«Un fallimento». Zach Condon, songwriter e compositore americano noto come la mente dietro al progetto Beirut, non ha nessuna remora a definire così la cancellazione del tour di Gallipoli, il suo disco del 2019. Dopo quel momento difficile era lecito ipotizzare che il 37enne del New Mexico avrebbe mollato il colpo e smesso di suonare; in realtà si è messo subito alla ricerca di una via di uscita e l’ha trovata, come sempre, nella musica.
«Già all’inizio di quel tour non mi sentivo bene», racconta Zachary in collegamento su Zoom da Berlino, dove vive da sei anni. «Mi era venuta una forte infezione alla gola, così, mentre le date della tranche americana proseguivano, sono stato costretto ad assumere antibiotici e steroidi per settimane, anche perché a un certo punto hanno iniziato a comparirmi delle macchie sul volto. È stato brutto, tant’è che ho ancora problemi. Data la sofferenza avevo chiesto a un dottore se potevo aumentare le dosi, ma mi disse che avrei rischiato di danneggiare la voce per sempre. Era davvero troppo, per cui ho scelto di staccare la spina, ho mandato la band a casa e fine della storia. È successo proprio prima di un concerto, eravamo a un festival a Madrid, ad attenderci sotto al palco c’erano migliaia di persone, ma dopo il soundcheck ho capito che non ce l’avrei fatta. Al di là dei problemi fisici, la causa di tutto questo è un problema di salute mentale dietro al quale c’è una lunga storia».
Attacchi di panico, ansia, stati depressivi: Zach ha dichiarato in più di un’occasione di avere avuto, all’età di 19 anni, un esaurimento nervoso che ha lasciato strascichi. Da allora combatte contro il malessere, cosa che ha fatto nuovamente dopo la delusione legata al tour di Gallipoli facendosi ispirare da un’isola della Norvegia, Hadsel, dove si è rifugiato nei primi mesi del 2020 e che oggi dà il titolo al suo nuovo album – Hadsel, appunto – in uscita domani.
«Mi sentivo perso, volevo un posto tranquillo e solitario dove ritirarmi e ripensare a quanto accaduto. In passato l’oscurità dell’inverno mi era sempre stata di conforto e ho sempre amato il freddo; a Gallipoli erano stati i miei compagni di band a portarmi, io avevo proposto l’Islanda o il Maine. Poi, un po’ per caso, guardando sulla mappa verso nord, ho scoperto quest’isola e mi è sembrata la meta ideale. Mi sono portato dietro il mio studio portatile: due impianti di synth modulari, strumenti di cui amo il suono elettroacustico, più una macchina a nastro portatile, microfoni, un controller per tastiera midi, una tromba. I miei amici e la mia famiglia temevano avessi perso la testa, o che l’avrei persa nella notte polare, e invece…».
Invece ne è emerso un album in perfetto stile Beirut, 12 brani che Zach ha chiuso in seguito a Berlino e che illuminano il suo talento di compositore e multistrumentista riuscito a conquistare l’attenzione di critica e pubblico a livello internazionale quando aveva 20 anni, nel 2006, con il primo disco Gulag Orkestar. Disco che all’epoca lo rese una sorta di enfant prodige dell’indie folk. Ingredienti principali della sua musica, la voce morbida e delicata – il timbro è vagamente alla Morrissey – e canzoni incentrate su melodie sospese tra dolcezza e malinconia e dai ricchi arrangiamenti orchestrali, in questo caso costruiti attorno a un organo a pompa che Condon ha trovato sul posto durante il suo soggiorno scandinavo.
«Quando i proprietari della baita dove stavo in affitto hanno saputo che ero un musicista, mi hanno presentato Oddvar, il vicino di casa, un collezionista di organi a pompa che prima della pensione era solito ripararli ed era anche stato uno degli organisti della Hadselkirke, una bellissima chiesa ottagonale in legno del 1800 situata in fondo alla strada. Grazie a lui ho potuto, per la prima volta in vita mia, suonare un vero organo».
