«I festival italiani erano in crisi prima di questo virus. Gli artisti che giravano erano sempre gli stessi, gli stranieri cominciavano a costare troppo, le rassegne non avevano un’identità marcata. Approfittiamo di questa pausa per ripensare i festival. Sarebbe agghiacciante ripartire nel 2021 come se nulla fosse. Cerchiamo una nuova partenza».
Corrado Nuccini è il direttore artistico del festival boutique Ferrara sotto le Stelle. Nata nel 1996, la rassegna è organizzata da un’associazione senza scopo di lucro che fa capo all’ARCI. È finanziato per il 40% dalla vendita dei biglietti e per il 60% da regione e comune. Ci sono passati Bob Dylan, Lou Reed, PJ Harvey, Radiohead. Ci ha suonato anche Nuccini, con i Giardini di Mirò. Il musicista ha curato in passato festival come Ctrl+C o Collateral, e residenze più piccole come Soundtracks, ma quella a Ferrara è la sua prima direzione importante. «Rischia di essere anche l’ultima», dice ridendo. Il festival è stato infatti cancellato e nelle scorse settimane sono stati organizzati eventi online allo scopo di porre le basi per l’edizione dell’anno prossimo.
«Trovo agghiacciante l’idea che i festival del 2020 vengano semplicemente trasportati nel 2021», dice. «Possibile che un anno come quello che stiamo vivendo non produca alcun cambiamento? Da tempo ci si diceva che le cose così non potevano andare avanti». Che cosa non andava? «Anzitutto, i festival non devono essere meno contenitori e più contenuto. Devono cioè avere un’identità più marcata e offrire un’esperienza esclusiva. Il pubblico ci deve andare per essere parte di un’idea, quasi a prescindere di chi ci suona, com’è stato un tempo per il Mi Ami». Investire sull’identità del festival significa anche riuscire a mettere assieme line-up originali. «Il 70% degli artisti presenti nei cartelloni dei festival italiani sono gli stessi. Non ha senso. E poi molte band internazionali in Italia non venivano più. Non perché il nostro Paese non ha appeal, ma perché la bolla dei cachet è andata gonfiandosi e non ce li si poteva più permettere».
Prima ancora di mettere assieme una line-up, dice Nuccini, bisognerebbe chiedersi: a che cosa servono i festival? «È la mia ossessione. Un festival serve a soddisfare i desideri del direttore artistico di avere artisti di richiamo? Serve alla politica? In Italia chiamiamo festival qualsiasi cosa. Ma per essere tale un festival deve essere al servizio della collettività. Da quando sono direttore artistico tante persone si offrono di darmi una mano gratuitamente perché il festival è stato importante nelle loro vite. Dobbiamo andare alla radice del motivo per cui facciamo questo mestiere, ricordarci che la musica è una vocazione».
Nuccini ci sta riflettendo con altri direttori artistici di festival di provincia coi quale ha creato una sorta di coordinamento spontaneo che serve anche per definire un protocollo per le riaperture e capire come tenere vivi i brand dei festival in questo periodo. Ne fanno parte Arti Vive di Soliera, Acieloaperto di Cesena e Sexto ‘Nplugged di Sesto al Reghena. «Se vogliamo che la musica conti a livello politico, dobbiamo imparare a fare quadrato. Nelle scorse settimane c’è stata una corsa a firmare appelli, ma è una solidarietà posticcia. L’ambiente musicale è storicamente competitivo, individualista, diviso».
La formula dei concerti in streaming che è stata sperimentata durante il lockdown può essere usata in futuro anche dai festival. «Non per sostituire l’esperienza dei concerti, ovvio, ma per dare la possibilità a tutti di sbirciare che cosa succede». Un’altra sfida è rappresentata dalla sostenibilità ambientale. «Significa favorire la mobilità dolce, per far sì che la gente non venga ai concerti necessariamente in auto, usare prodotti non impattanti, limitare la produzione di flyer cartacei che non servono più a niente. E se i centri storici non possono reggere l’impatto del festival, si faccia una scelta radicale e si trovino spazi alternativi».