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Bad Religion: «Siamo Neil Young sotto l’effetto di speed»

La band californiana festeggia quarant’anni di punk rock controcorrente. «Il successo ti trasforma. Devi fregartene e goderti la parte divertente della faccenda», ci ha detto il bassista Jay Bentley

Foto: Epitaph Records

Se la grandezza di una band si misurasse con la quantità di imitatori che genera, i Bad Religion sarebbero nell’olimpo dei più grandi, e non solo del punk, soprattutto grazie ad album epocali come Suffer del 1988 e No Control dell’anno successivo, capisaldi dell’hardcore melodico, libri di testo per centinaia di band in tutto il mondo. La loro carriera inizia a Los Angeles nel 1980 all’ombra di quella di pesi massimi come Black Flag, Circle Jerks, Adolescents, Descendents, Social Distortion, concittadini che hanno avuto più riconoscimenti e fama, almeno agli esordi. How Could Hell Be Any Worse? del 1982, primo album a nome Bad Religion, resta comunque un piccolo gioiello di hardcore arricchito dai testi decisamente sopra la media scritti dal cantante Greg Graffin, uno dei migliori frontman della scena punk di tutti i tempi.

Tra poco il quintetto partirà per un lungo tour a celebrazione di quarant’anni di carriera che passerà anche in Italia la prossima estate per tre date a Brescia, Majano (UD) e Bellaria, quest’ultima come headliner del Bay Fest, kermesse di tre giorni interamente dedicata all’hardcore. Ci siamo fatti raccontare passato, presente e futuro dal bassista Jay Bentley, uno dei membri fondatori del gruppo.

Ricordi la prima prova dei Bad Religion come band?
Molto bene, fu nella sala di casa di Brett Gurewitz (chitarrista del gruppo, nda). Lui, Greg Graffin e Jay Ziskrout suonavano assieme da qualche mese e mi avevano registrato una cassetta con i quattro pezzi originali in modo che imparassi le parti di basso. Passai la prima ora a capire come riuscire a tirare fuori un suono decente dall’amplificatore e poi suonammo quei brani tutto il resto del pomeriggio, fino alla nausea. Fu una sensazione fantastica, eravamo ragazzini infoiati col punk e non vedevamo l’ora di suonare dal vivo. Non abbiamo mai suonato cover, non eravamo capaci a imparare niente che non fossero i nostri pezzi. Meglio così, nel caso avessimo sbagliato a suonarli non se ne sarebbe accorto nessuno…

Il vostro successo è rimasto più o meno immutato, nonostante gli anni passati, le nuove mode e una competizione altissima. È difficile restare sempre sulla cresta dell’onda?
Direi di no, almeno per noi, soprattutto perché non facciamo nulla che non sia seguire una strada tracciata molto tempo fa. Quando eravamo ragazzini non avvertivamo nessun tipo di competizione, anzi, ci si aiutava tra band, ci si scambiava consigli su dove suonare e  registrare. Eravamo in pochi e ci conoscevamo tutti quanti. Le cose sono un po’ cambiate in seguito, ma non sarebbe stato possibile altrimenti.

Quando hai capito che i Bad Religion stavano diventando un vero lavoro?
Lo intendo in senso positivo ovviamente e ti dirò dunque intorno all’inizio degli anni ’90, dopo l’uscita di Against the Grain. Lavoravo come responsabile del magazzino alla Epitaph, l’etichetta di proprietà di Brett, e fu proprio lui a dirmi che mi sarei dovuto licenziare per far fronte ai lunghi tour che ci aspettavano e agli impegni sempre più pressanti con la band. Non ero molto convinto di mollare un buon lavoro per fare il musicista a tempo pieno, ma Brett aveva ragione. Da quel momento sono diventato un bassista molto indaffarato (ride, nda).

È molto facile, leggendo recensioni che vi riguardano, trovare riferimenti a uno stile Bad Religion. Cos’è per te questo stile?
Per me i Bad Religion sono una sorta di Neil Young on speed, musicalmente parlando, caratterizzati da una forte velocità di esecuzione e dalla voce di Greg. Nessuno canta come lui, ha un’abilità pazzesca nel riuscire a sparare mille parole al secondo, senza che si perdano nel marasma generale. A quello aggiungi i cori miei e di Brett, quelli che chiamiamo “ohzin ahhs” sui dischi, una caratteristica dei nostri brani che si avverte fin da subito.

Io aggiungerei anche i vostri testi, mediamente eccellenti e originali.
La musica deve essere interessante. Se scrivessimo brutte canzoni dal punto di vista melodico, i testi di Greg interesserebbero a pochi appassionati.

In agosto uscirà la vostra biografia Do What You Want. È stato difficile scrivere un libro, invece che un album di canzoni?
Mi sono divertito da matti, ma va detto che abbiamo contribuito solo come intervistati. È una lunga ‘storia orale’ della band con centinaia di aneddoti e una perfetta ricostruzione della nostra carriera. L’ho letto due o tre volte per essere sicuro che ci fosse tutto l’indispensabile e sono molto soddisfatto del lavoro fatto da Jim Ruland. Mi spiace solamente che Greg Hetson si sia rifiutato di farsi intervistare, l’ho anche chiamato per cercare di convincerlo, ma non c’è stato verso. È l’unico membro del gruppo assente. Peccato perché è stato uno dei principali artefici del nostro suono durante tutto gli anni ’90 e oltre.

È stato difficile accettare il successo, tenendo conto del vostro background punk e hardcore?
Certo che sì, non credere quando qualcuno ti dice che il successo non l’ha cambiato per nulla. Purtroppo non è vero e l’abbiamo sperimentato anche noi, magari in misura minore, ma ci sono stati momenti brutti. Quando diventi famoso, il tuo ego subisce una trasformazione che lo rende sensibile ai soldi, alla notorietà, a tutte le cazzate che capitano intorno a te. Poi ci si fa il callo e, se sei una persona che si ricorda da dove viene, come è successo a noi, te ne freghi e ti godi la parte divertente della faccenda, senza farti abbindolare dal resto.

Se non fossi il bassista dei Bad Religion, con che gruppi vorresti suonare?
Sono un fan maniacale della musica, ancora oggi compro dischi, vado a concerti e ascolto decine di cose diverse ogni giorno. Tutte le volte che metto su un disco, mi estranio dalla realtà e divento un membro del gruppo che sto ascoltando. Nella mia vita ho suonato il basso immaginario con Elton John, Nirvana, Flipper, AC/DC, Captain Beefheart e migliaia di altri. È la mia fantasia ricorrente.

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