Con l’uomo dell’anno dell’industria discografica – a dire il vero degli ultimi anni – c’è un tacito accordo, visto il tempo che abbiamo a disposizione per la nostra intervista. Parlare del quarto album omonimo della sua band, i Bleachers, in uscita l’8 marzo. Già, perché aver vinto per tre anni di fila il Grammy come miglior produttore (solo Kenny “Babyface” Edmonds è riuscito nell’impresa) non può far dimenticare il suo lato rock. Parliamo di Jack Antonoff, classe ’84, di Bergenfield, New Jersey, già fondatore dei Fun e, dal 2014, della band con uno dei nomi più strani di sempre (in italiano tradurremmo Bleachers con “spalti” o “gradinate”).
Ci proviamo. Certo è dura districarsi nell’impresa. Non tutti infatti possono dire di aver plasmato un decennio di musica. L’era Antonoff è cominciata simbolicamente nel 2014 (due anni dopo essersi aggiudicato il premio come artista rivelazione con i Fun di We Are Young) con il singolo Out of the Woods di Taylor Swift, come ha ricordato non senza togliersi qualche sassolino lo stesso Antonoff durante la premiazione dei Grammy Awards del 4 febbraio scorso.
Oltre alla partnership sempre più solida con la popstar delle popstar (dopo Midnights, ha prodotto anche il prossimo album The Tortured Poets Department) Antonoff è il nume tutelare di Lana Del Rey, di cui ha curato quasi tutti i dischi a partire da Norman Fucking Rockwell! ed è stato mentore di Lorde. Ma nel corso di quest’ascesa vertiginosa e prolifica ha già fatto incursione nelle discografie di St. Vincent, Carly Rae Jepsen, Florence + The Machine, Sia, P!nk, Chicks, Diana Ross, Clairo, Paramore, Kevin Abstract e i 1975
Sui social l’Antonoff sound è il classico trending topic fondato sul biasimo degli ingegneri del suono da divano. Come produttore gli si contesta genericamente di aver imbastito una sorta di appiattimento sonoro della musica pop contemporanea (ma pensa), forgiato soprattutto sulle classiche sonorità sintetiche degli anni ’80. Pop moderno da cocktail bar o, nel caso dei Bleachers, una versione aggiornata della E Street Band a cui la discografia del gruppo si richiama senza mezzi termini. Se il citazionismo come pulsione estetica è il suo marchio di fabbrica, sia come autore di canzoni sia alle manopole della console, è però altrettanto vero che, se si scruta bene il suo lavoro, non si può non vedere che questo quarantenne un po’ nerd del New Jersey che somiglia vagamente a Rick Moranis, ha qualcosa di unico, di speciale, e che nel suo citare stratifica, giustappone e mixa come solo i geni sanno fare.
Se i Bleachers hanno fondato il primo vero esempio di musica post-springsteeniana con una fanbase sempre più considerevole (lo stesso Boss ha offerto il suo imprinting regalando l’ospitata ad effetto in Chinatown e poi, certo, se sei la backing band di un pezzo come Anti-Hero della Swift un po’ di pubblico lo rastrelli) è altrettanto vero che la loro curiosità non si ferma a trovate didascaliche da enciclopedia del rock.
Dopo l’intenso debutto Strange Desire, un ottimo secondo disco come Gone Now e l’acclamato Take the Sadness Out of Saturday Night, questo quarto disco, intitolato semplicemente Bleachers, è un punto di svolta sia come maturità nella scrittura sia nelle tematiche espresse. E forse, come spesso capita, c’è di mezzo l’amore.
L’enfant prodige della classe media di origine ebraica che, come ha ricordato lo stesso Antonoff, nonostante la facciata liberal vive sempre come se l’Olocausto potesse ripetersi, si è infatti da poco accasato con Margaret Qualley, attrice e modella (e figlia di Andie MacDowell, l’abbiamo vista in C’era una volta… a Hollywood e in Povere creature!) e pare abbia trovato un po’ di serenità. Dopo una ventennale elaborazione del lutto per la scomparsa della sorella minore Sarah a causa di un tumore al cervello, che ha condizionato in modo pervasivo la sua scrittura dagli esordi, Antonoff ha voltato pagina. Merito della moglie-musa (che si chiama per intero Sarah Margaret Qualley), a cui Lana Del Rey ha dedicato la canzone Margaret, che l’ha sospinto in nuove direzioni artistiche. Forse ci voleva una ragazza del Montana per aiutare un ragazzo del New Jersey ad avere uno sguardo diverso sulle faccende umane.
Hai vinto il Grammy come produttore per la terza di volta di fila. Che effetto fa essere il numero uno dell’industria musicale?
