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Anna B. Savage, terapia indie per conoscersi e riscoprire la gioia

La musicista inglese torna con 'in|FLUX', un flusso di coscienza, sentimenti, melodie bellissime e inquietanti o, come lo definisce lei, un album «sinuoso, lirico, indie». L'intervista

Foto: Katie Silvester

Se di fronte alle incongruenze del mondo, delle relazioni che ti ritrovi a vivere e dei tuoi stessi pensieri pretendi risposte nette e inconfutabili, non stai facendo bene i conti con il flusso delle cose. È partita da qui Anna B. Savage per mettere insieme i pezzi del suo secondogenito discografico in|FLUX, un disco in cui la consapevolezza di sé ha un certo peso specifico. A differenza del malinconico disco d’esordio A Common Turn (2021), il nuovo lavoro in studio abbraccia un ventaglio di sentimenti più ampio, spaziando dalla vulnerabilità alla gioia in valore assoluto, dall’intima condivisione del proprio dark side alla leggerezza più pura.

A maggio potremo sentirla dal vivo al Covo di Bologna, ma in una scena indie contemporanea in cui le cose sembrano muoversi a rilento, la voce di questa giovane e talentuosa cantautrice londinese suona forte e chiara. Durante l’ascolto è facile ritrovare nell’intonazione trasparenze alla Katie Stelmanis o alla Antony Hegarty ma occorre andare più in profondità per dare alla musica di Anna B. Savage coordinate più aderenti.

«Spesso capita che le persone mi collochino in un determinato genere nonostante neppure io sappia ancora qual è il mio posto nel mondo. E a dire il vero questa cosa mi fa sorridere. La musica è parte del mio DNA e mi circonda sin da bambina, i miei genitori sono entrambi cantanti lirici. Avevo all’incirca 14 anni quando ho deciso di tuffarmi nella composizione e nella scrittura. Fino ai 18 non ho scritto poi così tanto, ma a un certo punto ho iniziato a prenderla più seriamente e a cimentarmi nella stesura di poesie e poi di vere e proprie canzoni. Oggi suono anche parecchi strumenti tra cui il pianoforte, il clarinetto, la chitarra e il sassofono».

«I generi che mi hanno appassionato e al contempo ispirato da ragazzina credo possano rappresentare i lati di un triangolo. Un lato è dato dal vissuto familiare, permeato da tanta musica classica, dal jazz e dai Beatles. Gli altri due li associo agli ascolti di mio fratello, Radiohead e Nick Drake, e di mia sorella, Stevie Wonder e Lauryn Hill. Infiltrazioni diverse che mi hanno condotto alla scoperta di passioni soltanto mie, da Owen Pallett a My Brightest Diamond. Oggi ascolto tantissima altra musica ma certe cose mi sono rimaste dentro».

Una vera e propria scuola di formazione homemade la sua, che scopriamo essere piena di connessioni anche al di fuori del contesto familiare. «Ho vissuto in Inghilterra fino a quattro anni fa, poi mi sono trasferita in Canada, successivamente in Irlanda e adesso back in UK. Non sono certa di aver viaggiato mossa dalla necessità di fare ricerca, è stato più che altro lo spirito d’avventura a spingermi. Mi piacerebbe poter dire di aver scoperto nuovi generi durante i miei viaggi ma credo che qualcosa di simile sia accaduto soltanto in Canada perché lì ero ospite di una residenza artistica che mi ha consentito di entrare in contatto con un’ampia varietà di musicisti. C’è da dire che anche la musica irlandese tradizionale, con le sue sfaccettature folk e strumentali, mi ha regalato parecchi spunti e ispirazioni».

Procedendo con l’ascolto ci si imbatte in chitarre che singhiozzano sentimenti autobiografici, contrappunti elettronici e tuffi introspettivi ben espressi. «Ho scritto io tutti i testi», spiega Savage. «L’album si compone di un lato A e un lato B strettamente connessi tra loro, indivisibili seppur differenti. La prima parte procede con uno stile narrativo adiacente al mio primo disco, A Common Turn, che definirei introspettivo. Qui il brano Say My Name rappresenta il momento più cupo in termini di scrittura, racconta la perdita della possibilità di conoscersi realmente e allo stesso tempo la ricerca di qualcuno che possa riportarti in te stesso chiamandoti semplicemente per nome. In netta contrapposizione troviamo Orange, in chiusura del disco, che e ritengo sia la canzone migliore che abbia mai scritto perché è piena di felicità, amore, famiglia e amicizia. Esattamente nel mezzo c’è la title track, che fa da anello di congiunzione e fonde introspezione, sicurezza in se stessi, gioia».

Un upgrade in termini compositivi, ma non una chiusura con il passato. «La terapia mi ha condotto a compiere dei passi in avanti verso nuovi territori, ma le cose non sono ancora del tutto a posto. Con questo disco ho imparato a comprendere ciò che mi accade dentro e a essere più gentile con me stessa. Soprattutto ho capito quanto la gioia costituisca una parte importante della mia personalità e voglio riuscire a esprimerla tanto quanto i miei lati più intimi. Una gioia che per me deriva dalla compagnia delle persone che amo, dalla scoperta di tutto ciò che è nuovo, dalla possibilità di compiere errori. Quando proviamo dei sentimenti siamo portati a credere che siano gli altri a farli scaturire in noi, in realtà ha tutto a che fare principalmente con noi stessi. Ecco di cosa parlo in questo disco che in tre parole potremmo definire: sinuoso, lirico, indie».

Per Savage il momento della creatività è quello che prende forma a social network perché si possono imparare cose assurde lì dentro, ma in quelle scatole strette si finisce per rinunciare alla libertà. «Chi fa i grandi numeri, soprattutto su Instagram, non ha rughe, difetti, ma solo addominali ben in mostra. È frustrante. Per avere successo devi riprodurre in serie esattamente le stesse cose che ti hanno portato ad avere successo. Anch’io utilizzo i social perché un’artista oggi deve saper lavorare con le immagini, i video, i teaser, ecc. Ma ho scritto la musica e le parole di un disco ed è questo quello che vorrei far arrivare».

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