Ad aspettarmi nella stanza Zoom c’è un piccolo riquadro pieno zeppo di vinili e strumenti musicali. Sullo sfondo, la parete è quasi interamente ricoperta di dischi, mentre in un angolino si scorgono congas e altri strumenti a percussioni accatastati. Sulla destra invece una serie di tastiere e sintetizzatori sono organizzati l’uno sopra l’altro, con un giradischi alla base a completare la composizione. Al centro di tutto, il viso tondo e simpatico di Emma Jean Thackray, che ha già iniziato a scusarsi per il leggero ritardo con cui si è connessa: «Sto lavorando alla musica per un cortometraggio e sai com’è, quando mi metto a lavorare poi mi scordo di tutto».
Emma è una trombettista, compositrice e produttrice inglese di formazione jazz. È di base a Londra, ma non è uno dei nomi più identificativi dell’affascinante scena londinese. Ciononostante la sua musica incarna alla perfezione quello spirito: un’ibridazione di linguaggi musicali analogici e digitali, vecchi e nuovi, di nicchia e popolari, d’ascolto e da ballo. La sua musica è un po’ come la stanza da cui parla. Nonostante la ricetta sia quella per il disordine, per un caos che appare inevitabile, in realtà alla fine lo sguardo d’insieme che ci viene offerto è armonioso, funziona molto bene. Dopo aver attirato l’attenzione di addetti ai lavori e media nazionali e internazionali con una serie di EP che mescolavano sapientemente jazz e musica elettronica da club, Emma è finalmente arrivata alla pubblicazione del suo primo album ufficiale, Yellow. Un disco pensato, voluto fortemente e curato fin nei minimi dettagli. Al punto che per assicurarsi il controllo creativo al 100%, la musicista inglese ha rifiutato offerte di etichette importanti, preferendo pubblicarlo sulla sua neonata Movementt il cui motto è «move the body, move the mind, move the soul».
Dopo una breve parentesi dedicata alla situazione Covid e concerti («qui tutti fanno finta che vada tutto bene, perché non ci sono restrizioni del governo. Sta a musicisti ed organizzatori dire di non venire ai concerti senza farsi un test etc. Tanta responsabilità personale per qualcosa che non dovrebbe essere responsabilità personale») entriamo nel vivo del suo viaggio, dagli inizi in provincia alla maturazione personale e musicale.
Parlami un po’ di te, di dove sei, il tuo percorso musicale e via dicendo.
Vengo dal nord dell’Inghilterra, dallo Yorkshire. Non è un luogo in cui accade granché, è un po’ remoto anche oggi, soprattutto la parte da cui provengo io. Anche la mia famiglia non è per niente artistica, sono tutte persone molto pratiche, insomma sono cresciuta essendo un po’ una outsider. Già ad 8 anni ho iniziato a suonare la cornetta, passando alla tromba durante la pre-adolescenza. Quando ho iniziato ad interessarmi al jazz, verso i 14 anni, non piaceva a nessuno dei miei amici. Quindi a partire da quel momento, buona parte del mio viaggio è stato molto isolato, solitario. Quando mi sono trasferita a Cardiff per studiare ho iniziato a trovare persone con i miei interessi in quel senso, ma comunque poi la sera ero in camera a produrre beat hip hop e roba elettronica, quindi ecco che tornava di nuovo un percorso in buona parte solitario. Sono sempre stata divisa tra il comporre in senso orchestrale, il suonare jazz, produrre beat; è solo quando sono arrivata a Londra che ho iniziato a mettere insieme tutte queste cose. Nonostante questo gli EP che sono usciti in questi anni erano tutti sbilanciati verso una di queste tendenze piuttosto che un’altra. Con Yellow invece è la prima volta che sento di poter dire di aver incluso me stessa interamente. Compongo, dirigo, suono, produco; c’è perfino un lato jazz orchestrale che fino ad ora non avevo mai mostrato.
Visto che mi dici che sei cresciuta in un posto molto poco devoto all’arte e alla musica, sono curioso di sapere com’è stato l’impatto con una città come Londra. Anche alla luce del fatto che buona parte del tuo percorso, come dicevi, è stato piuttosto solitario.
È stato da una parte rinvigorente, dall’altra sfiancante. Sicuramente vedere tutte queste persone intorno a te che fanno roba che ti piace può ispirarti molto. Dall’altra questo fatto che a Londra ogni singolo giorno sta succedendo qualcosa di fico, a cui senti di dover partecipare, è veramente sfiancante. Crescendo le cose incredibili erano quelle che facevamo io e i miei amici, per quanto fossimo giovani e naïf; ora ci sono così tante cose che succedono tutte insieme… Credo dipenda anche molto dallo stato emotivo di ciascuno. Se ti senti sopraffatto e stanco, Londra ti farà sentire ancor di più così. È una città che amplifica le tue emozioni. C’è questo detto che dice «quando sei stanco di Londra sei stanco della vita», penso che in fondo sia vero. Allo stesso tempo con la pandemia è stata una città completamente diversa. Non che non si fosse indaffarati, ma lo eri a casa, invece di essere costantemente fuori. Per me è stata una cosa positiva, ho recuperato un po’ di energia. Mi sono concentrata un po’ di più sulla mia salute mentale, ho rallentato. Anche se ora che stanno riiniziando i concerti mi aspetto un improvviso boom che ci porterà ad essere di nuovo esausti intorno al periodo di natale.
