Milano è una città che non ama molto, confessa Ariete. Cresciuta ad Anzio, non ha mai avuto grande esigenza di frequentarla neanche per ragioni discografiche, visto che la sua etichetta Bomba Dischi (la stessa di Calcutta, Franco126, Giorgio Poi e Psicologi, tra gli altri) ha sede a Roma, dove ormai vive anche lei da quando è maggiorenne, ovvero da due annetti scarsi. Ma è una giornata insolitamente primaverile anche nel cuore della Pianura Padana e, avvisaglie di apocalisse climatica a parte, a rischiarare il grigiore meneghino c’è la prospettiva di festeggiare la pubblicazione del suo primo album ufficiale, Specchio, che esce domani. Un disco già carico di aspettative, perché Ariete – all’anagrafe Arianna del Giaccio, classe 2002 – è considerata una delle cantautrici italiane più rivoluzionarie del nuovo millennio. Non perché abbia inventato un nuovo genere musicale, per quanto le sue canzoni rappresentino senz’altro una ventata di originalità e freschezza in un panorama spesso ingessato e stantìo, ma perché è riuscita a stravolgere i canoni del pop femminile.
L’immagine di Ariete è fortissima: è la nuova ragazza della porta accanto, che indossa capi unisex e oversize fregandosene delle apparenze, si trucca se ne ha voglia, si pettina quando ha voglia. Adora ridere, ma non si vergogna di piangere; è stata con alcuni ragazzi, ma da un po’ si innamora soprattutto di ragazze; di sé racconta tutto sia nelle canzoni che nelle interviste, perché non ha niente da nascondere. Minuta e apparentemente fragile, è determinatissima e testarda, tanto che il suo nome d’arte, oltre a essere un riferimento al suo segno zodiacale, sta anche a rappresentare la sua volontà di abbattere lo status quo.
Dopo un passaggio estremamente fugace a X Factor, si è fatta notare da Bomba Dischi grazie a una manciata di brani autoprodotti, come Quel bar, ormai un piccolo classico dell’indie di casa nostra. Seguono gli EP 18 anni, che contiene l’omonima hit generazionale (“Hai diciott’anni / Non sai dove aggrapparti / Non sai con chi parlare / Non sai di cosa farti”), e Spazio. La fama nazionalpopolare, però, arriva nell’estate del 2021 con L’ultima notte, un brano commissionato da Netflix per la colonna sonora della serie Summertime e successivamente utilizzato anche per lo spot di un cono gelato.
Specchio, racconta Ariete, è un progetto di cui è davvero soddisfatta: «Ogni mattina ascolto il disco come se fosse quello di un’altra persona: mi piace tantissimo», sorride felice. «Non mi interessano i dischi d’oro: ho fatto semplicemente quello che volevo, e spero si capisca. Vorrei che tra cinque anni la gente ci si potesse ancora rispecchiare, come dice il titolo stesso. E spero di potermici rispecchiare anche io».
Ricordi qual è stata la primissima canzone che hai scritto?
So che diventerà un meme, ma la prima l’ho scritta a 4 anni ed era dedicata a mio fratello, che era appena nato. Si intitolava Polletto fritto. Da bambina, poi, ho cominciato a scrivere canzoni in inglese perché ovviamente ero in fissa con gli One Direction e volevo diventare una cantante internazionale. Il primo pezzo in italiano di cui ero davvero soddisfatta, Metafora, è arrivato a 15 anni.
Hai sempre saputo di voler condividere la tua musica con altri?
Sì. Fin da bambina, alle cene di famiglia, improvvisavo dei piccoli concerti alla chitarra con i miei cugini. Ovviamente ero consapevole da subito che quando pubblichi una canzone diventa di tutti, così come la tua vita diventa di tutti, e non è semplice. Ma ho sempre saputo che volevo fare questo, non c’era un piano B.
All’inizio però la tua famiglia ti esortava a cercarlo, quel piano B.
