Il nuovo disco di Andrea Appino è una secchiata d’Africa, uno spiraglio di deserto rivisto in chiave Zen Circus.
Nessuno si sarebbe mai aspettato una svolta tanto etnica quanto celebrativa nel nuovo album Il Grande Raccordo Animale. Almeno, non dopo il suo disco d’esordio Il Testamento, che lui stesso ha definito “una mazzata emotiva”.
Ma la cosa ci fa solo piacere. Primo, perché ci piacciono le sorprese e secondo, per un’innata predisposizione verso la musica tropicale. Quella che ti spinge a comprare degli infradito a dicembre. Per intenderci.
Oggi esce il disco, sei teso?
Non dovrei, perché tra Zen Circus e solisti siamo all’undicesimo album. Pero, sì, ieri ero alla Feltrinelli di Torino a presentare il disco e all’ultimo pezzo ho avuto una mezza colica. Soffro di gastrite, quindi sono dovuto scappare e prendere un Gaviscon. È una roba che mi capita solo quando faccio i dischi da solista. Un po’ di ansietta, ma neanche ansia. Una specie di eccitazioneCon gli Zen, no, con loro c’è una barriera. Siamo uniti, suoniamo insieme da 18 anni. Non ce ne frega un cazzo.
Il tuo primo Il Testamento parlava di una famiglia italiana e dei suoi problemi, di cosa parla Il Grande Raccordo Animale?
Il primo parlava molto della mia famiglia, dei lati oscuri delle dinamiche familiari. Era una bella mazzata emotiva. Il Grande Raccordo Animale, invece parla di un viaggio, perché l’anno scorso ho avuto il culo di viaggiare molto. Ti parlo di viaggi di piacere. Negli ultimi 10 anni, suonando sempre in giro, la vacanza voleva dire stare a casa a oziare, non fare un cazzo. E quindi ho scelto di fare qualche viaggetto.
Ho letto che l’album è stato scritto tra le isole del Nordafrica.
Sì, quella è una minchiata. L’ho scritto un po’ in Marocco, un po’ alle Canarie ma il grosso del disco è stato concepito a New York. Ci sono stato due volte, a maggio e a novembre. Mi sono beccato il caldo estremo e il freddo artico. E la seconda volta sono stato prima a Miami, quindi sono passato dal caldo tropicale al freddo invernale.
Hai rischiato di spezzarti come un metallo rovente infilato nella neve!
Dallo shock termico! [ride, NdR]. No però ne è valsa la pena, New York ha sempre un casino band interessanti. Mille influenze, come l’afrobeat. E proprio lì ho deciso di farlo produrre a Paolo [Baldini, NdR], che è l’unico produttore italiano che sta lavorando all’estero. Ora è in Giamaica..
Come mai proprio Baldini?
Non è un disco reggae, avrà sì e no un paio di tracce reggaeggianti. Però è pieno di spunti afro. E poi non volevo fare un disco come il precedente, volevo qualcosa di più luminoso. Ne avevo proprio bisogno io perché l’altro mi ha massacrato emotivamente. In più, Paolo ha una visione molto più internazionale della musica — ha prodotto solo due dischi in italiano — e anche le voci sono trattate quasi in modo RnB.
Alla fine però sei bello prolifico. Pubblichi un disco all’anno, ad anni alterni fra gli Zen e il progetto solista. Il prossimo tocca agli Zen.
Sticazzi! E poi scrivere mi rilassa. Comunque il nuovo degli Zen non dovrebbe proprio essere l’anno prossimo, al massimo a fine anno prossimo.
Quali sono le differenze semantiche fra Zen e Appino solista?
Gli Zen hanno un immaginario proprio. Noi siamo cresciuti con il punk, l’eredità hardcore anni Ottanta. Ti parlo di Fugazi, Rollins Band ma soprattutto dei Ramones. Loro erano l’icona che vogliamo emulare da sempre. Non cambieremo direzione tanto facilmente, anche se dopo questa trilogia vogliamo dare una leggera svolta. Però, ecco, non siamo i Radiohead quindi non uscirà mai un nostro Amnesiac e di botto ci catapulteremo nell’elettronica. Questo no. Semanticamente, nei testi, gli Zen raccontano l’ora, l’adesso. Com’è vivere nel nostro Paese se ne hai tra i 20 e i 70 anni. Difficilmente parliamo del passato.
Invece, ogni tanto mi lascio andare a qualche argomento diverso. Come in Testamento con la famiglia e nel Grande Raccordo Animale con il viaggio. Altrimenti rischierei di chiedere agli Zen Circus di essere ciò che non sono e mai saranno.
Che quindi funge da valvola di sfogo.
Non è soltanto una valvola di sfogo, è proprio una necessità fisica di fare altre cose. E questa cosa paradossalmente crea un equilibrio inossidabile negli Zen. Dopo che ho finito con Testamento avevo una voglia di suonare con gli Zen che neanche ti immagini. È come riabbracciare tuo fratello dopo tanto tempo. In fondo è il mio primo e unico gruppo. La band che metti su da bimbetti ma che, invece di perdersi tra le vicende esistenziali, cresce e diventa la tua stessa vita.
Quindi, immagino che nonostante le schitarrate acustiche sempre presenti nei tuoi album tu preferisca sempre il concerto all’esibizione unplugged in store come oggi alla Feltrinelli.
Ma certo, quello sempre. Anche perché tra i brani di Testamento e di questo nuovo, verrà fuori davvero un bel live ganzissimo, molto dinamico. Poi, ovvio, mi diverto un sacco anche nella versione acustica — suonavo per la strada — però niente è come un concerto vero e proprio. Se una canzone funziona, conviene suonarla tutti: sono sempre cresciuto con questa idea pop. Se non fosse per me, gli Zen Circus sarebbero una band incazzatissima, hardcore tipo Husker Du.
Come mai La Volpe e l’Elefante è la tua preferita del disco?
È speciale. La melodia è molto partenopea e il tutto si mescola con i Talking Heads.
È molto funky, molto Chic, che tra l’altro stanno per uscire con un nuovo album a breve.
Esatto! Musica super ballabile che non avevo mai fatto in vita mia. E pensa che un po’ me ne vergognavo, ma una sera l’ho fatta sentire a Dente. Eravamo a casa sua, un po’ ubriachi, e io me ne sono uscito con: “dai che ti faccio sentire i provini dell’album!” Quando siamo capitati su La Volpe e l’Elefante, lui mi ha guardato e mi ha detto: “Cazzo, questo è un singolo!” E così, dato che anche altri amici me l’hanno consigliato, l’ho scelta. E ti dirò che vorrei anche farla remixare! Ogni tanto, ci vuole anche un po’ di leggerezza.
Che dire, in bocca al lupo per l’album!
Crepi! Anche se in realtà non si dovrebbe dire “crepi”.
Come mai?
Perché ti si augura di essere accolto nella bocca della lupa, di essere protetto dalle sue cure. Perciò non ha senso dire “crepi”.
Ho capito, e allora “in culo alla balena”?
Quello è diverso, perché la balena non ha il culo. Le balene non cagano.
Come sarebbe adire che non cagano?
No, hanno tutto un sistema loro. Cerca su Google!