Nell’ultimo tour, quello del 2016, gli AC/DC cadevano a pezzi. Il cantante Brian Johnson stava perdendo l’udito, e Axl Rose lo sostituirà per diverse date; il chitarrista Malcolm Young, il fondatore del gruppo, aveva sviluppato la demenza e non poteva più suonare; il bassista Cliff Williams meditava di mollare tutto; e il batterista Phil Rudd era stato arrestato per aver minacciato di morte un uomo.
Contro ogni previsione, il chitarrista solista Angus Young è riuscito a rimettere assieme la band. Johnson, Williams e Rudd sono tornati all’ovile e insieme a loro c’è Stevie, nipote di Angus e sostituto di Malcolm, morto nel 2017. L’anno scorso hanno pubblicato Power Up, il loro 17esimo viaggio sull’Autostrada per l’Inferno. Angus ha descritto il disco come un tributo al fratello, così come Back in Black, il blockbuster del 1980, era l’epitaffio per il frontman scomparso Bon Scott.
«Tante cose andavano male», dice Angus collegato su Zoom, seduto tra due enormi amplificatori Marshall, vestito comodo con una felpa col cappuccio. «Ma come diceva sempre Malcolm: vediamo che si può fare, tiriamo fuori il meglio dalla situazione».
Come avete scritto Power Up? Tutte le canzoni sono firmate da te e Malcolm.
Molte idee risalgono al periodo precedente a Black Ice (l’album del 2008, nda). Quando l’abbiamo registrato avevamo tanto materiale: non andavamo in tour da tempo e avevamo scritto tante canzoni. Così ho pensato: mi concentrerò su quelle che gli piacevano di più e le farò uscire. È stata questa l’idea che mi ha guidato.
Come avete trovato il suono degli AC/DC, agli inizi?
Io e Malcolm abbiamo sempre confrontato le idee, eravamo uno il critico dell’altro. Proporre idee di canzoni che non c’entravano con quello che pensavamo fossero gli AC/DC non ha mai avuto senso per me. Non tiravamo mai fuori jam blues o jazz. Proponevamo le idee che potevano funzionare con il suono degli AC/DC. Questo era il nostro approccio. È sempre stato così, anche agli inizi. Conosciamo il nostro stile. Sappiamo cosa vogliamo. Quando la gente ascolta le nuove canzoni, deve pensare: sono loro, hanno il loro stile, un modo di essere.
Come definiresti un bel riff degli AC/DC?
Se ha ritmo aiuta. È un elemento importante.
I vostri detrattori dicono che fate sempre lo stesso disco. Ti dà fastidio?
Malcolm diceva sempre: «sì, suoniamo le stesse cose perché siamo la stessa band, siamo così». Non abbiamo mai cercato di uscire dal nostro territorio. Malcolm diceva anche un’altra cosa: «cerchiamo di conquistarli all’inizio dell’adolescenza, prima che vadano al college e si innamorino dei Pink Floyd, o roba del genere (ride). Conquistiamoli quando sono giovan»”.
Non era vostro fratello George, che ha prodotto i primi dischi del gruppo, a sconsigliarvi di seguire i trend?
Sì, diceva che conformarsi era come morire. Ha sempre detto che era così che morivano le grandi band. A nessuno piace vedere un gruppo che cambia identità, che cerca di essere qualcosa di diverso. Ci hanno sempre detto che dal vivo siamo potenti. La nostra arte consiste nel mettere questa potenza sul disco, renderle giustizia.
Malcolm ti ha incoraggiato a tenere in piedi la band anche senza di lui. È stato difficile?
Sì, perché lui c’era fin dagli inizi. Ha fondato il gruppo e, beh, è stato lui a darmi un lavoro e la cosa all’epoca mi ha scioccato.
Ti ha scioccato il fatto che ti volesse nella band?
Siamo cresciuti insieme, suonavamo, ma non capivo perché me l’avesse chiesto. Mi ha detto: «Senti, alla band serve un altro strumento e tu sei bravo quanto gli altri chitarristi che conosco».
Cosa pensava degli AC/DC negli ultimi anni della sua vita?
Anche nei momenti peggiori della malattia, faceva di tutto per continuare. Ed è quello che mi ha sempre detto di fare.
Come ha gestito la morte di Bon Scott, nel 1980?
Mi ha chiamato e ha detto: «forza, torneremo a lavorare». All’epoca stavamo scrivendo le canzoni di Back in Black. Ha detto: «invece di piangerci addosso, andiamo in studio e facciamo quello che abbiamo sempre fatto. Suoniamo, forse ci aiuterà a superarlo». Ha funzionato. È stata una buona terapia, il nostro modo di affrontare le cose. Era questa la forza di Malcolm. Diceva sempre: «ok, vediamo cosa si può fare».
Through the Mists of Time è una delle canzoni migliori del disco. È quasi introspettiva, con Brian che canta di vecchie foto appese alla parete. Durante le session pensavate molto al passato?
