Beck, l’arte della fuga
Fuggire da sé è una delle grandi tentazioni contemporanee. Beck lo sa e ha concepito il nuovo album ‘Hyperspace’ come una galleria di personaggi che affrontano drammi esistenziali usando la droga, la religione, i soldi, l’amore. Il suo modo di elaborare il dolore è la musica. Da venticinque anni, i suoi collage post moderni raccontano il presente e predicono il futuro
Nel 1979 la Atari lanciò un videogioco chiamato Asteroids. Lo si trovava nelle sale giochi. Era un affare nero alto due metri, pesava 160 chili, aveva un processore mille volte più lento di quello del vostro smartphone. Inserivi il gettone e guidavi una navicella spaziale cercando di evitare l’impatto con dischi volanti e asteroidi. Questi ultimi erano rappresentati da grafiche primitive che la Atari pubblicizzava come effetti visivi spettacolari. Quando stavi per essere annientato, potevi schiacciare un pulsante bianco chiamato Hyperspace che ti avrebbe trasportato in uno spazio parallelo, assicurandoti la salvezza.
Quarant’anni dopo, fuggire da sé è una delle grandi tentazioni contemporanee. Avere a disposizione il pulsante della Atari nella vita reale è il sogno segreto di gran parte di noi, è la rappresentazione della psiche collettiva sotto forma di bottone di plastica. Beck, uno che da un quarto di secolo fiuta lo spirito del tempo e cerca di sintetizzarlo in canzoni belle e bizzarre, ha scelto Hyperspace come titolo del nuovo album in uscita il 22 novembre. «Mi è venuto in mentre durante la promozione del mio ultimo disco, Colors», racconta a Rolling Stone. Era il 2017. Beck pubblicava uno dei suoi lavori più leggeri, ritmati, coloriti e pop nell’anno del giuramento di Donald Trump, degli esperimenti missilistici nella Corea del Nord, dell’attacco terroristico dopo il concerto di Ariana Grande a Manchester, del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.
«I giornalisti continuavano a chiedermi perché facessi musica d’evasione in un periodo storico tanto drammatico. E così mi sono ricordato di Asteroids, a cui giocavo da bambino. La musica è la cosa più simile che abbiamo nella vita reale al pulsante Hyperspace che per un attimo ti permette di scomparire. La musica non aggiusta le cose che vanno male nella vita, non ti dà mangiare, non ti mette un tetto sopra la testa. Però ti cambia lo stato d’animo, è una forma di viaggio nel tempo, è una magnifica illusione, è un innesco emotivo. È pensiero magico».
Se c’è una cosa che si rimprovera al pop di questi anni è la perduta capacità di rappresentare e all’occorrenza criticare un mondo sempre più complesso e di difficile lettura. In questo contesto, l’escapismo di Hyperspace può risultare superficiale. Secondo Beck, ha invece a che fare con qualcosa di profondo e ancestrale. «Premere quel bottone non è il desiderio di tutti, in un modo o nell’altro?», chiede. «È così dai tempi della prime cerimonie musicali, delle prime esperienze collettive. È fin dalle origini parte integrante dell’esperienza umana. Ci sono grotte dove hanno trovato frammenti di flauti risalenti a 30 mila anni fa. Producono le scale musicali del blues e del rock. La musica è un rituale che fa parte di noi, non c’è altra spiegazione. È una forza potente e positiva che ti permette di fuggire dalla realtà».
Pur essendo un disco piuttosto vario, Hyperspace somiglia perciò a un concept. Ogni canzone corrisponde pressapoco a un modo in cui le persone affrontano i drammi esistenziali. «Qualcuno elabora il dolore andando in moto, altri si drogano, altri ancora hanno bisogno di passare da un’infatuazione amorosa all’altra. Una canzone parla di religione, del modo in cui la fede ti colpisce come un fulmine e t’attraversa il corpo portandoti in uno stato d’estasi. Un’altra parla di un amico che ho perso anni fa a causa della droga. Altre ancora descrivono personaggi alla ricerca di beni e piaceri materiali. Li racconto senza giudicarli. Dico solo che è interessante come ognuno di noi scelga un suo modo per affrontare la vita e i suoi drammi. Il mio è la musica».
