Quella a Beatrice Antolini è stata la prima intervista della mia vita, avevo 20 anni, uno di quei bloc-notes vecchio stile in mano insieme a una penna Bic blu, scrivevo per piccole fanzine online e non sapevo ancora che alle interviste ci vai sempre piena di certe domande, ma poi ti ritrovi a farne soprattutto altre, molto diverse, seguendo i rimbalzi degli scambi umani, come accade in ogni conversazione. Su queste basi tanto appassionate quanto traballanti incontrai quella che allora era una giovane promessa piena di talento della musica italiana cantata in inglese, cosa che ai tempi, i più anziani qui lo sanno, era cosa ben più diffusa di oggi.
Ci trovavamo nel backstage del Magnolia, a Milano, era il 2006, e Antolini aveva appena pubblicato il suo disco d’esordio intitolato Big Saloon, una straordinaria sintesi non sintetica di pop, jazz, psichedelia, ragtime, un lavoro sensuale e insieme clownesco, malinconico ma anche divertente, morbido e scricchiolante, tutto un pastiche di valezerini e blues con quell’occhio strizzato forte a Syd Barrett tipico – nome barrettiano non casuale – del Madcap Collective di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, l’etichetta (o meglio, il collettivo) con cui il disco era uscito. Antolini era già allora una vera fuoriclasse, il suo talento ti colpiva dritto e del disco ricordo la scoperta di una lavorazione casalinga dove l’autrice suonava pressoché qualsiasi cosa; i live, dal canto loro, erano caldi e pieni della voracità giovanile che accompagna un disco d’esordio sentito, immaginato, composto, realizzato con un’adesione assoluta.
Con Beatrice abbiamo fatto il conto chiacchierando al telefono mentre mi invitava a raccontare questa vecchia vicenda del nostro antico incontro, da allora sono trascorsi sedici anni a distanza dei quali esce oggi il suo ultimo singolo: lo fa dopo aver lavorato in lungo e in largo nelle più svariate vesti di compositrice, musicista, produttrice, con tantissime e tantissimi, da Lydia Lunch a Vasco Rossi, da Achille Lauro a Emis Killa, da Ben Frost a Mara Redegheri, Angela Baraldi e altri ancora. Il nuovo brano si intitola Il Grande minimo solare e arriva da noi a tre anni di distanza dall’ultima uscita, Imthepilot e a ormai quattro dal disco L’AB edito da La Tempesta. Il pezzo porta con sé una forza epica figlia del prog e di certe produzioni elettroniche internazionali ma tiene insieme le dinamiche e le vesti elettroniche con quelle sinfoniche di estrazione classica.
«Io vengo proprio dalla classica», mi racconta, «ma ho ascoltato e ascolto davvero di tutto: dall’elettronica alla lirica, al metal, all’hard rock, e poi la new classical, la musica contemporanea, e poi un sacco di colonne sonore, da Badalamenti a Nino Rota, ad Hans Zimmer, amo tanto James Blake e in effetti anche il prog, il prog buono, diciamo quello che è figlio più stretto della classica».
Il Grande minimo solare è anche il suo primissimo pezzo pubblicato con un testo in italiano ed è figlio del sovrapporsi ondeggiante di mondi, prospettive sonore nate da decenni di popular music italiana immaginata, composta e pubblicata sperimentando col la parola nella nostra lingua, dentro ci sentirete anche echi di musica italiana di ieri e di oggi, e potrebbe perfino capitarvi un rimbalzo del Morgan più sperimentale o del Francesco Bianconi più vicino all’uso di certa contemporanea.
«Io amo tanto il pop, la forma canzone, vorrei essere più capace di farne, sembra sempre di tirarsela a dire quello che sto per dirti, ma davvero è solo una questione di pura formazione: sono maggiormente portata alla complessità, tuttavia ho avuto insegnamenti grandissimi dai cantautori, i più bravi tra loro arrivano dritti al cuore con una certa semplicità, io invece non so se arrivo al cuore né se ho la semplicità».
L’uso della lingua è musicale, sonoro, profondamente originale, è un uso lirico che cerca apertamente di lenire qualsiasi possibile ferita pronta a nascere nello scarto linguistico che si crea oggi tra il passato di Antolini e questo nuovo presente, in una lingua nuova: «Ho scritto diverse canzoni nella nostra lingua ma le ho sempre tenute per me, è come se qui avessi trovato la giusta misura per non sentire un gap forte e in qualche modo traumatico nel cambio, è il testo di una che si considera musicista e non cantautrice, quindi come tu dici c’è la ricerca di una sonorità nella parola, volevo che il brano esprimesse il passaggio a qualcosa di nuovo ma in modo molto naturale».
In un momento storico in cui tutto è generale ricerca assoluta del like, dell’approvazione, del compiacimento collettivo, dove la sfida è piacere a ogni costo e dove la discografia si batte spesso per tirare fuori un’opera accettabile in forma di like più che come forma d’arte, lasciando cioè da parte le forze e le esigenze estetiche e di spessore, Antolini cavalca onde altre, onde che come tali non esistono perché sono solo le sue e il nuovo singolo ne è dimostrazione, attraverso una formazione artistica che passa anche dall’incontro con lo studio della spiritualità, della letteratura di Gurdjieff e dell’attenzione ai movimenti più interiori che esteriori, quelli in cui l’arte è naturalmente, strutturalmente e visceralmente implicata.
Come già faceva in L’AB, raccontando le contraddizioni contemporanee generate da humanitas e scienza, Antolini prosegue sulla via del ragionamento volto all’inclusione spirituale, appunto, introspettiva: il testo della canzone allude infatti alla teoria astronomica del minimo solare, secondo cui ogni undici anni il sole compie un ciclo che giunge a un minimo della produzione di macchie solari, con conseguente diminuzione delle temperature sulla Terra e la possibile creazione di piccole ere glaciali. Per Antolini l’era glaciale è l’esito della pavidità dei cuori, dell’indifferenza, dell’ignavia che ci riguarda oggi più che mai: «Siamo distratti e incastrati in un vortice di deresponsabilizzazione, di mancata condivisione, mancata partecipazione e aggregazione, la nostra vita si svolge simbolicamente tra quattro mura, non è attenta alla politica, né alla società, è una vita isolata, destinata alla misera interiore dove l’amore, l’amicizia, lo scambio sono messi al muro dagli stessi esseri umani».
Impossibile non sentire qui dentro anche l’eco di Franco Battiato. «È un riferimento forte, magistrale, ma d’altronde per chi di noi non lo è? Il discorso che cerco di portare avanti riguarda la necessità di un tentativo profondo di non diventare tecnologicissimi uomini medievali, cioè “rozzi cibernetici signori degli anelli”, proprio come diceva lui».