C’è qualche bassista che sta leggendo? Quando si parla dello strumento in Italia viene in mente un nome su tutti, Ares Tavolazzi. È responsabile di uno dei modi di suonare più belli e riconoscibili siano mai apparsi ed è stato tra i protagonisti di una delle più preziose avventure musicali italiane, quella degli Area. Il suo strumento è presente nelle canzoni di moltissimi celebri cantautori, ha spaziato tra i generi ed è protagonista della sigla di Atlas Ufo Robot.
Parlando con Tavolazzi il rischio era di scrivere un mezzo libro, vista la mole di esperienze che hanno caratterizzato oltre 50 anni di carriera. Mi sono limitato a farmi raccontare del suo coinvolgimento alla stagione d’oro del prog italiano, con la sua band, e le collaborazioni. Ma attenzione a dirgli che ha suonato progressive, potrebbe levarvi il saluto.
Partiamo dal principio: il basso. I tuoi studi musicali iniziano grazie all’amore per questo strumento?
Per nulla, io ho studiato violoncello al conservatorio, ci sono entrato a 10 anni. Quando avevo 7-8 anni mio padre mi aveva insegnato a suonare un po’ di chitarra. Si è accorto che ero portato per la musica e dopo le elementari mi ha iscritto al conservatorio. Io avrei voluto studiare pianoforte però le classi erano piene. Mi hanno proposto l’oboe, ma non mi interessava, alla fine ho optato per il violoncello che ho studiato per tre anni. Al terzo anno il mio insegnante mi ha detto: «Tu hai le mani grandi, perché non passi al contrabbasso?».
Ho visto delle foto live degli Area nelle quali suoni il trombone.
Beh, quella è una reminiscenza del militare, quando ero nella banda. Poi con gli Area ogni tanto facevamo delle cose un po’ free e io mi piazzavo al trombone, per quei momenti andava benissimo ma non è che lo suono, diciamo che lo suonicchio.
C’era anche Fariselli al sax.
Lui già suonava il clarone e si dilettava al sax sicuramente meglio di quanto io suonassi il trombone che è veramente una brutta bestia, o ti metti a studiarlo seriamente o è un casino.
Come sei passato dal conservatorio al rock?
A 15 anni già suonavo nelle orchestre da ballo per guadagnare due lire che poi portavo a casa, per la famiglia. Suonavo il contrabbasso, ma a un certo punto il capo orchestra convinse mio padre a comprarmi un basso elettrico. Così papà si mise a fare cambiali e mi prese questo Elli Sound by Crucianelli, uno strumento che facevano nelle Marche, e un amplificatore della Davoli. In seguito ho conosciuto Ellade Bandini con il quale ho formato il mio primo complessino, gli Shake, che poi sono diventati Avengers per accompagnare Carmen Villani.
Amavi già il jazz all’epoca?
No, io il jazz l’ho conosciuto molto tardi, nel ’74, quando sono entrato negli Area. Con loro ho scoperto un sacco di cose, ho anche ripreso a suonare il contrabbasso che avevo abbandonato. Da lì è sorta questa passione per il jazz, soprattuto quando ho scoperto Bill Evans, da lì mi si è aperto un mondo.
E l’incontro con Vince Tempera?
L’ho conosciuto quando ero con gli Avengers, sostituimmo il pianista e lui venne a suonare con noi. Fu lui che poi, visto che era già ben inserito nell’ambiente, cominciò a portarci a Milano per fare diversi turni in sala di incisione. Io, lui e Ellade facevamo le basi per i cantanti, con Tempera che scriveva anche gli arrangiamenti.
È in in quel contesto che avete dato vita ai Pleasure Machine?
