Un esordio tra i club di Berlino, poi il fortunatissimo (per ambo le parti) incontro con i Modeselektor, passando per le colonne sonore di film come Il giovane favoloso e Capri-Revolution. Sascha Ring, in arte Apparat, ha sempre espresso la voglia (e ancora più evidente: grande capacità) di rinnovarsi.
Il sodalizio con la regina della techno berlinese Ellen Allien appena trasferitosi nella capitale tedesca ad inizi 2000 aveva aperto una carriera (con l’album in duo Orchestra of Bubbles) che poi si sarebbe mossa per sentieri diversissimi. Dalla techno sperimentale dei primi lavori all’art pop elettronico dei successivi, fino all’incredibile successo mondiale del trio formato con Gernot Bronsert e Sebastian Szary, Moderat.
In vista del ritorno in Italia per il dj set al Letz Fest di Terni (dal 29 al 31 agosto, con in line-up, tra gli altri, anche Il Quadro di Troisi, Whitemary e Bluem), gli abbiamo chiesto cosa è successo in questi anni, tra la pausa (e poi la ripartenza) del progetto Moderat e la nuova carriera nel soundtracking per il cinema, tra importanti cambiamenti e nuove prospettive sia nella musica che (dopo esser diventato padre) nel privato.
In che fase della vita ti trovi? Ti senti più Sascha o più Apparat in questo momento?
Per adesso mi sento al 100% Sascha. Ho preso una pausa dopo la fine del tour con i Moderat lo scorso inverno. Mi sarei fermato tutto l’anno, ma dopo un po’ ho sentito il bisogno di rientrare nel mondo. Durante il Covid ho imparato che è bello permettersi lunghi stop, ma allontanarsi tanto tempo dalla vita reale crea un contrasto troppo forte. Ho deciso di fare qualche dj set per uscire a divertirmi un po’ e sì, a parte questo sono davvero Sascha. Apparat al momento è in pausa.
Che tipo di pausa?
Beh, suona folle anche solo ascoltandomi mentre lo dico, ma per 25 anni non mi sono mai fermato, tolta qualche vacanza. Non avevo mai smesso prima di fare cose legate alla musica per un periodo prolungato. Mi sembra il momento migliore per dedicarmi ad altre cose della vita ed è ciò che sto facendo.
Cosa è cambiato nel corso di tutti questi anni?
Direi il rapporto con i miei blocchi creativi. Non è evidente durante i tour, ma una volta tornato in studio mi sento come se non fossi più in grado di fare nulla. Mi è successo più volte, eppure mi sembra ancora una cosa “grave”. Ma sai, è anche un aspetto romantico: ti dà nuovamente il desiderio di fare musica. Forse è una sensazione necessaria.
La fine di una storia è sempre l’inizio di una nuova.
Sì, esatto. Ma dillo a Sascha quando ha le sue crisi (ride).
In mezzo c’è stata la pausa di cinque anni del progetto Moderat. Come ti sei sentito? E com’è stato ricominciare come trio?
Oggi posso dire che è stato difficile e che sarebbe dovuto accadere un po’ prima. Tante circostanze, pandemia inclusa, hanno influito. Ero diventato padre, mentre Gernot e Sebastian avevano altre cose ad occuparli. Non eravamo al 100% concentrati sulla realizzazione di un nuovo disco e penso si sia sentito. Ecco perché adesso non possiamo fermarci: credo non abbiamo ancora espresso tutto il nostro potenziale. Dobbiamo riunirci come band e riscoprire il divertimento di stare insieme in studio, come tre amici, chiudere le porte e non pensare a null’altro. Solo così potremmo riuscire a scrivere il nostro miglior album. Inizieremo a lavorarci lentamente verso la fine di quest’anno.
Quindi tra poco possiamo aspettarci nuovo materiale?
Sì, anche se non vogliamo necessariamente fare un album. Quando ti metti lì come band e dici: «Ok, facciamo nuova musica», parte un progetto enorme che rende l’approccio meno giocoso. È davvero un lavoro serio e lungo, perciò questa volta abbiamo stilato una lista di cose che non vogliamo fare. Una di queste è rispettare le scadenze e le pressioni esterne su ciò che deve essere fatto. Semplicemente entreremo in studio e ci divertiremo, come quando si era più giovani.