I miei si sono fatti da soli, con le loro forze. Soprattutto mio padre e i suoi fratelli, che sono cresciuti in povertà e sono riusciti a emergere solo grazie allo studio. Papà ha due lauree e ora fa il giornalista e lo scrittore, mamma è sociologa, perciò è ovvio che quando tua figlia ti piomba addosso dicendo «Voglio fare la cantante», e magari comincia anche ad andare un po’ male a scuola, qualche dubbio lecito ti viene. Ma mi hanno sempre supportata, anche se all’inizio in maniera un po’ cauta. Sono contenta così: se mi avessero detto che andava bene tutto, se mi avessero aiutata sempre e comunque a inseguire il mio sogno, mi sarei adagiata, sarei cresciuta viziata. Non avrei avuto la voglia di dimostrare che potevo farcela. Quello che volevo me lo sono preso, lottando con le unghie e con i denti.
Poi è arrivato X Factor…
A 16 anni la via più facile per dimostrare qualcosa ai miei genitori era andare a X Factor e farmi dire quattro sì. L’esperienza lì è stata brevissima e non mi è piaciuta. Mi ha fatto capire che non ero fatta per quella roba, che dovevo costruirmi qualcosa da zero, con delle persone di cui mi fidavo. Il progetto Ariete è nato dopo che mi avevano scartato alle audizioni: quando è andato in onda il mio provino avevo già cambiato completamente direzione. Per fortuna, sei mesi dopo quel rifiuto ho conosciuto i ragazzi di Bomba Dischi.
Quando è arrivato il vero successo, andavi ancora a scuola. Come l’hanno presa compagni e professori?
È stato buffo, perché per via del Covid e di tutto il resto a scuola non ci sono quasi più andata. Mi sono fatta in DAD il quarto anno – il mio secondo quarto anno, perché mi avevano bocciata – e poi, quando il progetto musicale si è fatto più serio, mi sono iscritta in un istituto privato e praticamente non ho frequentato. Un istituto privato pagato da me, tra l’altro, perché mio padre si rifiutava di farmi lasciare la scuola pubblica, nonostante io avessi già le idee chiare e un contratto discografico in mano. Alla fine è andata bene: il diploma l’ho preso e si è reso conto anche lui che avevo ragione e che in una scuola pubblica non ci sarei mai riuscita.
Le idee chiare ce le hai anche come cantautrice: anziché inseguire un trend o infilarti in una nicchia, fin da giovanissima hai cercato di costruirti un mondo tutto tuo. Non era più comodo andare a rimorchio degli altri?
Se a 17 anni ti metti a ragionare a tavolino su come sfondare, per me sei fuori di testa. A quell’età devi cazzeggiare con gli amici tuoi, cadere col motorino, collezionare delusioni d’amore, discutere con i genitori. Da ragazzina normalissima quale ero, ho scritto della mia vita. Tanta gente resta impressionata dal fatto che le mie canzoni sono da sempre dedicate a qualche ragazza. Ci credi se ti dico che non ci ho mai riflettuto su, nemmeno un secondo? Quando nel 2019 ho scritto Pillole, mi è venuto spontaneo mettere al femminile il verso “Ed ora sei sparita”, visto che parlavo di una persona vera. Ricordo ancora i primi articoli che uscirono, con titoli tipo “Parlare di una ragazza liberamente: la musica apre al mondo LGBTQ+ con Ariete”. Ma l’idea che qualcuno potesse pensare male di me perché amavo una ragazza era l’ultimo dei problemi, per me: mi preoccupava molto di più il fatto che stavamo registrando il mio primo EP in camera, con le cuffiette del telefono. Mi chiedevo: la qualità della mia roba sarà abbastanza alta?
Che effetto ti fa tutta questa attenzione nei confronti del tuo orientamento sessuale?
Posso essere onesta? Ho notato che solleva la curiosità degli over 40, soprattutto. Sono i giornalisti o gli osservatori più vecchi a stupirsi della mia apertura. I ragazzi della mia età, o anche quelli un po’ più grandi ma sul pezzo, non si stupiscono minimamente del fatto che io sia così scialla nel raccontare la mia vita, perché hanno assorbito la questione senza farsi troppe domande, e senza cercare risposte. Non sono una visionaria o una pioniera. Io non racconto la mia generazione: io sono un’esponente della mia generazione. E per la mia generazione, è normale che una ragazza possa innamorarsi di una ragazza. Così come è normale parlare liberamente di sesso, di fragilità e di tante altre cose. E secondo me è una figata.
