Anthony Phillips: andarsene senza voltarsi indietro | Rolling Stone Italia
Tales from the Ant World

Anthony Phillips
Andarsene senza voltarsi indietro

I Genesis lasciati dopo due soli album, i punk che lo chiamano «vecchia scoreggia», gli ex compagni di band che vanno verso il pop e lui che va verso il folk, la canzone dedicata segretamente alla fidanzata di Peter Gabriel, che la canta senza saperlo. Intervista con uno dei più «quiet» dei «quiet ones» del rock

Antony Phillips ai tempi di ‘The Geese and the Ghost’, 1977. Foto press

Sentirsi dare della vecchia scorregia a 26 anni non deve essere stato simpatico. Ma Anthony Phillips (Ant per gli amici) non si è fatto smontare e ha seguito imperterrito, fino ai giorni nostri, la sua vocazione per la musica acustica, bucolica e incantatrice. Lontanissima dalle regole del mainstream. Lo stesso Ant, che con Peter Gabriel, Tony Banks e Mike Rutherford ha formato i Genesis e dopo solo due album (From Genesis to Revelation e Trespass) li ha mollati a causa della sua fobia del palcoscenico (infatti non si è mai esibito dal vivo). Ant che passati sette anni ha dato alle stampe il suo primo lavoro solista, The Geese and the Ghost, a parere di chi scrive il più bell’album solo di un componente dei Genesis. Ant che proprio in questi giorni pubblica la sua nuova opera Private Parts & Pieces XII: The Golden Hour, raccolta di preziosi intarsi che basta metterla su e d’incanto ci si ritrova immersi nelle atmosfere pastorali di Trespass. Ant che per questa intervista accetta di parlare senza freni del passato, concentrandosi sulla sua visione della band, prima dall’interno e poi dall’esterno, sulle influenze, collaborazioni, amicizie e passi falsi. E anche di quando lui e Peter Gabriel si contendevano una ragazza.

Chi erano i tuoi miti chitarristici, quando hai iniziato?
Anzitutto Hank Marvin, il chitarrista degli Shadows. Poi, con la Beatlemania, tutti i gruppi che hanno seguito la loro scia: Rolling Stones, Kinks, Hollies, Yardbirds… Sono stato influenzato da George Harrison, Keith Richards e Brian Jones per poi approdare a nomi come Jeff Beck e tutta la scena blues autoctona con Peter Green, senza dimenticare Jimi Hendrix. Curiosamente invece, nessuno mi ha influenzato per quanto riguarda la 12 corde, mi hanno ispirato solo chitarristi elettrici.

Nel tuo modo di suonare e comporre ci sono anche echi del folk inglese.
All’inizio, prima di scoprire il blues, ero più interessato alla musica mainstream. Poi arrivò l’indie rock del tempo, che divenne quello che oggi definiamo rock progressivo. Detto ciò, amavo band come i Pentangle e Fairport Convention; What We Did on Our Holidays e Liege and Lief sono capolavori e considero Sandy Denny una delle voci più belle di sempre. Il loro non era folk nel senso classico, non si rifaceva a una vera tradizione inglese, mischiava rock e influenze americane in un mix originale. Vista l’importanza di queste band nella scena del Regno Uniti di fine anni ’60, la loro influenza è stata inevitabile.

La tua musica e quella dei Genesis hanno sempre avuto un risvolto letterario. Quali sono i tuoi autori preferiti?
Alla fine dei ’60 ho letto molto Virginia Woolf per prendere il diploma. Poi ho amato George Orwell, Herman Hesse, Henry Williamson… Molti poeti, per esempio quelli della grande guerra come Wilfred Owen e Siegfried Sassoon, però non mi sono mai cimentato nella trasposizione in musica di poesie come fece Benjamin Britten con gli scritti di Wilfred Owen. Il Signore degli Anelli ha influenzato tanta gente, ma per quello che riguarda me e i Genesis non trovo una connessione diretta. Noi avevamo White Mountain su Trespass che traeva ispirazione da Zanna bianca di Jack London. Quel pezzo però mi ha sempre preoccupato per un motivo molto poco letterario.

