Quello di Beba è un nome noto agli appassionati di rap già da parecchi anni. Quasi sette anni fa ha cominciato a fare rap, facendosi conoscere nella sua Torino, e nel giro di breve ha stretto un sodalizio con la produttrice campana Rossella Essence, che le ha portate a diventare una delle realtà più originali e interessanti del periodo (nonché il primo duo formato da una rapper e una producer in Italia). Dopo anni di gavetta che l’hanno incoronata una delle più brave MC del nostro Paese, arriva il suo primo album ufficiale, Crisalide. «Era ora!», ride lei. «Avevo un disco già quasi pronto a maggio del 2020, però tra il lockdown e tutto il resto mi sono trovata con le mani legate, non potendolo finire. Dopo molte riflessioni ho deciso di buttarlo via e ricominciare da capo, il che ha richiesto un po’ di tempo in più, ma sono molto contenta di questa scelta: il mio primo album lo avrei voluto esattamente così».
Crisalide, in effetti, segna anche un grande cambiamento di stile per Beba, oltre che il suo esordio discografico: al posto delle barre serrate e dell’immaginario sfacciatamente rap a cui ci aveva abituati, c’è una grande apertura al mondo della melodia e della musica leggera, con parti cantate e beat più variegati. Non cambiano però la sua attitudine, la sua personalità e la sua determinazione, che le hanno permesso di emergere in un mondo in cui il 95% dei suoi colleghi sono maschi. Il che non è importante in assoluto – sarebbe riuscita a emergere in maniera altrettanto incisiva anche se avesse avuto un 95% di colleghe femmine – ma spesso incide su come gli altri la guardano e giudicano la sua musica, come ha raccontato lei stessa in più occasioni. L’ultima delle quali, a cui eravamo presenti entrambe e che è uno dei motivi per cui quest’intervista si focalizza così tanto su queste tematiche, è un recente dibattito nell’ambito del festival femminista torinese “La postura del consenso”, in cui insieme a Willie Peyote e Federica Torchia di Machete eravamo invitate a parlare di sessismo e hip hop. Per chi fosse curioso del risultato del dibattito tutti i convenuti hanno concordato sul fatto che l’hip hop non è particolarmente sessista e maschilista, o almeno non più di qualunque altro ambito della società. Ma torniamo a Crisalide.
Perché questa svolta pop?
Deriva da un’esigenza di allargare i miei orizzonti. Dopo il lockdown sentivo di dover uscire da una categorizzazione legata al genere musicale, avevo proprio voglia di sperimentare cose nuove. Nel mio disco c’è un po’ di tutto, sia a livello di sound che di argomenti e melodia/rap, anche se ho cercato di mantenere sempre una forte identità urban.
L’esigenza da dove è partita?
Penso sia una conseguenza inevitabile del fatto che sto crescendo. Faccio rap da tanti anni, ed è un genere che mi ha dato la possibilità di esprimermi tantissimo, ma nell’ultimo periodo era diventato un po’ limitante avere a che fare con l’etichetta di rapper donna. Quando mi sono ritrovata a scrivere di nuovo, mi è venuto automatico provare a non pormi più dei paletti: non è stata una cosa forzata, insomma. L’album si chiama Crisalide anche per questo, è una sorta di rinascita. È stato un anno davvero catartico, per me: sono cambiata tanto, e continuo a cambiare giorno dopo giorno.
Non sei la prima rapper ad affrontare una metamorfosi simile: in America, ad esempio, c’è stata Nicki Minaj che, dopo l’exploit di Monster con Kanye West che l’aveva imposta all’attenzione come una delle più forti del mondo a livello tecnico, aveva cambiato del tutto immaginario e pubblico di riferimento, passando al pop zuccheroso di Super Bass.
Mi fa molto piacere questo parallelismo perché Nicki Minaj è un’artista che ha avuto una certa rilevanza nel mio percorso, è stata uno dei miei punti di riferimento a inizio carriera. Sono molto consapevole delle mie capacità tecniche da rapper, ma a un certo punto mi sono un po’ annoiata: mi sembrava di dover sempre girare intorno a quello, al dover dimostrare costantemente di essere capace di rappare. E se ti annoi, alla fine diventi tu stessa noiosa.