Ti chiedevo di Londra perché come sai negli ultimi anni si parla moltissimo del nuovo jazz londinese, anche tu vieni spesso vieni inserita in questa scena. Diverse persone che la vivono da dentro me ne hanno parato in termini entusiastici: un ambiente inclusivo, elettrizzante. Ma qualcuno invece al contrario me ne ha sottolineato l’aspetto esclusivo, un meccanismo un po’ difficile da penetrare e quasi alienante. Qual’è la tua relazione con questa scena, ma soprattutto con la sua idea, l’idealizzazione che in qualche modo ne abbiamo fatto fuori dall’Inghilterra?
È un rapporto un po’ strano effettivamente, anche io mi sento un po’ fuori dalla cosa. Sono andata al college con molte delle persone che oggi ne sono punti fermi; c’è sicuramente poi una connessione molto forte con il sud di Londra, viviamo quasi tutti qui. Ma non avendo avuto le stesse esperienze da giovanissima mi sento un po’ fuori da quel giro. C’è questo programma giovanile qui a Londra che si chiama Tomorrow’s Warriors, aiuta ragazze e ragazzi (spesso dal background economicamente difficile) a studiare musica. Non essendo originaria di Londra ad esempio non ho avuto questa esperienza, ho fatto un altro percorso, ma quello è stato un luogo fondamentale per moltissime persone, dove si sono create connessioni, progetti, band.
In ogni caso penso che quando ci sei dentro, non riesci a renderti veramente conto di quanto sia speciale. Per noi è normale suonare tutti quanti insieme, le persone della mia band hanno altri progetti con altri musicisti e magari ogni tanto persone di quei progetti si uniscono anche alla mia band. C’è una cerchia di persone che si conosce e rispetta e suona insieme tutto il tempo, sia se ne abbiamo bisogno professionalmente, sia in modo casual, solo per divertimento. Mi rendo conto che dall’esterno non è proprio una cosa scontata. Un altro esempio indicativo è che Londra ha tantissime musiciste donne nell’ambito jazz che sono fra gli artisti più interessanti ed in vista della scena. Per noi è normale, ma effettivamente basta che io vada in Europa e mi accorgo che nel cartellone del festival in cui suono magari sono l’unica donna.
In più alla fine quest’apertura, tutti questi intrecci, si riflettono esplicitamente nella musica che suonate, nella sua capacità di ibridazione. La tua ad esempio è sempre riuscita a trovare un equilibrio molto naturale tra la componente jazz e quella elettronica. È un qualcosa che hai ricercato “scientificamente” a tavolino oppure è stato un processo naturale?
Ho passato decisamente tanto tempo ad analizzare molta musica diversa, provando a diventare brava in ciascuna cosa. Ma lo facevo e faccio perché così quando arriva il momento di mettermi a fare musica mia posso dimenticarmene, non ci devo pensare. Lo stesso vale per quanto riguarda l’incorporazione di molti stili diversi, per me è immediato, lo faccio inconsciamente. Lascio che le cose sgorgano fuori in modo organico, naturale, personale. Soprattutto lo faccio in modo onesto, cercando di metterci della “verità”, perché alla fine si tratta della mia verità. Amo l’house, amo il soul degli anni ’70, il jazz strano. Non forzo niente in nessuna direzione, lascio solo che succeda il più onestamente possibile. La mia amica Angel Bat Dawid, fantastica clarinettista di Chicago, mi ha detto di come alla fine il genere della tua musica sei tu. Penso sia vero.
Forse mi sbaglio, ma in Yellow mi sembra comunque prevalere di più l’aspetto jazzistico. Trasmette delle vibrazioni quasi anni ’70, non in modo nostalgico, più come tipo di feeling d’ascolto, quasi analogico.
Grazie per averlo notato, era decisamente un obbiettivo. Musicalmente non volevo fare un pastiche. Ad esempio Alice Coltrane e P-funk sono due grandissime influenze, ma non volevo che la mia musica suonasse come la loro, volevo però che ascoltandola si capisse che li amo. Credo sia una sorta di differenza semantica molto importante. L’approccio anni ’70 l’ho avuto soprattutto dal punto di vista tecnico, di produzione. Ho usato microfoni particolari, l’ho mixato io stessa tagliando molto alti e bassi e prediligendo le frequenze medie, una caratteristica della musica di quegli anni. Volevo che suonasse come se stessi ascoltando l’album da un vecchio, grande speaker di legno. Oggi la musica è spesso sbilanciata sulla alte frequenze, per me spesso è veramente insopportabile da ascoltare, quindi volevo che la mia suonasse calda, lussuriosa. Il suono della mia musica deve cullarti, non aggredirti, deve essere umana.