Spiegati.
Ricordo che io e Mike (Rutherford, ndr) stavamo ascoltando una cassetta con il provino del brano quando mia madre entrò nella stanza e disse «Assomiglia a un’altra canzone!». Ci misi un po’ di tempo per capire che ricordava vagamente Those Were the Days di Mary Hopkin, un brano del 1966 prodotto da Paul McCartney.

Non credo se ne sia mai accorto nessuno.
Comunque, per tornare alla tua domanda, quando scrivemmo White Mountain fummo influenzati da Jack London. Il testo, poi, è di Peter, anche se collaborammo tutti.

Ci sono altri testi che hai scritto, o a cui hai collaborato, in Trespass?
La seconda strofa di The Knife, la scrissi in cucina. Mi ricordo che fu una corsa contro il tempo per finire quel pezzo e “Carry their heads to the palace of old” fu il mio grande contributo.

È vero che per un certo periodo tu e Peter vi contendevate la stessa ragazza?
Sì e no (ride). Ti spiego: ai tempi Peter stava con Jill, che poi sarebbe diventata sua moglie, e io a un certo punto me ne invaghii. Lui nel frattempo era a Londra dove conobbe Lucy Burge, una stupenda ballerina. Jill era preoccupata che Peter non sarebbe stato in grado di resistere al suo fascino, cosa che in realtà lui riuscì a fare senza problemi. Io invece alla fine non ebbi una storia né con Jill né con Lucy, anche se con quest’ultima per un po’ sembrava cosa fatta. E comunque non avrei mai architettato niente alle spalle di Peter. Però la mia infatuazione per Jill mi ispirò un testo.

Quale?
Quello di Vision of Angels. E l’ironia è che Peter cantava quella canzone senza sapere che fosse dedicata alla sua futura moglie (ride).

Quindi quel brano non ha nessuna connotazione religiosa…
Come no? Jill era proprio una visione angelica (ride).

I Genesis nel 1969. Da sinistra, Antony Phillips, Tony Banks, Peter Gabriel, John Mayhew, Mike Rutherford. Foto: Robert Rootes/Cherry Red Records

Come mai in Trespass non sono stati inclusi brani che in quel periodo eseguivate dal vivo e che poi sono apparsi solo in forma di registrazione per la BBC? Parlo di Shepherd, Pacidy e Let Us Now Make Love.
Quelle canzoni avevano una forte componente acustica e purtroppo molto del nostro materiale di quel tipo non funzionava nei locali in cui dovevamo esibirci. Il pubblico era rumoroso e voleva solo divertirsi, non avevano voglia di sentire le cose più tranquille. Preferivano pezzi più “muscolosi” come Looking for Someone e The Knife. Così alcuni brani furono abbandonati strada facendo: appunto Pacidy, Shepherd, Let Us Now Make Love e un altro pezzo chiamato Grandma. Io poi ho recuperato Let Us Now Make Love proponendone una versione solo per pianoforte in uno dei miei dischi (Private Parts and Pieces VI: Ivory Moon del 1991, nda).

Da sempre si favoleggia di una suite inedita intitolata The Movement, anche questa persa nel tempo.
Le parti migliori di The Movement divennero Stagnation. Tutto qui, era solo una versione embrionale di quel pezzo.

Negli ultimi mesi Peter Gabriel ha cominciato a pubblicare alcuni suoi vecchi demo, antecedenti al primo album da solista. Brani in cui ci sei anche tu.
Peter ogni tanto veniva nel mio studio casalingo, Send Barns, a registrare delle idee. E io ero così giovane e ingenuo all’epoca da non chiedere un centesimo, neanche per il nastro. Lo aveva fatto quando era ancora nei Genesis (una di queste testimonianze è Firebirds, nda) e ancora di più lo fece quando lasciò la band. A quel punto si mise a collaborare con l’autore di testi Martin Hall e registrò dei demo. Non ricordo chi altro ci fosse con loro, ma ho bene in mente la session per You Never Know, che poi fu registrata da Charlie Drake, un noto comico inglese. Io suonai il piano e feci qualche coro.