Esatto, però questo è un nome che porta un po’ di casino. Devi sapere che la Durium ci aveva fatto un contratto e noi facemmo un 45 giri che però uscì a nome Vince Tempera e la Macchina del Piacere. In seguito incidemmo un album con la Ricordi, ma non a nome Pleasure Machine, bensì come Fourth Sensation. Nel frattempo la Durium aveva pubblicato un album di Vince intitolato The Pleasure Machine, sempre con me ed Ellade. Da lì si fece avanti la EMI che ci mise sotto contratto per altri due 45 giri tra cui una versione di The Long and Winding Road dei Beatles cantata da me che passarono del tutto inosservati. Nel frattempo però la nostra fama di session man cresceva e cominciammo a essere richiesti da molti.
Uno dei primi fu Francesco Guccini, se non sbaglio.
Certo, Tempera aveva questo aggancio con Francesco così andammo a Bologna a fare le prove. Gli piacemmo e da lì siamo finiti a incidere quasi tutti i suoi dischi.
Amo Radici, il tuo basso in quel disco è stratosferico.
Quello è stato uno dei primi dischi che abbiamo fatto con Francesco, partivamo da Milano in treno con tutti gli strumenti e provavamo in un locale. Il ricordo più bello che ho è il fatto che si stava proprio bene insieme, anche al di là della musica. Con Francesco si mangiava, si beveva, si parlava, passavamo bellissimi momenti.
Come lavoravate in studio?
Lui buttava giù con la chitarra lo scheletro del brano con gli accordi e il testo, poi noi vestivamo la canzone con i nostri arrangiamenti. Ogni canzone la provavamo in diverse versioni sperimentando sui suoni e sui ritmi, con le idee di tutti. Un lavoro che andava avanti finché sentivamo di avere in mano la versione definitiva. Francesco ci lasciava fare, aveva completa fiducia in noi. Alla fine poi si andava in sala di incisione e si registrava.
È vero che siete diventati amici di Claudio Baglioni con il quale vi divertivate a fare scherzi a Guccini?
(Ride) Ah, questo è un aneddoto che gira sempre. Successe che eravamo stati invitati in un festival in un paesino pugliese, e chiaramente dormivamo tutti assieme. Baglioni era uno sbarbino, portava gli occhiali con due lenti spesse così. Ma non successe nulla in particolare, ci facevamo scherzi reciprocamente, cose da ragazzi che si ingigantiscono col tempo. Devi chiedere a Ellade lui, si ricorda tutto, nei minimi dettagli.
Nei primi ’70 avete partecipato anche a un disco leggendario come Terra in bocca dei Giganti.
Ricordo. Vince era molto amico di Enrico Maria Papes dei Giganti che in quel periodo stavano ideando Terra in bocca. Non volevano però suonare, si sarebbero dedicati solo al canto e avrebbero chiamato diversi musicisti che a loro piacevano. Così abbiamo fatto il disco e per un anno anche delle serate, accompagnandoli insieme al chitarrista Gigi Rizzi. Purtroppo il tour non funzionò molto, quel disco prese a muoversi successivamente ma nel momento dell’uscita non andò bene e di conseguenza anche il tour.
In quel periodo stava nascendo il cosiddetto progressive, ti stimolava?
No, io il progressive non l’ho mai amato e non lo amo tuttora. Trovo che sia troppo ridondante, poco interessante. Poi ci sono anche delle cose pregevoli, ma in generale non cattura la mia attenzione. I King Crimson mi piacevano, i Soft Machine anche, ma già quella era una cosa diversa. Io ho altri fini nella vita, non mi è mai interessato fare vedere quanto sapevo suonare bene, non mi è ma interessato il look, essere una star, essere famoso, fare i conti su quanto venderò, quanto guadagnerò con la SIAE o cose del genere. Voglio solo fare il musicista.
Forse il desiderio di certi riscontri è ciò che ha determinato la scelta di Patrick Djivas nel momento in cui ha mollato gli Area per la PFM.
Sicuramente, lui ha visto in quella situazione qualcosa che desiderava e quindi l’ha seguita. Ma eravamo giovani, lo capisco, forse lo avrei fatto anche io perché non avevo formato del tutto il mio pensiero di musicista. Ma credo che mi sarei annoiato molto (ride).