Le canzoni di Hyperspace sono state scritte, prodotte e suonate da Beck ognuna con un solo produttore, un metodo di lavoro che il musicista trova particolarmente proficuo. Il cantante è affiancato da Greg Kurstin, Paul Epworth, Cole M.G.N. e, in sette canzoni su undici da Pharrell Williams, il genio del pop scarnificato di Happy. I due hanno cominciato a discutere di una possibile collaborazione sette anni fa. Sono riusciti a renderla concreta solo di recente. Beck voleva un disco ispirato al sound di Drop It Like It’s Hot, il duetto di Snoop Dogg con Pharrell. Quest’ultimo sentiva nelle canzoni dell’amico un suono a metà fra tradizione e modernariato, una miscela di chitarre acustiche da cantautore, beat elettronici e vecchi sintetizzatori. Uno voleva riempire le canzoni di decine di tracce sonore, l’altro voleva lavorare con pochi colori nitidi. Sono prevalse le idee del secondo.
Hyperspace inizia con una voce che sembra venire da un’altra dimensione – eccolo, l’iperspazio – e che evoca il desiderio di vivere intensamente, cumulare cose, fare esperienze. Dal blues metropolitano di Saw Lightning, il suono eccitato di una folgorazione religiosa (“Signore, vieni a prendermi e conducimi verso la luce”), al viaggio di Stratosphere, che sembra alludere a un’esperienza allucinogena e ospita i cori di Chris Martin dei Coldplay, l’album è una masterclass in economia sonora.
«Sono fatto, l’amore è chimico», canta a un certo punto Beck. Hyperspace è un disco sulle dipendenze che ci tengono in vita e culmina in un’ultima canzone potente intitolata Everlasting Nothing. L’idea di fuga sottesa all’album diventa estrema ed evoca un nulla perpetuo che per una volta non fa paura, ma è anzi stranamente rassicurante. Nella testa di Beck è una specie di gospel. «Sulle prime non sapevo che tipo di pezzo fosse. Poi ho capito che era una Let It Be. Qualunque cosa tu faccia nella vita, qualunque problema tu abbia, farai la stessa fine degli altri esseri umani. Alla fine della vita troveremo casa in un grande nulla. Accettare l’idea della morte è un modo per trovare la pace».
Beck s’è affacciato sul pop esattamente 25 anni fa. Aveva già pubblicato due dischi, ma pochi l’avevano notato. Nato a Los Angeles nel 1970, figlio del grande arrangiatore David Campbell, Beck Hansen era un tipo strano e vagamente emaciato, aveva la faccia da ragazzino e la mente in costante subbuglio. Era un’anti-pop star e non poteva che essere figlio di una città come New York, dove s’era trasferito nel 1989. Era un folksinger bianco che pretendeva di fare musica mettendo assieme le suggestioni dei bluesmen afroamericani d’inizio secolo e le pratiche produttive dell’hip hop. In Loser, all’epoca la sua canzone più famosa, cantava “sono un perdente, baby, perché non mi uccidi?” e così, per una breve stagione, ha intercettato il dibattito sulla Generazione X (via Douglas Coupland), sugli slackers (via Richard Linklater), sulla mancanza di valori, sull’indolenza, sul degrado della curva dell’attenzione. S’è capito, poi, che Beck era un lavoratore pazzesco, un performer scatenato, un musicista intelligente. «Slacker my ass», rispondeva nel 1994 a chi tirava fuori la questione.