In effetti il suono di More D4ta (l’ultimo album dei Moderat, uscito nel 2022, ndr) sembrava molto cupo, per quanto ben ancorato al vostro stile. Avete avuto un nuovo tipo di approccio dopo la reunion?
No, non così nuovo. Certo, sei sempre influenzato dalle circostanze e da ciò che succede intorno, e in particolare io ho provato sentimenti contrastanti riguardo alla pandemia, dato che abbiamo iniziato a lavorare a quell’album in quel periodo. Stare a casa con un figlio piccolo mentre il mondo intorno a te impazzisce è stato claustrofobico. Questa sensazione ha trovato spazio nella musica del disco, per quanto non fosse intenzionale.
Eppure alla fine voi siete rimasti sempre molto autentici, nonostante nella musica club contemporanea, nell’elettronica o se vuoi, nell’elettronica pop, la qualità è scesa. Come la vedi?
Credo che dopo 30 anni non esista davvero un underground, inteso come lo era prima: la musica elettronica è diventata totalmente mainstream. Quando dico underground non mi riferisco tanto alla musica, quanto all’ambiente in cui penetra, il riflesso della sua realtà. Certo, esiste ancora quel tipo di club, magari in periferia, in alcune città, ma ci suonano musica completamente diversa rispetto ad altri posti? Non saprei dirlo. Non credo esista più una vera sottocultura.
Da cosa pensi sia dipesa questa evoluzione?
Semplicemente dal fatto che c’è tutta una cultura musicale che continua a essere interessante per molte persone, ma che forse ora tende a ripetersi guardando troppo al passato. Quando è nata era un fenomeno completamente incentrato sull’innovazione, proprio perché, come è successo con ogni genere musicale – ad esempio con la musica rock o con il fenomeno dei Beatles – era qualcosa di totalmente nuovo. Ma ecco, nell’elettronica l’innovazione non era solo negli strumenti: consisteva in un intero mondo di suoni che non era mai stato ascoltato prima.
E ci sarà ancora spazio per l’innovazione?
In modo molto, molto limitato. A un certo punto, come dicevo, tutto è già stato fatto e inizia a ripetersi. E dopo un po’ diventa, non lo so, direi consolidato, nel senso che è inevitabilmente qualcosa di già sentito. Ci saranno cose occasionalmente nuove o interessanti, ma solo per via di dettagli molto marginali. Non ci sarà più nulla di completamente sperimentale e sconvolgente. E ormai non sono più così romantico riguardo a questo discorso: un tempo ero molto triste per la perdita dello spirito originale della scena, per il fatto che tutto fosse diventato sempre più un grande business. Ma insomma, ormai non parliamo più di qualcosa di nuovo e stimolante, non esiste un nuovo tipo di musica. Quello che succede a qualsiasi tipo di sottocultura è successo anche alla musica elettronica ed è ok, va bene così. Almeno sta dando a molte persone dei bei momenti.
Nell’ultima intervista qui su Rolling parlavi infatti di come LP5, il tuo ultimo album come Apparat, ti avesse dato modo di riflettere sul tuo rapporto di amore e odio con la techno. Quindi in questi anni non credo che sia cambiato molto, da quanto dici.
Sì, lo dico da quasi 20 anni che la techno è diventata noiosa e mi rendo conto che mi sto ripetendo anche io, così come lei (ride). L’unica cosa che è cambiata è che ho smesso di sentirmi come se qualcuno mi avesse rubato la techno. In primo luogo, non è mai stata la mia techno. E poi molte persone che si avvicinano alla musica dance, ancora adesso, la vedono ancora come qualcosa di nuovo. Ma in verità ormai non si tratta di reinventare la ruota e mi dà un po’ fastidio se qualcuno lo rivendica. Quando faccio dj set, ad esempio, suono anche brani molto conosciuti perché mi piacciono, poi posso passare a pezzi molto, molto strani. Un tempo avrei pensato: non suonerò mai questo brano perché è troppo banale. Adesso non è più qualcosa di cui devo preoccuparmi.