Visto che a chiederti come ci si sente ad essere una donna nel rap ci penseranno già tutti gli altri, io cambio leggermente domanda: quanto è sfiancante sentirsi fare costantemente la domanda sul tuo ruolo di donna nel rap?
È anche per questo che ho smesso di fare solo rap, così la smetteranno una buona volta di chiedermelo (ride). Finora me l’hanno fatta tutti quelli che mi hanno intervistato, non se n’è salvato uno. Ovviamente è molto fastidioso e faticoso, anche perché è una domanda un po’ sessista: parte dal presupposto che il mio percorso debba essere differente da quello di un collega maschio. O che il mio sia in un certo senso un sottogenere del rap, ovvero il famoso rap al femminile. Quando ho cominciato, nel 2015, la difficoltà per una ragazza non era tanto fare rap, ma farsi prendere sul serio, non essere considerata una macchietta, una groupie o una tizia che tentava di invadere un campo non suo. Adesso il problema è essere considerata una minoranza, ma direi che è già un passo avanti: di strada ne abbiamo fatta parecchia.
Crisalide è un album che parla molto d’amore, soprattutto di quell’amore un po’ combattivo e litigioso che si instaura tra due personalità forti, in cui il confronto dialettico è sempre molto acceso…
In effetti l’argomento principale dell’album è proprio l’amore, declinato da diversi punti di vista: quello passionale e un po’ punk, quello travagliato, quello tossico, quello per un’amica, per la propria città, per se stessi. È un po’ come se avessi scritto un’autobiografia (un po’ romanzata, chiaramente) attraverso questo espediente. Non mi era ancora capitato di raccontare così tanto la mia vita nei pezzi, perché negli anni scorsi, come dicevamo, ero troppo impegnata a cercare di dimostrare al mondo che ero brava davvero. Ho preferito finalmente dare più spazio a ciò che mi ha portato a fare musica, piuttosto che alla tecnica e alla bravura in sé.
L’amore per le città, ad esempio, emerge molto bene nella title track Crisalide, in cui tu e Carl Brave mettete in scena una storia a lunga distanza tra Torino e Roma. Com’è nata?
È una sorta di gioco: io parlo di Roma, una città in cui vivo parte del tempo, ormai, in parallelo con Milano, e lui di Torino. Non avrei mai pensato di riuscire a far dire a Carl “Sei come l’alba ai Murazzi”. Anzi, ho pure dovuto spiegargli cosa sono i Murazzi (ride). Non si è mai vissuto davvero la vita notturna torinese, perciò ci siamo ripromessi che alla prima occasione gliela farò scoprire dal vero. C’è anche un’altra canzone che parla delle “mie” città, Fili del tram. In realtà, però, anche se racconta anche di Milano e Roma, alla fine è una dichiarazione d’amore a Torino, perché nonostante tutto casa mia è quella. È un po’ come quell’amica che non si offende se non ti fai sentire, perché sa che sei impegnata e che prima o poi tornerete ad abbracciarvi.
A proposito di amiche, c’è un brano, Chiara, che è dedicato proprio a una tua amica con cui hai perso i contatti da tempo…
A livello emotivo è la mia canzone preferita del disco, nonché la prima che ho scritto. Mi fa sempre venire la pelle d’oca. Hai presente quando hai in sospeso qualcosa con una persona, e ti consigliano di scriverle una lettera, anche se poi non gliela manderai mai? Ecco, quella lettera che avrei dovuto scrivere tanti anni fa ora è diventato un pezzo tra i più intimi e sinceri. Racconto della mia migliore amica, con cui sono cresciuta dagli 8 ai 18 anni. Purtroppo, poi, la vita porta ad allontanarsi, ed è una delle più grandi cicatrici che mi porto appresso.
Che effetto ti fa l’idea che poi questa canzone verrà probabilmente ascoltata dalla diretta interessata?