Beh, sono felice. Ma a dire il vero lo sono sempre stato. Mi sono sempre sentito a mio agio in questo mondo. Scrivere, cantare, produrre. Anche negli anni in cui nessuno mi filava.
Sei alieno alle lusinghe?
Mi fa piacere che la gente si accorga di me, ma mi ero così abituato a essere ignorato (ride.) Dai, comunque, mi sembra di star bene anche in questa nuova veste.
Ti riferisci anche ai tuoi esordi come cantante, prima dei Bleachers?
Diciamo che, ripensando a quando andavo in tour e nessuno veniva a vederci, il successo fa una certa impressione. Amavo il mio stile di vita. Scrivere canzoni, fare concerti e tornare alla propria esistenza senza particolari reazioni da parte del pubblico.
E ora che le reazioni ci sono?
È bellissimo lo stesso.
Che tipo di suono immaginavi per il quarto disco dei Bleachers? Che genere di tematiche volevi toccare?
Ti posso dire che non ho mai passato così tanto tempo a lavorare sulla musica. Ho cominciato a scrivere quando ero teenager, come reazione alla malattia di mia sorella minore. Il chiodo fisso di tutta la mia produzione è stato legato all’ossessione di quello che era successo in passato e di quello che avrebbe potuto accadere nel futuro. Sai che non me sono mai accorto fino a quando ho iniziato a concepire questo disco? Questa è la prima volta che ho fatto un album nel presente. Nel qui e ora.
C’è stato un motivo che ti ha spinto a cambiare?
Non lo so di preciso, ma mi ricordo che quando ho cominciato a scrivere mi sono sentito come se conversassi con qualcuno, senza che avesse un’identità precisa. Suppongo che si tratti del mio pubblico. Sta di fatto che sono uscito dal gorgo del passato e del futuro.
Ti sei liberato.
Sì, e questa sensazione ha cominciato a influenzare il sound che volevo la band esprimesse. Se ci pensi è sorprendente. Mentre quando scrivi non puoi scegliere cosa provi, non puoi indirizzare la storia o forzare la mano, come manipolatore del suono puoi usare l’emotività che provi per creare una musica a tua immagine e somiglianza.
Una cosa che non può accadere in modo così diretto quando sei chiamato a produrre musica altrui.
Certo. Quando ti chiamano per lavorare come autore, e c’è sempre una parte di te che si stupisce di esser chiamato e si domanda fino a quando durerà, hai dei limiti, ma se fai la tua musica un pezzo della tua vita può plasmare il sound di un album.
Cos’è la cosa che più distingue Bleachers dai tre album precedenti?
Che ora stiamo andando alla grande, dritti come un treno. Niente più deviazioni a sinistra o a destra. Abbiamo accumulato tante esperienze in questi anni e ora ne raccogliamo i frutti. Guardiamo solo avanti, andiamo sempre più veloci. Durante l’ultimo tour la band si è rodata a tal punto che ci sembrava di muoverci alla velocità della luce. Siamo un gruppo che ormai si conosce d’istinto.
Zem Audu, Mikey Freedom Hart, Mike Riddleberger, Evan Smith, Sean Hutchinson. La tua E Street Band.
Assolutamente. Sono i miei ragazzi e stanno con me al 100%.
I Bleachers non sono solo Jack Antonoff.
Sai, la cosa divertente è che tutta questa attenzione nei confronti del mio lavoro come autore o produttore è che i Bleachers sono diventati una specie di culto. Quel tipo di band con un suono da grande band che però rimane una specie di segreto per tutti. Lo etichettano come il progetto solista di Jack, dicono di conoscere questa o quella canzone ma non sanno come suoniamo dal vivo, che abbiamo dei fan fantastici, che siamo gli stessi musicisti di sempre.
Tornando al disco, in uno dei singoli, Modern Girl, scherzi definendoti “New Jersey’s finest New Yorker”. Come lo tradurresti ai lettori italiani?
(Ride) New York e il New Jersey sono schiacciati l’uno contro l’altro. Noi del New Jersey facciamo musica super audace, sfidante, quella di chi desidera una via di fuga. Lo senti nei pezzi di Springsteen, in Southside Johnny and the Asbury Jukes. New York è la grande città che ci si para davanti. È come il nostro fratello più giovane e vigoroso da cui vorremmo trarre forza. Ma siamo in realtà uno l’antitesi dell’altro. Come l’olio e l’acqua. Ogni newyorkese sotto sotto odia noi del New Jersey, mentre noi siamo fierissimi ma attratti magneticamente dalla Grande Mela. Quindi “New Jersey’s finest New Yorker” è la cosa più ridicola che puoi dire perché siamo diametralmente opposti. Penso potrebbe essere per voi un po’ come Milano e Roma.
Un verso di Me Before You recita “My bed was a place for the lonely”. È un’immagine lirica, alla maniera di Roy Orbison. Quanto è personale? È quanto ci si deve vampirizzare per essere autentici?