A proposito di Area, come è avvenuto il tuo coinvolgimento?
Conoscevo Demetrio dal 1968, quando suonavo con Carmen Villani. Lo avevo incontrato in un locale e lui era da poco arrivato in Italia. Veniva dall’Inghilterra e suonava con due musicisti inglesi. Io e Ellade ci trovavamo in quel locale perché la Villani era l’attrazione, come si diceva allora, e Demetrio e i suoi ci facevano da spalla. In quell’occasione rimasi molto impressionato dalle sue doti canore. Lo rividi un giorno in uno studio di registrazione quando venne a fare una parte di organo Hammond per non ricordo quale cantante e poi nel ’74 quando mi chiamò. Pensa che poco prima avevo sentito un pezzo degli Area in radio e avevo pensato «Cazzo che bella musica!».
I casi della vita.
Esatto, solo pochi giorni dopo Demetrio mi contatta e mi chiede se avessi avuto voglia di fare un provino perché il loro bassista era andato via. Non ci potevo credere. Così andai a Parma, dove provavano. Feci il provino, andò bene e da lì mollai praticamente tutto quello che facevo. Una decisione non facile anche dal punto di vista economico, visto che non si prendeva una lira. Io avevo già un figlio, non è stata una passeggiata.
Ha vinto l’amore per la musica.
Per la musica e per la libertà con la quale si faceva. La loro ricerca mi appassionava, ne venivo dalla leggera dove tutto era fatto a schemi rigidi, con gli Area invece c’era piena volontà di sperimentare. Questo mi ha cambiato la vita, sotto tutti i punti di vista, mi ha aperto i canali della curiosità, dell’interesse. Una vera svolta.
Quale è stato il tuo apporto?
Ho cercato di lavorare al meglio, mi sono messo in gioco e ho affrontato cose mai prese in considerazione prima, sul ritmo ad esempio. Da Giulio Capiozzo che suonava costantemente dispari ho imparato un sacco di cose e il mio desiderio era quello di rendere la ritmica più coesa possibile. Rispetto a prima forse ho apportato un tipo di creatività diversa rispetto a Patrick che era un bassista più dogmatico, io invece avevo questo interesse per stare nelle strutture, ma anche uscirne, spaziare. Detto ciò il primo album è un gran lavoro e Patrick suona benissimo, la differenza è che quel disco è stato provato e riprovato per mesi, io sono arrivato e pronti via, subito a registrare.
Com’era lavorare con Gianni Sassi?
Gianni era un genio, un rivoluzionario. Ha avuto l’intelligenza e il coraggio di prendere il danaro che guadagnava con la pubblicità e usarlo per mettere su un qualcosa che rompeva i coglioni al sistema, non è mai venuto a patti con nessuno e ha portato avanti il suo lavoro con coerenza. Se ne fregava di quello che dicevo prima, le vendite, il look e tutte queste stronzate.
Non era un semplice discografico, componeva con voi i brani.
Noi facevamo le musiche e poi tutti insieme, con lui e il suo entourage, si pensava ai testi. Una cosa rara, tutti uniti verso la stessa meta. Tutto era democratico.
L’attivismo politico degli Area prevedeva molto impegno e poco guadagno, come ci stavi dentro?
Ci accontentavamo di campare, ma se ti dovessi dire che l’ho fatto per il Movimento ti direi una bugia. Chiaramente ero lì e credevo in pieno nel nostro messaggio, ma la cosa importante per me era la musica, il modo che avevamo di concepire la musica. C’è poi da dire che solo in un circuito di quel tipo potevi presentare certe cose e avere un pubblico, in quello della leggera non sarebbe stato possibile.
Come andavano le vendite dei dischi?