Però sei stata un esempio per molte. Ad Area Sanremo, quest’anno, si sono presentate un sacco di cantautrici che nei loro pezzi parlavano d’amore al femminile: quando chiedevamo che musica le aveva influenzate, saltava fuori quasi sempre il tuo nome. Esistevano sicuramente artiste lesbiche anche prima che tu diventassi famosa, ma magari mancava loro il coraggio di mostrarsi apertamente, per paura di essere rifiutate dal mercato.
Beh, non mi è mai capitato che un mio coetaneo non volesse ascoltare la mia musica solo perché sono omosessuale. E se sui social o in qualche articolo avessero stroncato o insultato qualche mia canzone solo perché è dedicata a una ragazza, penso che avrei fatto degli screenshot e avrei agito di conseguenza. La gente non è stupida: anche se è omofoba, oggi non scriverebbe mai cose orrende, perché sa di essere perseguibile. Quindi secondo me è sempre meglio buttarsi: se un pezzo è buono, arriva comunque, che parli di un maschio o di una femmina.
Un’altra delle cose che ci tieni a non nascondere, nelle tue canzoni, sono i momenti di casino totale e di grande down che hai attraversato. Anche in questo caso, ti sei mai chiesta se valesse la pena esporsi così tanto?
Non mi metto quasi mai a cercare le parole più giuste. Ogni tanto Alberto, il mio manager, mi dice «Mah, magari questa frase andrebbe rivista», ma alla fine tengo sempre la prima versione. Voglio trasmettere delle immagini più che dei concetti. In Spifferi, ad esempio, parlo di “30 luglio pieno”: mi riferisco al fatto che il 30 luglio è sempre tutto strapieno (spiagge, bar, ristoranti, autostrade), mentre invece io resto chiusa in casa a pensare a lei e a quello che è stato. So che il mio pubblico mi capirà, perché ho sempre un dialogo aperto con le persone che mi ascoltano. E sono strafelice quando qualcuno mi dice che le mie canzoni gli hanno salvato la vita, gli hanno fatto superare un periodo difficile, o l’hanno aiutato a fare coming out con i genitori. Anche se in effetti è una responsabilità pesante: ogni tanto mi rendo conto che pure io, come loro, ho solo vent’anni, e pure io ho i miei problemi. Come Madame, Blanco, gli Psicologi… Siamo stati catapultati in questo mondo da giovanissimi, ed è normale sentire l’esigenza di fermarsi per prendere fiato, ogni tanto.
Per te è già arrivato quel momento in cui senti il peso dell’attenzione generale e vuoi fermarti un attimo?
Non sento il peso, e non voglio cambiare la mia personalità o il mio approccio. E poi, se ti fermi troppo, perdi il treno. Preferisco fare un respiro profondo, ragionare, essere grata per tutto quello che mi sta succedendo e andare avanti. Cerco di prendere solo il meglio.
Alcune canzoni del tuo nuovo album, come Cicatrici o L, sembrano delle lettere indirizzate a qualcuno. È effettivamente così?
Un po’ tutte le mie canzoni lo sono. Cicatrici l’ho scritta a settembre del 2020: due mesi prima, il 30 di quel “luglio pieno”, mi ero mollata con la mia ex storica, con cui sono stata un anno e mezzo, che alla mia età è parecchio. Ero in uno studio a Napoli, c’era un pianoforte ed è venuta fuori in cinque secondi netti. Anche nel caso di L, non scorderò mai il giorno in cui è nata. Era il 2 febbraio, ed ero sempre a Napoli, a casa di Drast degli Psicologi: mi stava dando una mano a scrivere L’ultima notte che, come ormai tutti sanno, era un pezzo su commissione. Eravamo lì a spremerci il cervello: non sono abituata a lavorare così, di solito faccio tutto in maniera molto spontanea, e stavo diventando pazza. Mi sono chiusa in bagno con la chitarra, e L è uscita di getto. Le compongo quasi tutte così, registrandomi sul momento. Senti qui…
(Recupera il cellulare, apre una cartella di note vocali e ne fa partire una risalente al 2 febbraio 2021. Parte una bozza voce e chitarra di L: molto intima, sussurrata, dolorosa, quasi identica alla versione contenuta nell’album).