La ricerca di queste sensazioni di comfort, di calore, può essere stata acuita dalla situazione di isolamento scatenata dal virus, con tutto ciò che ha comportato da un punto di vista emotivo?
Non quando stavo scrivendo i brani perché ho completato l’album nel 2019, quindi il fatto che sia una musica che parla di ritrovarsi, di incontro con l’altro, è una coincidenza magica. È un periodo in cui ne abbiamo veramente tanto bisogno. Sicuramente volevo che le persone potessero ascoltarlo in situazioni differenti, alla radio, in un club o nella tua stanzetta, in qualunque modo tu voglia farne esperienza. Anche se fosse con le cuffiette o con un impianto potente. Quindi sì, è ballabile, ha del groove ma c’è questo elemento analogico, ad esempio le batterie sono tutte vere batterie suonate da persone vere, che rende il tutto più umano e lo rende adatto ai più diversi contesti. Poi dal vivo ovviamente i brani si trasformano, quindi diverse tracce diventeranno ancora più ballabili, ogni concerto i brani prenderanno una vita diversa.
Parlando di elemento umano, la tua musica in realtà è anche immersa in una spiritualità molto marcata. Una caratteristica che si addice molto alle tue ispirazioni dichiarate. Si sente però che questa spiritualità non è un elemento accessorio, ma qualcosa che senti molto. Come ci sei arrivata, che significato ha per te?
Quello che ti dicevo prima in relazione a Yellow, su come questo sia il primo album in cui sento di esprimermi in ogni mia sfaccettatura, comprende anche questo elemento qui. Il mio intento non era riprendere lo spiritual jazz e i suoi messaggi a volte generici. Queste sono cose per me importanti, è quello che penso, il modo in cui penso. Sono cresciuta con mio padre che mi insegnava un sacco di messaggi taoisti, filosofia di vario tipo. Quello è l’humus della mia persona, il motivo per cui guardo alla cose con quest’attitudine in qualche modo spirituale. Non sono religiosa ma leggo e studio molto le diverse religioni, sono quasi diventata una hare khrisna quando avevo 13 anni (ride). Sono molto cosciente dell’energia che porto nei posti in cui vado e alle persone che incontro. Capisco che sulla carta possa sembrare appunto una sorta di rifacimento del cosmic jazz, ma in realtà dietro c’è una passione reale per questi argomenti e uno studio di un certo tipo.
Ascoltando alcuni degli arrangiamenti, soprattutto quelli più orchestrali, ho avuto l’impressione che a un certo punto della tua vita tu debba essere stata una fan della musica progressive.
Ci hai preso in pieno. Soprattutto da teenager ero molto presa dal prog più o meno mentre iniziavo anche ad ascoltare jazz. Ero una grande fan dei Dream Theater a 14 anni (ride), da lì poi mi sono mossa verso cose un po’ più sofisticate come la scena di Canterbury, i Soft Machine, la Mahavishnu Orchestra. John McLaughlin è cresciuto vicino a dove sono cresciuta io, Allan Holdsworth anche, sono due eroi dello Yorkshire. Sì, il prog è decisamente una parte importante del mio dna musicale, ma ho sempre pensato che fosse decisamente poco rintracciabile, quindi sono contentissima che tu abbia notato questa cosa.
Penso che Spectre sia uno dei brani più belli dell’album. Ha questo feeling senza tempo, ipnotizzante, e una melodia che ti cattura senza scampo. In qualche modo potrebbe sembrare di averla già sentita.
Grazie! Sinceramente questo è un brano che non ricordo neanche di aver scritto. È uscito fuori mentre ero alla tastiera, è stata una delle cose che ho scritto per prime. La melodia passa da una pentatonica minore in modo dorico (accenna la melodia cantando, nda). Tantissimi brani usano questo tipo di passaggio armonico ma consciamente non avevo un riferimento particolare in mente, il che non vuol dire che poi non sia successo senza che non me ne accorgessi.
Ti lascio tornare al tuo lavoro chiedendoti solo che programmi hai nel prossimo futuro, tra disco appena uscita, questo cortometraggio…
Sì appunto, lavoro intensamente a quest’ultimo, sto collaborando a questo progetto orchestrale per un fantastico gruppo di Bristol, Paraorchestra, composto da un mix di persone abili e disabili. Ognuno suona il suo strumento in modi completamente diversi, è veramente un’esperienza bellissima. Probabilmente dopo che avrò finito queste cose inizierò subito a lavorare sul prossimo album, ho già alcune idee su quello che voglio fare. Ma sopratutto spero che il futuro sia pieno di concerti dal vivo.