Non vendevamo un cazzo, campavamo sui concerti. Abbiamo cominciato a vendere più avanti, quando è morto uno o l’altro e si è creato il mito degli Area costruito dalle etichette che poi hanno rilevato il catalogo Cramps. Tra l’altro spacciando i nostri album come progressive quando progressive non è, ma alla fine facciano quello che vogliono, io so come stanno le cose, conosco quella musica e so cos’è per me: non è progressive.
Vista la tua indole il primo album al quale ai participato, Caution Radiation Area, sembra perfetto: è il più sperimentale del gruppo.
Assolutamente, forse è il nostro lavoro più interessante, c’è una forza in quel disco che non ritrovo in altri. Forse perché era il mio esordio con loro. E cosa c’è di meglio per un musicista di andare in studio e sperimentare, con un’estrema libertà ma anche un certo rigore nei temi, negli obbligati ritmici. In mezzo a tutto questo la consapevolezza di potere spaziare, di uscire ed entrare dall’improvvisazione. È la cosa più bella, è vera libertà. Lo dico sempre quando vado a suonare, io salgo su quel palco, per un’ora e mezza posso essere completamente libero e mi pagano anche (ride). Non c’è lavoro più bello di questo.
Come vedi Crac e il tentativo di aprirsi alla canzone di Gioia e rivoluzione?
Quello è stato, appunto, un tentativo fatto con gioia, non lo abbiamo fatto per vendere, infatti quel disco non è andato meglio di altri. Dal vivo però la gente partecipava molto quando facevamo quel brano, era un bel momento quando cantavano tutti, ma è finita lì. Infatti anche nel proseguo della discografia non trovi più canzoni, qualcosa potrebbe avvicinarsi in 1978: Gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano, ma quelle non sono canzoni in realtà, all’interno di quei brani rompevamo comunque gli schemi.
Che tempo è la sezione funky di La mela di Odessa? Un sacco di musicisti ci si sono rotti la testa dietro.
Ahah, semplice, è un 10/4, oppure se lo conti a tempo raddoppiato un 20/8.
Un altro mistero del periodo, hai suonato o no su Anima latina di Battisti?
Ci ho suonato e poi mi sono licenziato lo stesso pomeriggio (ride).
Cosa è successo?
Mi sentivo un po’ sfruttato, un po’ jukebox. Credo che in certi casi bisogna essere chiari, se vuoi dei musicisti che vengano in studio e poi tu pretendi di usarli come fossero computer allora io non ci sto. Non c’era libertà di manovra, non c’era spazio, ti faceva fare una cosa diecimila volte e non andava mai bene. Poi per carità, Battisti ha scritto canzoni meravigliose, ma io in quel momento non ero in quel mood. Credo abbiano tenuto solo un pezzo suonato da me e per il resto abbiano chiamato un altro (Bob Callero, nda). In ogni caso niente di che, secondo me i suoi pezzi più belli Battisti li ha scritti prima di quel disco.
Nel ’76 arriva Maledetti e tu e Capiozzo vi date alla macchia. Cosa successe?
Era un momento molto difficile a livello finanziario per il gruppo. Io a quel punto avevo due figli, Giulio ne aveva uno, vedi bene quindi che siamo stati costretti a pensare a delle alternative. Così entrammo nell’orchestra di Andrea Mingardi, con un repertorio vario e intelligente. Mingardi volle Capiozzo e lui mi tirò dentro, e siccome avevano già il bassista mi adoperai al trombone. La cosa durò qualche mese e poi rientrammo negli Area. Il risultato fu Maledetti dove ci siamo noi ma anche una diversa sezione ritmica (Walter Calloni e Hugh Bullen, nda). È stato un periodo un po’ confuso, avevamo idee diverse…
L’aria stava cambiando.
Certo, poi nel gruppo Demetrio e Paolo si stavano muovendo verso la musica contemporanea, cose di grande pregio che però a noi come ritmica interessavano meno. Quella musica la rispetto, ma non fa per me, come non fa per me il free jazz, non mi stimola.