Ero un po’ distrutta, come puoi notare. A Natale mi ha riscritto la ex che me l’aveva ispirata, e mi ha chiesto se era per lei. Le ho risposto «Scusami se sono stata un po’ cattiva, forse non te lo meritavi neanche». Poverina, una frase come “Le bugie bianche sono tali quando non sei sporco dentro / Ma tu sei così marcia che non spreco più tempo” era un po’ eccessiva. Ma ero incazzata nera, non riuscivo a essere oggettiva. Per fortuna poi ci si scherza su: praticamente tutte le mie ex sanno quali canzoni sono dedicate a loro. Quella di Mille guerre mi ha anche detto che devo regalarle il disco di platino per quel pezzo, quando mi arriverà, perché vuole appenderlo in casa (ride)! Ma a volte, quando la ferita è ancora aperta, non riesco a distaccarmi così tanto. In quei casi, è una valle di lacrime.
Quali sono le canzoni da valle di lacrime?
Con Spifferi mi sono emozionata tanto, ma i pianti più grossi me li sono fatti con Iride, forse, perché è dedicata alla ex che mi ha fatto più soffrire. E anche l’interludio che dà il titolo all’album, Specchio, è stato doloroso. Quando l’ho scritto abitavo ancora nella mia vecchia casa a piazza Bologna, era il 30 marzo 2021, avevo tutte le tapparelle abbassate ed eravamo in zona rossa. Puoi sentirlo da te, come stavo messa.
(Parte la relativa nota vocale, in cui Ariete canta con voce rotta: “Io penso che / ogni volta che mi guardo allo specchio / non mi sento nient’altro / nient’altro che un’ombra”).
Specchio, oltre che essere una traccia riflessiva, ha in sé anche degli aspetti parecchio dark.
Sì, molto. Ho da sempre questo grande specchio che un tempo stava in camera mia, di fianco al mio letto. Se ti ci guardi per 10 secondi, ti vedi molto più figo rispetto a un selfie. Ma se poi ti ci intrippi un po’, trovi dei difetti che non pensavi nemmeno di avere. È una lotta tra quello che mi piace di me e tutto ciò che non mi piace, insomma. Poi, però, nel pezzo dico anche che “ogni cosa ha il suo senso”, e quindi mi guarderò allo specchio e mi ci perderò dentro. In fin dei conti è un concetto positivo. All’inizio volevo chiamare il disco Panni, come a intendere “nei miei panni”, ma poi Alberto giustamente mi ha detto «Aria’, ma che è ‘sta roba»… Ho cercato di rendere l’insieme più sofisticato, inserendo espressioni un po’ pretenziose tipo tête-à-tête che sicuramente avrebbero fatto incazzare mio nonno che era un uomo di campagna (ride)!
A proposito della tua famiglia, da poco hai raccontato che tuo fratello, nato femmina, ha iniziato la transizione…
Ora che so che è tranquillo, mi sento molto più tranquilla anche io a parlarne. I problemi che lui ha avuto da piccolo mi hanno segnata molto, mi hanno fatto diventare la persona che sono: è stato anoressico, è stato ricoverato in ospedale quattro mesi, aveva momenti in cui si incazzava e distruggeva tutto… Vivere in prima persona la malattia di un bambino di 8 anni, quando ne hai 12, è difficilissimo. Non ha avuto un’infanzia semplice, ma neanche io: immaginati come dev’essere stato fare mio il suo dramma, vedere i nostri genitori che litigavano e cercavano di giostrarsi tra psicologi e neuropsichiatri, partecipare per anni a sedute di terapia familiare.
Dev’essere molto tosta.