Certe coincidenze parlano da sole, e Zach ha saputo coglierle al volo, per poi portare a termine la realizzazione del disco una volta rientrato in Germania. «Il paradosso è che sono fuggito in un posto remoto appena prima che la pandemia obbligasse tutti all’isolamento. Fatto sta che la bellezza della natura, l’aurora boreale, le tempeste e le montagne mi avevano ispirato dei pezzi da rifinire, cosa che ho fatto aggiungendovi un ukulele baritono, un corno francese, e sovrapponendo tamburi a mano e shaker a vecchie drum machine e agli strani suoni di percussioni synth che avevo creato in Norvegia”» Il tutto con un approccio DIY e senza l’apporto di nessun altro: la differenza rispetto a Gallipoli, oltre alle atmosfere meno solari, è che qui Zach non si è limitato a comporre tutto da solo, cosa che ha sempre fatto, ma si è anche suonato e prodotto tutto da solo.
«Gli altri della band hanno capito, gliene sono grato. Del resto, avevo sempre scritto io le parti di tutti. In più sono stufo di sentirmi responsabile per queste persone. Mi è dispiaciuto annullare il tour per i fan che aspettavano da tanto di vedere Beirut live, ci ho sofferto e mi sento tutt’oggi in colpa, ma quanto al gruppo, avevo promesso che sarei riuscito ad arrivare sul palco in forma e ho fallito. Per cui ora preferisco non coinvolgere più nessuno, mi sentirei troppo sotto pressione».
Le sue parole rimandano al post con cui ha comunicato sui social che presenterà Hadsel dal vivo, con il gruppo, solo in due date, il 16 e il 17 febbraio 2024, al Tempodrom di Berlino. «Non è che abbia paura della folla o del contatto con la gente, piuttosto credo di essere sempre stato una persona calma e sensibile a cui non viene naturale fare il performer: suonare in pubblico mi stressa. E se un tempo per farmi forza bevevo, nel 2018 ho smesso nella convinzione che tutto sarebbe andato per il meglio, ma a quanto pare mi sbagliavo».
Tra le nuove tracce che sicuramente finiranno in scaletta una è il singolo The Tern, forse il pezzo più speranzoso di Hadsel, in termini di atmosfera. «Vero, se parliamo di musica; l’ho scritto in un momento in cui credevo di avere superato i miei problemi psicologici. Non lo penso più, ho capito che con depressione e traumi puoi al massimo imparare a convincerci, ma al tempo credevo di esserne fuori. Però il testo, quello non è così ottimista, visto che canto qualcosa tipo “it’s not too late to find where you are, but for me it’s not so easy”».
Parla con un’onestà a tratti sconcertante, Zach Condon. Nel corso della conversazione confida di volersene andare da Berlino («mi piaceva ci fosse una comunità internazionale, ma adesso è tutto internazionale e c’è troppa gente di passaggio a cui non frega niente di trattare bene la città»). E quando gli si chiede in che senso, in una serie di commenti online sulla sua pagina Instagram, si è definito un music maniac, si sorprende. «Non sono abituato a parlare di certe cose, è il modo in cui mi descrivo in privato. Il punto è che purtroppo non riesco a funzionare come gli altri esseri umani, perché tutto mi colpisce in maniera estremamente intensa, specie la musica, e perché ho una mente caotica e maniacale su cui mi capita di perdere il controllo. Quando avviene, posso sparire nel mio studio per 16 ore di fila senza bere, né mangiare, dimenticandomi persino di lavarmi e di andare in bagno, con in testa un unico pensiero: devo chiudere questo pezzo, devo arrangiare questa canzone. In passato è anche successo che i miei compagni di band mi dicessero di darmi una calmata, che era il momento di mangiare, di dormire, ma io non capivo e rispondevo: cosa intendete? Perché adesso?».