Interessate notare che due transfughi dai Genesis si trovassero per lavorare insieme.
Beh, Peter era il mio batterista (prima di diventare cantante, Gabriel si cimentava con questo strumento. nda) in un gruppo delle vacanze nel ’66. Eravamo vecchi amici ed è normale che si rivolgesse a me per realizzare quei demo e quelli successivi, che poi portarono al primo album. Io poi andavo molto d’accordo con Martin Hall, avendo in comune la passione per il calcio, che poi ha collaborato con me per il testo di Holy Deadlock, sul mio quarto album solista Sides. In realtà all’epoca dei demo di Peter mi chiedevo che bisogno avesse di lavorare con Martin, essendo Peter un autore di testi già molto bravo, ma penso gli interessasse confrontarsi con altri artisti per capire a cosa si potesse arrivare. Immagino che Martin sia rimasto deluso quando Peter andò negli Stati Uniti da Bob Ezrin e gran parte del materiale realizzato insieme non finì nel primo album.

Quale fu il tuo pensiero quando vedesti i travestimenti che Peter sfoggiava sul palco con i Genesis?
Credo che in quelle occasioni Peter lasciasse il suo vero io sotto il palco. Era troppo timido e non sarebbe riuscito a parlare con il pubblico mentre il gruppo accordava gli strumenti che capricciosamente si piegavano al cambio di temperatura. Così, già da quando io ancora ero con loro, cominciò a interpretare una parte, lascando che la sua fantasia prendesse il sopravvento. Sviluppò una voce scenica e una certa capacità di muoversi. Quando poi arrivarono i travestimenti non rimasi sorpreso. Credo contribuissero anche a togliere un po’ di seriosità al gruppo, fu un’idea avanti ai tempi, molto originale e sicuramente funzionale.

Il tuo primo album solista, The Geese and the Ghost è uscito nel 1977, in piena esplosione punk. Come hai vissuto quel momento?
Malissimo, avevo solo 26 anni ed ero etichettato come una vecchia scoreggia, cosa paradossale visto che alcuni personaggi del punk erano più vecchi di me. Il mio disco sembrava appartenere a un’epoca lontana anni luce, era totalmente fuori moda, e cominciò una vera caccia alle streghe contro gli artisti progressive, cosa mai successa prima. Non vorrei sbagliare ma con l’arrivo dei Beatles quelli della mia generazione non hanno cominciato a insultare i vari Shadows, Adam Faith, Billy Fury, ecc. Forse li trovavamo un po’ noiosi rispetto alle cose nuove, ma non era abbastanza per considerare tutto ciò che era venuto prima come il male assoluto. La stampa poi ci mise del suo per scagliarsi subito contro i gruppi “vecchi” perché le storie hanno bisogno di buoni e cattivi e non c’è niente di interessante per vendere più copie. Gran parte dei gruppi prog dovettero scomparire, non è stato un bel momento.

Tutto ciò mentre stavi per esporti per la prima volta come artista solista.
L’album ottenne qualche risultato negli Stati Uniti perché lì il punk non prese piede allo stesso modo. In Inghilterra divenne totalizzante anche se a mio fratello e ai suoi amici, all’epoca avevano 17 anni, il punk non piaceva e continuarono ad ascoltare Genesis, Yes, Supertramp, Steely Dan… Quindi, non credo che fu un fenomeno totale, fu più un’esplosione di energia giovanile e peccaminosa. Un qualcosa forse di inevitabile, come lo erano stati dieci anni prima i Rolling Stones. L’unica vera differenza fu questa violenza verso la generazione precedente.