Ora sta andando un po’ meglio, ma ho avuto un’adolescenza indubbiamente diversa da quella dei miei coetanei. I miei nonni vivevano lontano, quindi ho avuto le chiavi di casa fin da piccolissima, perché dovevo badare a me stessa dopo la scuola, quando i miei lo accompagnavano a fare esami e cure. E non potevo invitare gli amici da me, perché la situazione era sempre molto tesa e pesante. A 14 anni avevo già il motorino e nessun coprifuoco, sono cresciuta un po’ come una scappata di casa, sempre fuori con gli amici. Mi reputo molto più matura della mia età anche per questo: ho vissuto situazioni che mi hanno costretta a crescere in fretta. Ma sono contenta così, perché mi hanno reso autonoma, e limitare i propri figli non è mai una cosa sana. Per i miei trascorsi, per come mi sono stati vicini, sento che anche i miei amici sono parte della mia famiglia.
Sono ancora gli stessi di sempre?
Molti sì. Ad esempio i miei due migliori amici, che per me sono importantissimi, tanto che ho comprato a entrambi il biglietto del treno per salire a Milano nei prossimi giorni, in modo da poter stare tutti insieme quando il disco uscirà. Ma amo molto anche stare da sola, proprio perché sono sempre stata abituata a cavarmela per conto mio. Insomma, tutto questo per spiegare che della transizione di mio fratello in realtà non c’è molto da dire, ora come ora, perché è finalmente felice e sta bene. È piuttosto il background di ciò che abbiamo vissuto, ad avermi influenzata tanto.
Alla Gen Z spesso si rimprovera di essere troppo concentrata su se stessa, ma si sottovaluta il fatto che dovete affrontare dei problemi che quelle immediatamente precedenti non avevano mai incontrato sulla loro strada…
Ci stanno accollando tutto: il post-Covid, l’economia che crolla, il riscaldamento globale. Noi siamo dispostissimi a lottare per ciò in cui crediamo, ma abbiamo sempre la sensazione che poi tutto si blocchi. Pensa ai referendum per legalizzare la cannabis o l’eutanasia: sono anni che la gente li chiede, e quando finalmente arriviamo al dunque, qualcuno li affossa dall’alto. Ma allora di cosa stiamo parlando? Ma che democrazia è? È evidente che noi e chi è al potere non vogliamo la stessa cosa, che qualcuno ci sta prendendo per il culo. Un milione e mezzo di italiani hanno firmato per questo, e hanno deciso di ignorarli. Ho un amico che è nei casini per via dell’articolo 75, per una bustina di CBD, oltretutto: tra sei mesi ha un processo, che sicuramente vincerà, ma se lo ritrovassero di nuovo a fumare gli toglieranno la patente. La volta successiva, gli toglieranno il passaporto. Ora: se io voglio farmi le canne – e non c’è nulla di male in questo, ci sono posti in cui l’erba si prescrive a scopo terapeutico – perché dovresti togliermi il passaporto? Perché se mi fermi con un grammo di marijuana per uso personale non va bene, ma se mi trovi con cinque casse di birra in macchina non c’è problema? È ovvio che a quel punto i ragazzi vogliano boicottare lo Stato: lo Stato non li ascolta. Guarda anche la situazione delle scuole…
Ovvero?
Scusa, mi sto alterando, ma queste cose mi stanno veramente a cuore perché ne vedo gli effetti su mio fratello, che ha fatto i primi tre anni di liceo quasi sempre in DAD, senza poter andare a svagarsi in discoteca o a un concerto, o a sfogarsi in palestra, o andare a cena con gli amici e la ragazza e rientrare dopo le 10 di sera. Hanno riaperto le scuole perché è la cosa più importante, dicono, ma non ha senso: tra distanziamento, norme anti-Covid e tutto il resto, è un delirio. Devi stare tutto il tempo con la mascherina, il culo incollato sulla sedia, le finestre aperte a dicembre… Una follia. Alle manifestazioni no-vax, dove ci sono solo gli adulti, i poliziotti sono tranquilli e senza casco, mentre a quelle degli studenti, per chiedere un esame di stato che tenga conto degli ultimi anni di DAD, sono in assetto anti-sommossa. Questa roba fa acqua da tutte le parti, sono molto delusa. Credo che dovrebbe esserci un cambio generazionale anche al governo.
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CREDITS
Foto: Federico Floriani
Fashion Editor: Allison Fullin
Art Direction: LeftLoft
Make-up Artist: Amy Kourouma
Hair Stylist: Mattia Bonacina
Location: TheArea Studio
RS Producer: Nicole Casale