È con questa fame, con questo senso di urgenza, che Condon alias Beirut confeziona la sua musica così personale, un intreccio di suoni che ha il sapore della litania, della preghiera. «Non c’entra la religione, dato che non ha fatto parte del mio percorso di crescita. Ma è vero che nei cori e nella musica sacra ho sempre percepito una profonda trascendenza difficile da trovare altrove. D’altronde, sono convinto che il potere della musica stia proprio nella sua capacità di trasportarti in una dimensione altra. È evidente se la scomponi, lì realizzi che è una vibrazione dell’aria “organizzata”. E a me questo ha sempre colpito, al punto che da ragazzino, ai miei amici che suonavano punk-rock e hardcore, dicevo che stavano distruggendo la musica. Perché sentivo che c’era qualcosa di alto da proteggere, qualcosa che loro stavano spingendo verso terra. Ciò che ho cercato di fare come musicista, con Beirut, è esattamente il contrario: ho provato a iniettare nelle mie composizioni il grado massimo di bellezza trascendente. Mi è venuto naturale, perché l’ascolto della musica è per me qualcosa di affine a un’esperienza religiosa. Perciò non mi appassiona scrivere testi per i miei brani: è come prendere qualcosa che fluttua nell’aria e schiacciarlo».
La chiacchierata si sposta su alcune playlist che Zach ha reso pubbliche su Spotify: primo brano della serie, Marianne di Sergio Endrigo. «Non riesco a credere che nessuno mi abbia fatto sentire quella canzone prima! Ha dentro tutte le note che amo, il dramma, la bellezza della voce, un’orchestrazione meravigliosa. La musica italiana è una grande influenza per me, basti pensare a Morricone: lui l’ho scoperto lavorando in un cinema a Santa Fe, avrò avuto 14-15 anni. A parte il fatto che oltre a fare pop-corn e stare al botteghino dovevo pulire l’intera sala solo con una scopa, e mi innervosivo perché ci mettevo due ore ogni volta, avevo la fortuna di vedere i film gratis dalla sala proiezioni. Era stupendo, perché la programmazione, a parte un giorno alla settimana, non prevedeva film americani, solo roba straniera. Temo che durante il Covid abbia chiuso, ma ho un sacco di ricordi legati a quel posto: un giorno il direttore artistico mi diede un vecchio proiettore con cui iniziai a guardarmi i film anche a casa, sul soffitto della mia cameretta, perdendomi nelle immagini».
È così che Zach si è «distaccato dalla mentalità ristretta in cui, in un luogo isolato come Santa Fe, è facile restare imprigionati», e ha imparato a conoscere l’Italia, l’Europa, le pellicole di Fellini, Le armonie di Werckmeister («uno dei film più belli che abbia mai visto»), la musica balcanica e quella di altre tradizioni, mediorientale in primis. «Mi piace cercare canzoni buone, non importa da dove arrivino. I brani che amo approcciano in modo diverso la stessa cosa: vantano melodie universali che catturano, a dispetto della barriera linguistica e delle differenze di suono. Ciò detto, alla musica mediorientale mi sono avvicinato dopo il settembre 2001: gli Stati Uniti stavano entrando in guerra contro il sud del mondo e ricordo di avere pensato che la cultura di quelle popolazioni non poteva essere tutta lì, e mi sono messo a indagare. All’epoca ero un ragazzino curioso, il mio era un modo di reagire a una guerra per me orribile e ridicola. Rimasi affascinato dalle scale mediorientali, che hanno colori e sfumature emozionali diverse dalle nostre. Non sono migliori, come ritiene qualcuno, solo differenti: con quelle scale puoi ottenere un mood più profondo e sofferente, ma al contempo perdi la gioia dell’armonia della musica occidentale». Gli chiediamo se sta seguendo il conflitto israelo-palestinese. «Sì, è brutale. Ma come musicista evito certi discorsi, penso che la musica sia migliore e più grande della politica».