Non proprio. A volte, quando lavori a una canzone, scrivi parole che stanno bene con la melodia. Qualcuno, una volta, mi ha detto che Paul McCartney cantava Yesterday con le parole “scrambled eggs”, così da ricordare la melodia. A noi succede lo stesso. In questo caso, Malcolm aveva scritto alcune frasi della prima strofa. Io ho cercato qualcosa di meglio, ma le sue parole suonavano davvero bene. Erano giuste. E ho deciso di lasciarle così.
Pensavo che parlasse del passato del gruppo…
No, no, no. Gli AC/DC non hanno mai avuto un messaggio. Anzi, ce n’è solo uno: volevamo che sempre più gente si interessasse alla musica rock.
Nell’ultimo tour sembrava che la band cadesse a pezzi. Come hai fatto a continuare?
Ho pensato a cosa avrebbe fatto mio fratello. Riusciva a restare calmo anche in mezzo a una tempesta. È difficile prendere decisione sensate quando sei travolto da un problema, ma lui cercava sempre di tirare fuori il meglio. Quando Brian ha avuto i suoi problemi di udito, i medici gli hanno consigliato di smettere di suonare. Avevamo alcuni impegni, e non volevo finire in una stanza piena di avvocati a combattere per annullare le date. Così ci hanno suggerito di sostituirlo. E Axl Rose ci ha contattato. Gli sarò grato per sempre. È stato molto professionale, ci ha regalato grandi performance.
So che vi ha chiesto di suonare tante canzoni che non portavate sul palco da tempo, come Live Wire e Rock’n’Roll Damnation. Farlo ti ha dato una nuova prospettiva sul passato degli AC/DC?
Mi ha fatto tornare in mente un sacco di canzoni. Gli dicevo: «sì, forse l’abbiamo suonata da qualche parte». Il problema è che le tirava fuori il giorno stesso del concerto. Le proponeva e cercavamo di farle. Sono stato fortunato. Il mio tecnico della chitarra suonava in una cover band. Gli dicevo: dimmi il primo accordo e poi vado avanti da solo. È stato divertente. Ci teneva sulle spine.
Axl ha anche detto che avreste lavorato insieme a della musica. Ci avete mai provato?
Niente di serio. So che è coinvolto in tanti progetti diversi. Non so se sono tutti legati alla musica. Ma aveva già tante cose in programma.
Sembrava che volesse scrivere canzoni con te. È per questo che sono così curioso…
No, no, non è mai successo.
Alcuni fan hanno detto che avete sostituito Brian troppo in fretta. Sei pentito di come è venuta fuori la notizia?
Gli AC/DC non si sono mai occupati di pubbliche relazioni. Abbiamo cercato di informare la gente senza illudere nessuno. A essere sincero, io e Cliff pensavamo che almeno avremmo potuto finire quello che avevamo iniziato. Capisco che da fuori potesse sembrare un disastro, ma erano tutti ansiosi di saltare a bordo.
Quando hai ricominciato a parlare con Phil Rudd?
L’ho visto al funerale di Mal, ero felice che fosse venuto. Ha fatto tanta terapia, era in salute, nella forma migliore da davvero tanto tempo. Abbiamo parlato e siamo rimasti in contatto.
E Cliff? Non aveva detto che quel tour sarebbe stato l’ultimo?
Dopo l’ultima data gli ho detto: se dovessi fare qualcosa di nuovo, posso contattarti e chiederti se vuoi farne parte? Ha risposto di sì. Era entusiasta di tornare.
Quest’anno Back In Black compierà 40 anni. È il secondo disco più venduto…
Il secondo? Qual è il primo?
Thriller di Michael Jackson.
Dobbiamo sbarazzarcene (ride).
Secondo te perché Back in Black è così popolare?
Quando Brian ha sostituito Bon siamo entrati in un territorio sconosciuto, non sapevamo come avrebbe reagito il pubblico. Sapevamo che i pezzi erano forti e alla produzione c’era Mutt Lange. L’abbiamo registrato alle Bahamas, abbiamo tirato fuori il meglio da tutte le performance. E non sapevamo come sarebbe stato accolto.
Persino fare la copertina è stato un problema. Abbiamo lottato perché restasse nera, il colore del lutto. Qualcuno aveva paura che venisse accolta male, ma abbiamo insistito. Poi, quando l’album è uscito, è andato benissimo. Subito dopo siamo partiti in tour. Ma è solo dopo la fine di quei concerti che ho iniziato a capire quanto stesse andando bene. È stato un bel momento.
Non pensavo che avrebbe venduto così bene. Chi si occupava del nostro management diceva che, con un colpo di fortuna, avremmo venduto un paio di milioni di copie. Erano scioccati dai risultati. Credo che sia uno di quegli album che ti conquistano col tempo. È diventato sempre più grande, ma all’epoca non arrivò al primo posto negli Stati Uniti. Per Malcolm era una gran cosa. Diceva: quando arrivi in cima non puoi fare altro che tornare giù (ride).
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.