In The Geese and the Ghost ci sono alcuni interventi di una sconosciuta cantante di nome Vivienne McAuliffe. Chi era, e come l’avevi coinvolta?
Non ricordo chi la contattò, sicuramente non io. Era stata in un gruppo chiamato Principal Edwards Magic Theatre e nel 1975 registrò il mio disco in cui c’era un duetto tra lei e Phil Collins, anche se i due non si incontrarono mai. Fu l’unica volta che la vidi, morì nel 1989 e non ebbi mai l’occasione di ringraziarla. Molto triste, sarebbe stato bello lavorare ancora con lei.

Quando uscì The Geese and the Ghost scrissero che eri un incrocio tra Ralph Vaughan Williams e Mike Oldfield.
Il fatto di essere un polistrumentista ti metteva automaticamente a confronto con Oldfield a quei tempi. Lui fu il primo artista, dopo gli anni ’60, ad avere successo con dei dischi strumentali. Nessuno ci avrebbe creduto, e ho scoperto che mandarono un autore nello studio per cercare di mettere insieme dei testi sulle sue musiche, ma lui rifiutò e riuscì a dimostrare che era possibile essere se stessi. Non so se fosse più un vantaggio o un limite essere paragonati a lui, forse entrambi. Chiaramente se il mio esordio avesse avuto successo avrei amato continuare in quella direzione, ma uscendo in quegli anni dovetti adattarmi a un ambiente musicale che era radicalmente cambiato.

Anthony Phillips oggi. Foto: Antonio De Sarno

Cosa ricordi invece delle sessioni di Smallcreep’s Day, il primo album di Mike Rutherford in cui ti occupasti delle tastiere?
Furono molto divertenti, ma anche un po’ complicate per me perché all’epoca si era costretti a scrivere tutte le impostazioni dei vari suoni dell’ARP 2600. Mi preoccupava il fatto di non riuscire a ritrovare esattamente il suono che avevo creato per i vari pezzi, cosa che oggi avrei risolto facilmente grazie a delle foto con il cellulare. L’esperto delle tastiere era il produttore David Hentschel, quindi mi feci aiutare molto da lui che capiva perfettamente la mia situazione. Al di là di ciò, passai un paio di settimane negli studi degli Abba e fu bello lavorare nuovamente con Mike, con il quale andavo molto d’accordo. Poi era coinvolto un giovane Simon Phillips e fu una grande esperienza vederlo suonare. Ricordo che ogni tanto facevamo qualche scherzo a Mike, variando la velocità dei pezzi su cui aveva registrato delle voci guida, rendendole gradualmente più alte.

Ti piaceva qualche brano in particolare?
Non lo ascolto da anni, ma ricordo la ballata che chiude la suite della prima facciata: At the End of the Day, era molto bella. A Mike però quel disco non interessa più, per lui rappresenta il passato.

Sapevi che un gruppo molto famoso in Italia, Elio e Le Storie Tese, suona sempre dal vivo un pezzo da quel disco, Out in the Daylight?
No, non lo sapevo, ma non mi sorprende. Era un brano molto interessante.

Ti spiace che Mike non abbia continuato sulla strada del pop-prog, come in Smallcreep’s Day?
Più che altro è curioso che all’epoca non abbia cercato di scrivere un singolo di successo. C’era molta pressione in quegli anni a semplificare i pezzi e cercare qualche cosa di più radiofonico. Pensa ad Andy Latimer dei Camel che ha dovuto chiamare il suo album The Single Factor, per esempio. I venti del cambiamento hanno portato Mike a cambiare stile.

Credo che tu non ti sia mai sentito a tuo agio con i singoli e la musica commerciale in generale.
Non sono mai stato bravo a scrivere pezzi particolarmente commerciali, anche quando mi venivano richiesti. Ho dovuto collaborare con persone più brave di me in quel senso, in più la fortuna non è sempre stata dalla mia parte. Stavo scrivendo il pezzo Golden Bodies per Sheena Easton grazie al suo produttore Chris Neil. Poi questi smise di occuparsi di lei e tutto finì lì. Ci fu anche il brano Tears on The Ballroom Floor che scrissi insieme a Roy Hill per i Bucks Fizz, vincitori dell’Eurovision, ma ebbero un incidente stradale e non riuscirono a promuoverlo a sufficienza. Ci fu anche un brano country abbastanza commerciale, anche questo con Roy Hill, che doveva essere cantato da Roger Daltrey. Un fiasco totale! Non era destino.