Venticinque anni dopo, la sua generazione è preda delle operazioni nostalgia un tempo riservate ai baby boomer. Beck rivendica la grandezza degli artisti suoi coetanei o quasi – Kurt Cobain, D’Angelo, Thom Yorke, Tupac – ed è convinto che i musicisti della Generazione X non abbiano raccolto quanto seminato. Ha una teoria che ha a che fare con la demografia. «La mia è la generazione più piccola», racconta. «Siamo schiacciati dalla generazione precedente e da quella successiva. Ecco perché i nostri grandi autori, musicisti e artisti sono stati marginalizzati ed etichettati come alternativi. Oggi un cantante può emergere da SoundCloud e nel giro di un anno può trovarsi a suonare di fronte a 25 mila persone o a fare da headliner in un festival. Venticinque anni fa non sarebbe accaduto. Se amavi la musica, ti capitava di seguire certi gruppi per quattro, cinque, sei anni prima che il grande pubblico s’accorgesse della loro esistenza».
Il mondo si è accorto dell’esistenza di Beck, eccome, ma non l’ha mai trasformato in un artista mainstream, forse perché il cantante non è una star carismatica o forse perché attorno al suo personaggio non è mai stata costruita una narrazione seducente, ma al limite qualche pettegolezzo sulle relazioni finite e sull’adesione a Scientology di cui il suo management desidera non si parli, pena l’interruzione immediata dall’intervista. O forse non è mai diventato una star a causa del repertorio schizofrenico. Hansen è uno che non pubblica mai due dischi simili. Per ogni Odelay ritmato e colorato c’è un Mutations mesto e riflessivo, per ogni Morning Phase caldo e malinconico c’è un Colors sovreccitante e super-pop. «Li divido in dischi del sabato sera e della domenica mattina», dice.
Beck ha contribuito a creare un pezzetto di futuro, faceva musica genreless prima che qualcuno inventasse la parola. E non è stato un processo indolore. Mentre contribuiva a spingere il pop verso l’ultima frontiera dell’abbattimento dei confini tra generi, soffriva per le critiche che i suoi dischi ricevevano. «I giornalisti dicevano che erano il frutto di manipolazioni in studio di registrazione, che non erano canzoni vere e questo perché al posto di essere suonate da chitarra, basso e batteria c’erano, chessò, campionamenti di flauto, l’unione di due diversi beat di batteria, scratch, un organo anni ’60, effetti sonori».
Beck ha nobilitato il concetto di collage sonoro. «La mia idea» spiega «era prendere gli elementi essenziali della musica rock convenzionale e sostituirli con altri elementi. Era un po’ come prendere un’automobile e cercare di ricostruirla non con parti in metallo, ma in legno, plastica, vetro. Facevo proprio questo: prendevo un’idea originale e la modernizzavo ricontestualizzando i suoni». Con le critiche sono arrivati i dubbi. «Per un bel pezzo ho creduto che la gente non rispettasse questa idea. Ho fatto album come Mutations e Sea Change proprio per mostrare che ero in grado di fare musica in modo tradizionale e di scrivere vere canzoni. Volevo far capire che non si trattava di trucchi da sala d’incisione, che al centro c’erano emozioni e idee».
Le paure di Beck forse erano ingiustificate. Di certo, le sue visioni si sono rivelate profetiche. Venticinque anni fa, i suoi collage musicali suonavano bizzarri e rivoluzionari. Erano un’alternativa sia alle nostalgie dei baby boomer, sia al pensiero dogmatico di chi pensava che la musica vera dovesse passare necessariamente da strumenti acustici ed elettrici. Oggi, nell’eterno presente in cui viviamo, il processo di digitalizzazione ha annullato le distanze fra stili ed epoche, e i suoi patchwork sonori rappresentano la regola. «Mi sento sollevato perché per anni mi sono fatto domande sulla credibilità di quel che facevo. Temevo che la gente la considerasse una novità passeggera, una specie di scherzo. Sai che cos’è per me l’assenza di generi nel pop contemporaneo? È una legittimazione».