Da questo punto di vista c’è qualcosa di nuovo che stai cercando di portare nel tuo mondo? Sia nei Moderat che da solista, come Apparat.
Sto ascoltando musica che mi piace molto e che sono sicuro influenzerà anche le idee di Moderat, specie per rendere il nostro suono un po’ meno polveroso e magari un po’ più pulito e tecnologico. Mi piace possa evolversi così. Per Apparat, probabilmente userò sempre più strumenti registrati dal vivo. Non si tratta solo del suono, conta il rapporto con le persone. Quando sono seduto da solo, davanti a un computer, mi manca davvero.
La tua esperienza nella scrittura di colonne sonore ha avuto un impatto significativo, in questo senso?
Dipende dal tipo di progetto, ce ne sono stati alcuni stimolanti che mi hanno dato nuove idee. Ma in generale si tratta principalmente dell’interazione con le persone con cui lavori, del fatto di vedere, le cose attraverso i loro occhi. Col tempo ho perso un po’ di interesse per le colonne sonore perché mi sono reso conto che la maggior parte delle volte si tratta davvero di un mero servizio. Sei semplicemente un fornitore, e oggi, per esempio per grandi aziende come Amazon, sei anche pagato poco. Quindi, alla fine è come se fosse un’arte pseudo-capitalista.
Che alternative ti sei posto a quel punto?
Fare la mia musica. E a volte, se incontro la persona giusta, un regista giusto o un progetto giusto, sono felice di collaborare. Ma devo vedere qualcosa di interessante per me, non solo il denaro. Deve essere qualcosa di artistico e stimolante.
E ti è capitato?
Sì, per esempio per Capri-Revolution l’idea di Mario Martone è stata di andare tutti insieme in Cilento e trovo sia stato fantastica. Siamo stati lì per un mese lavorando sulla musica, a volte anche insieme agli attori. Abbiamo loro insegnato a suonare degli strumenti semplici e poi abbiamo fatto delle sessioni e le abbiamo registrate. È stato un processo interessante lavorare con non-musicisti. Era più una questione di empatia e di stabilire una connessione autentica con la musica. Il risultato è stato davvero, davvero interessante. Anch’io del resto non sono propriamente un musicista, non ho una gran conoscenza teorica della musica. Possono succedre cose interessanti e originali quando lavori con persone che non guardano le cose da una prospettiva puramente musicale.
Tornando al rapporto tra Sascha e Apparat, quando credi si incontreranno di nuovo?
Beh, sai, anche se all’inizio ho detto che adesso sono chiaramente Sascha, penso che Sascha e Apparat non siano mai stati così vicini. All’inizio, infatti, ero quasi completamente Apparat, perché a un certo punto stavo solo cercando conferme dalle persone, suonando ai concerti, vedere la gente che urlava ai miei show, cose del genere. Mi dava molta sicurezza, cosa che chiaramente all’epoca mi mancava. È gratificazione narcisistica, una forma di autoconferma di cui avevo bisogno. Per questo motivo ero diventato un po’ meno Sascha. Adesso le due parti hanno fatto pace e non cerco più quella conferma, la ricevo altrove. O forse ne ho avuta abbastanza. È una cosa molto positiva, mi offre anche molta libertà artistica, oltre che nuovi stimoli nella vita.
E poi è ormai un rapporto maturo, no?
Sì, credo di sì. Ma ci è voluto molto tempo. Essere stato un adolescente infelice è stato in un certo senso molto importante per me perché mi ha dato la spinta per dimostrare a tutti che potevo fare qualcosa. Non credo di aver mai detto questo in un’intervista, solo a uno psicologo. Magari può essere utile a qualcuno leggerlo. Molte persone probabilmente hanno successo come artisti perché hanno esattamente questa spinta: vogliono dimostrare qualcosa al mondo. E la maggior parte di loro, me incluso, non lo sa. Non è che mi sia mai seduto e abbia pensato: «Diventerò il migliore e più grande musicista del mondo». Non avrei mai immaginato nemmeno di poter salire su un palcoscenico. E in qualche modo questa è stata comunque la forza trainante di tutto, che lo sapessi o meno.