Non posso esimermi dal chiederti un ricordo di Demetrio.
Non ho particolari aneddoti, si stava insieme, si suonava, si fumava, si scherzava… Posso solo dire che aveva una capacità vocale che non ho mai sentito in nessuno e una grandissima musicalità. Suonava il piano in maniera unica, una cosa che hanno in pochi, quello che faceva era subito giusto, era ciò che ci voleva. Poi era un grande ascoltatore di musica da tutto il mondo e quando tirava fuori le sue idee mi lasciava a bocca aperta. Quando poi si dedicò sempre più alla sperimentazione vocale fu chiaro che non gli serviva più un gruppo come il nostro, e forse non serviva neanche più a noi.
Spiegati.
A un certo punto tutti si erano spinti a esplorare varie direzioni e non c’è stato più un punto di incontro, sarebbe finita anche senza la morte di Demetrio. Area è durato poco ma è stato intenso. Poi per contratto con la Ascolto di Caterina Caselli dovevamo incidere tre dischi, ne abbiamo fatti due (1978 e Tic & Tac, questo senza Stratos, nda) e forse ne avremmo fatto anche un altro, ma si capiva che non c’era più niente da dire.
Al netto di tutte queste incredibili esperienze per molti sei ricordato come colui che ha contribuito alla composizione di “Si trasforma in un razzo missile…”. Come sei passato dagli Area a Goldrake?
In quel periodo lavoravo alla Fonit Cetra insieme ai miei vecchi compagni Ellade Bandini e Vince Tempera. Mentre eravamo in studio a fare delle basi, arrivò il direttore con un videotape contenente il cartone animato di Ufo Robot e disse «Ci sarebbe da fare la musica per questo cartone giapponese, ve la sentite?». Così ci mettemmo all’opera, io scrissi un pezzo e un altro lo scrisse Vince. Alla fine scelsero il suo, ma lo firmammo tutti e due. Ci misi un basso, un fretless della Alembic, che si rivelò fondamentale nella costruzione di una certa sonorità che colpì la gente.
Chi lo avrebbe mai pensato.
Figurati che ogni tanto mi invitano ai raduni, vorrebbero che andassi vestito da Goldrake, ma ci pensi? (Ride).
Canti anche nel pezzo?
Faccio i cori, il solista è Michel Tadini e dentro c’è anche Fabio Concato. Poi ho fatto anche l’LP con una canzone per ogni personaggio del cartone.
Se c’è un basso indimenticabile è quello di Shooting Star.
È venuto fuori così, nulla di scritto, ho improvvisato in studio fino a che non ho trovato la frase ottimale.
Gli anni ’70 terminano, gli Area si sciolgono e tu ti reinventi. Diventi ricercatissimo.
Ho approfondito il discorso jazzistico, poi ci sono stati Paolo Conte, Fabio Concato e moltissimi altri. Conte ha cominciato a sbancare dopo il live che abbiamo fatto a Parigi, a quel punto voleva fare tour di 3-4 mesi ma io non me la sono sentita, desideravo suonare altro e così ho mollato. Fino a un certo punto ho continuato come turnista e poi sempre di più mi sono dedicato la jazz, a lavori solisti, a colonne sonore, a esplorare.
Come mai la bella esperienza della reunion degli Area con Fariselli e Tofani è naufragata?
Perché non poteva andare avanti a meno di diventare una cover band di noi stessi, cosa che non ci interessava. Ognuno aveva sviluppato i suoi interessi, ognuno era ben radicato nel suo mondo e non c’era più comunicazione. All’inizio pensavamo di lasciare stare i vecchi pezzi e creare del nuovo con lo stesso atteggiamento democratico e creativo che c’era sempre stato, questo non è successo e quindi è finita. È stato divertente fino a che è durata, ma non credo ci sia bisogno di fare a tutti i costi il revival per tutta la vita.