Foto press

Ti ha sorpreso, invece, il successo di Phil Collins?
Domanda molto difficile. Naturalmente, tutti ci eravamo resi conto della sua caratura artistica nel corso degli anni: dall’essere il batterista ad occuparsi delle seconde voci a poi diventare un cantante solista molto dotato. Certamente non ci avrei creduto ai tempi di Silver Song (singolo che Phillips e Collins realizzarono nel 1974, destinato a essere pubblicato solo molti anni dopo, ndr), ma è stato un qualcosa di molto graduale. Quando poi uscì In the Air Tonight si capì che aveva il tocco giusto per arrivare al grande pubblico. Infatti ottenne un riscontro straordinario.

In che modo vi influenzavate tra di voi agli esordi?
Io e Mike suonavamo in coppia con le 12 corde, ma non penso di averlo influenzato per la chitarra elettrica. La sfida era sempre quella di trovare accordature interessanti. Peter e Tony? Non riuscirei a quantificare, anche perché sono entrambi degli autori brillanti. Sicuramente il mio lavoro pianistico deve essere stato influenzato da Tony. Il mio serio approccio al pianoforte cominciò però dopo che lasciai il gruppo, per me l’influenza maggiore è stata quella di Debussy, Ravel, Vaughan Williams, Holst, Sibelius… Tornando a Tony, penso che anche Phil sia stato influenzato da lui, almeno all’inizio. Almeno io ci sentivo qualcosa del suo approccio agli accordi.

Che tipo di chitarra elettrica usavi con i Genesis?
Ebbi la fortuna di poter usare una Fender Stratocaster, come quella del mio idolo Hank Marvin. La 12 corde invece era di produzione scandinava.

La legenda vuole che esista una versione molto più lunga di A Place to Call My Own, il brano che chiude From Genesis to Revelation.
Sì, è assolutamente vero. Prima o poi verrà pubblicata una nuova versione remix con inediti del nostro disco d’esordio a cui si sta lavorando da tempo, e per la prima volta si potrà sentire quella canzone nella sua forma originaria. È vero che l’album è stato ripubblicato un sacco di volte, ma questa è la prima volta che viene fatto un remix, e ciò lo rende un lavoro fondamentalmente diverso. Jonathan King all’epoca fu molto generoso nei nostri confronti, ma la decisione di aggiungere gli archi non era stata presa da noi, per non dire del mix in mono.

Immagino tu abbia seguito l’evoluzione dei Genesis dopo il tuo abbandono. Cosa hai pensato di Nursery Cryme e dei successivi album?
Nursery mi piacque, ricorda che io conoscevo già il materiale, in parte lo avevamo composto prima che io li lasciassi. Fountain of Salmacis c’era già quando facevo parte del gruppo, così come la prima sezione di The Musical Box. Certamente non conoscevo lo sviluppo della seconda parte del brano, che mi colpì tantissimo. Poi andai a vederli spesso dal vivo in quegli anni, conobbi molto bene Phil, mentre Steve era più introverso. Secondo me il loro grande punto d’arrivo fu Selling England by the Pound, un disco veramente brillante.

E i lavori successivi all’abbandono di Steve?

Ho seguito meno la loro carriera successiva. Credo che fossi più interessato alla fase con Peter. Mentre però registravo il mio secondo album, Wise After the Event, negli studi Trident, loro stavano lavorando al primo disco in trio (And Then There Were Three, nda) che mi colpì molto positivamente. Ho sempre rispettato molto ciò che facevano.

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