato a Sanremo Giovani, mi hanno confermato che si sono sentiti proprio come me: si suppone che chi è in gara tra i big abbia già esperienza, per cui sono soprattutto gli esordienti a essere toccati da questo tipo di dinamica.
Tornando all’album, uno dei brani più significativi è Questa vita, un brano che sa di rinascita. Cito testuali parole: “Questa vita è un capolavoro / io la riassumo così / anche nei giorni impossibili”.
Sono parole che sintetizzano la serenità che ho trovato nell’ultimo anno e mezzo, ma in realtà sono state scritte mentre stavo uscendo dalle brutte esperienze legate al mio secondo disco. Sia allora che adesso cominciavo a rivedere la luce in fondo al tunnel, a perdonare le persone che pensavo mi avessero fatto del male, a fare pace con certi avvenimenti. La vita è un’esperienza unica e irripetibile, perché nessuno ne ha una uguale a quella di un altro, quindi va celebrata. Lamentarsi è una perdita di tempo.
L’ultima canzone, invece, Ti voglio bene, è un pezzo molto significativo e denso di emozione, dedicato ai tuoi genitori. Com’è nata l’esigenza di rivolgerti a loro?
I miei genitori sono in tutte le mie canzoni: chi ha ascoltato i miei dischi precedenti lo sa. In Ti voglio bene stavo cercando di sfogare la mia frustrazione, perché all’improvviso mi ero reso conto che sarei dovuto essere io a fare un passo verso di loro. Sapevo che per me sarebbe stata una cosa enormemente difficile, ma sapevo anche di doverlo fare, prima o poi. È stata un po’ profetica, perché questo riavvicinamento è avvenuto solo anni dopo averla scritta.
L’hanno ascoltata?
(Sghignazza) Scusa, rido perché è un argomento un po’ delicato. Diciamo che non mi è mai facile fare ascoltare le mie cose alla mia famiglia. Succede un po’ a chiunque, in ogni ambito: sei particolarmente fiero di quello che fai e non vedi l’ora di rendere partecipe il resto del mondo, ma quando fai l’errore madornale di condividerlo con chi ami e stimi di più, nel momento in cui ne sei più entusiasta, tutto crolla. È normale, perché non tutte le persone possono essere in grado di capire cosa rappresenta per te quella creazione. La ragazza che condivide la mia vita, ad esempio, mi ha supportato fin da quando non avevo ancora cominciato a fare musica, mentre riguardo ai miei genitori, ho imparato a rapportarmi con più serenità al loro giudizio: oggi non cerco più di ottenere fiducia in me stesso tramite loro, perché la fiducia me la sono costruita da solo.
Come songwriter sei sempre stato associato al mondo della musica urban perché usi strumenti “non convenzionali” per comporre e suonare le tue canzoni, come la loop station. Ti ritrovi in questa definizione?
Sono discorsi abbastanza distanti dalla mia vita di tutti i giorni: io scrivo e suono così perché non sono in grado di fare altro, è il mio modo di esprimermi. Ho iniziato ad ascoltare davvero musica solo nell’ultimo periodo. Prima cercavo di non sentirla più di tanto, per non farmi influenzare. Mi sentivo in costante competizione con il resto del mondo, quindi mi ero alienato. Quando ho ricominciato a stare meglio, mi sono aperto: la musica è diventata per me una grandissima medicina. Ho scoperto artisti che mi piacciono tantissimo, di cui magari conosco solo una canzone, ma che so di dover ascoltare se ho bisogno di sentirmi in un certo modo. Un progetto in particolare mi è rimasto nel cuore: ha composto la colonna sonora di un videogioco a cui ho giocato per tutto l’autunno scorso, Death Stranding (un’altra cosa che ormai non facevo più da tempo). Si chiama Low Roar e ho adorato le atmosfere magiche che ha creato.
Come accennavi all’inizio dell’intervista, per buona parte della tua carriera solo giornalisti e addetti ai lavori hanno avuto il piacere di assistere a qualche tuo showcase, ma un concerto vero e proprio di Andrea Nardinocchi è ancora una rarità. Le cose cambieranno con l’uscita di La stessa emozione?
Sì, assolutamente, e sarà fantastico. Ma se devo essere onesto, non ho la più pallida idea di quando succederà. Dal 2012 a oggi, suonare dal vivo è stato il trauma più grande: all’inizio della mia carriera avevo molta voglia di farlo, ma mi hanno convinto ad aspettare a lanciarmi in un tour tutto mio, e piuttosto a partecipare a degli appuntamenti promozionali in contesti enormi per un esordiente come me, come Sanremo o i vari Music Awards estivi. Tutti gli altri traumi sono riuscito a elaborarli, mentre per quanto riguarda l’aspetto live, voglio che tutto sia perfetto, e quindi aspetto il momento giusto. Magari succederà quando avrò 40 o 50 anni, chissà! (Ride) Non sarebbe corretto dire che ci saranno concerti legati a questo disco, perché la verità è che non lo so. Non ho nessuna fretta.