È una questione complicata. Sai, a volte penso di dare tutto a chi mi segue e di dare ben poco nella mia vita privata. Non è certo una cosa sana. Vorresti trovare un equilibrio differente. Per molto tempo mi sono sentito di raccontare faccende private su un palco, ma di non poterne parlare con un amico.
Il giorno dopo l’elezione di Donald Trump hai scritto Let’s Get Married, una canzone d’amore spiazzante che hai inserito in Gone Now. Ora che a nozze ci sei convolato davvero e pare proprio che Trump possa esser rieletto, che pezzo scriveresti di getto?
Quando Trump è stato eletto sembrava così tutto andato a puttane che mi sono detto: ma sì, fanculo, sposiamoci! Ma dal punto di visto personale quella canzone era frutto della disillusione che a quei tempi avevo nei confronti del matrimonio. Penso che se fosse rieletto farei qualcosa di completamente diverso. Magari dalla prospettiva di che vede che tutto ormai è fuori controllo, che tanto vale fare qualcosa di pazzo. Ecco, scriverei Let’s Do Heroin. Facciamoci una pera.
Parlando del tuo matrimonio con Margaret Qualley, mi ha colpito molto il video notturno di Tiny Moves, su un molo del New Jersey che offre una panoramica dello skyline di New York, la romantica coreografia di tua moglie – che è davvero una ballerina – e il gioco di seduzioni fra voi due che termina all’alba, in un modo quasi disarmante, fuori copione, con il tuo viso sprofondato e nascosto nel grembo di lei. Era stato pensato proprio così?
No, sei la prima persona che me lo chiede e speravo che qualcuno lo facesse. La sceneggiatura prevedeva solo la danza notturna di Margaret, al termine della quale io mi sarei dovuto svegliare di colpo per andare a ballare con lei. Ma poi sul set le cose sono andate per le lunghe e la notte ha cominciato a diradarsi e il tempo a disposizione stava finendo. Tutti erano in panico perché dicevano che l’arrivo della luce del sole avrebbe rovinato il video in maniera definitiva. Ma nei fatti è finita nel modo più poetico possibile con tutti quei cambiamenti di luce che si vedono e si riflettono sullo skyline.
Come avete fatto a cambiare al volo il piano di lavorazione?
Ci siamo detti: fanculo, vediamo di cavarcela in qualche modo. Mi sono seduto in fretta sul cofano della macchina per l’ultimo ciak e Margaret e io ci guardavamo sorridendo, pensando che avevamo ormai rovinato il video. Il risultato è che la parte più bella, al netto della coreografia di mia moglie, è proprio quella dell’imprevisto finale.
In Jesus Is Dead guardi assieme a lei Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson mentre sei malato di Covid. L’amore è un avvelenamento terapeutico, come accade nel film?
Adoro quel film, e mi fa pensare al fatto che essendo un workaholic mi rilasso solo quando sono malato. Detta così suona in modo terribile. L’avvelenamento è una metafora ma di sicuro l’amore ti avvinghia, soprattutto quando te lo puoi godere su un divano assieme alla tua dolce metà mentre vedi uno dei tuoi film preferiti.
Nel pezzo fai una lista delle cose più importanti della vita, fra cui The Ally Coalition, l’associazione in favore dei diritti LGBTQ+ che hai fondato nel 2013. Se a quest’elenco potessi aggiungere la musica che più ti ha influenzato chi nomineresti?
The Heart Of The Saturday Night e Foreign Affairs di Tom Waits, The Sunset Tree dei Mountain Goats, Aquemini degli Outkast, il primo disco di Joanna Newsom (The Milk-Eyed Mender, nda). Fanno parte del mio dna musicale.
Quali artisti o band emergenti ti piacciono?
Troye Sivan (di cui ha prodotto una delle prime canzoni, nda) e Caroline Polachek, ma la cosa più bella che sto notando è questo ritorno delle band. Mi sembra sia tornata l’esigenza di formare un gruppo.
In marzo sarete in tour nel Regno Unito, già tutto sold out, c’è qualche possibilità di vedervi nell’Europa continentale?
Abbiamo in mente di andare in Francia e Germania subito dopo la Gran Bretagna. Ma il vero posto dove vorrei venire a suonare, non me ne vogliano gli altri, è l’Italia. È il Paese che amo più al mondo. Vorrei fare un tour città per città. Ci vado spesso e ho scritto un sacco di canzoni da voi. Mi ricorda di quando ero ragazzino. Il New Jersey è pieno di italiani e tutti parlano dell’Italia riferendosi a questo luogo magico. Ho mangiato moltissimi piatti italiani in vita mia. Arte, famiglia, cibo. Che cosa si può volere di più su questa terra?