Me lo chiedono tutti, ma non lo so. Me lo sono sempre un po’ domandata, cosa pensa quando vede un mio video su YouTube o ascolta un mio pezzo in radio. Spero che le farà piacere, comunque: su tutto il resto, si vedrà.
Un altro dei brani che colpiscono di più è Bambola, che accende i riflettori su tutte le problematiche che possono capitare a una donna in un music business dominato da uomini. È un’esperienza che hai sperimentato sulla tua pelle.
Sì, anche se in maniera sottile, per fortuna. Il trattamento che viene riservato alle ragazze in quest’industria è molto diverso rispetto a quello dei ragazzi. In quelle strofe ho vomitato tutto quello che penso sul maschilismo e il sessismo nel mondo dell’entertainment. Volevo mettere nero su bianco un argomento di cui non si parla mai abbastanza, spesso per timore di perdere qualcosa, e costringe molte di noi a sottostare a determinate dinamiche per poter fare parte del mondo della musica.
Immagino che sia pesante dover corrispondere costantemente a certi standard estetici (bellezza esteriore, trucco, parrucco, styling) che invece per i musicisti uomini non sono certo obbligatori.
Diciamo che dipende: l’immagine non è poi così importante, secondo me. O meglio, non è il vero problema. In generale è frustrante rendersi conto che, nel momento in cui c’è un’artista donna che va forte, quasi sempre c’è un uomo dietro che le giostra a piacimento. Quello che volevo fare con Bambola era soprattutto parlare a queste artiste, e porre in primis a loro una domanda: «Capisco che tu voglia sopportare in silenzio certe dinamiche pur di fare musica, ma ti chiedi mai cosa rimarrà dopo che sarai stata usata in questo modo? Ti chiedi mai se il gioco vale la candela?». A volte è meglio rinunciare a una situazione allettante per poter perseguire un obbiettivo più nobile e importante per tutte.
Vorrei porre l’attenzione su quella che potrebbe essere una piccola contraddizione interna, però: poco dopo Bambola, nella tracklist arriva Lesbo chic, un brano con Myss Keta che di fatto ammicca proprio a tutti gli stereotipi del sogno erotico di ogni maschio medio. Non rischia di essere un po’ contraddittorio?
In realtà quella traccia è un omaggio a Ghetto chic dei Colle Der Fomento (ride)! Detto questo, ovviamente voleva essere un gioco, ma al di là di tutto credo che dipenda molto dall’angolazione da cui la consideri. L’idea di base non era tanto giocare sul sogno erotico degli uomini, ma raccontare di una serata in cui le donne si bastano, in cui non c’è bisogno della presenza di uomini per divertirsi. Per la serie “stasera non ci sono cazzi…”, letteralmente e in senso figurato… (ride)
L’album si chiude con Monica Bellucci, un brano in cui dai sfogo a tutta la tua vena da rapper da competizione. Ospiti sulla traccia un nome relativamente sconosciuto, Angelino Panebianco.
Quel pezzo nasce proprio dalla mia voglia di fare rap senza pensieri, per divertirmi. L’ho scritto in due ore, di getto, e mi ci sono affezionata subito tantissimo. Tutti quelli che lo ascoltavano, però, mi dicevano che il ritornello era troppo forte per chiudere il pezzo così, ed è nata l’idea di aggiungere un feat. Non volevo chiedere un’altra collaborazione a qualche big che magari avrebbe anche partecipato volentieri, ma non con lo stesso spirito di amore puro che avevo io per quella traccia. Così ho pensato di chiedere ad Angelino, un mio amico di Torino. È un emergente assoluto, anche se ha la mia età e quando ho cominciato a fare io musica in città era già piuttosto noto. Per un periodo ha smesso perché si è trasferito all’estero e ha cambiato vita, ma qualche mese fa è tornato, ci siamo sentiti e mi ha fatto ascoltare un po’ di roba nuova che aveva registrato. E da lì è ripartito tutto: mi è sembrato il modo migliore per onorare quel brano.