«Sono da poco tornato dall’Alaska, ho trascorso un po’ di tempo immerso nella natura: magnifico». Ben Harper è in collegamento su Zoom dalla sua casa a Los Angeles. Seduto per terra, la schiena appoggiata al divano, con indosso una maglietta e in testa un cappellino rosa, parla con tono pacato, prendendosi una pausa quando serve, calibrando le parole: sin dal primo scambio di battute si capisce che è uno che ci tiene a mettere a proprio agio l’intervistatore (no, non sono tutti così, gli artisti).
Il songwriter e produttore californiano classe 1969, in tasca tre Grammy e alle spalle un percorso che lo ha visto conquistare il rango di popstar internazionale muovendosi tra blues, pop, rock, reggae, folk senza mai rinunciare all’impegno civile né cedere alla tentazione di seguire i trend del momento, pubblicherà il 2 giugno Wide Open Light, disco acustico che prosegue in questa direzione: ad appena 11 mesi dal precedente Bloodline Maintenance, l’album mette in scena l’Harper più intimo con una raccolta di canzoni quasi solo voce e chitarra – alcune nuove, altre più datate – in cui non mancano un brano al pianoforte e due tracce strumentali. Arricchito dalla presenza di Jack Johnson nel singolo Yard Sale, di Shelby Lynne in 8 Minutes e di Piers Faccini nella title track, è un’opera che suona come una conversazione dell’autore con se stesso, qualcosa dalle parti di Nebraska di Springsteen. Potremo sentirlo dal vivo a Milano, al Magnolia di Segrate, il prossimo 11 luglio, tappa del tour di Harper con la sua storica band Innocent Criminals in cui si ritaglierà un momento per proporre da solo sul palco questi nuovi pezzi così spogli, minimalisti: «Rispecchiano ciò che sono in questo momento» spiega lui.
Cosa puoi dire di più? Si percepisce un tuo bisogno di metterti a nudo.
Wide Open Light è una fotografia sincera e genuina di dove mi trovo oggi, cattura un suono che fa eco profondamente dentro di me. È strano, nemmeno un anno fa ho pubblicato Bloodline Maintenance, qualcuno potrebbe chiedersi come mai sto già pubblicando un altro disco. Ma è nato tutto spontaneamente, dalla necessità di tuffarmi in questo tipo di paesaggio sonoro che fa parte di me, del mio istinto, l’istinto di spogliare le cose. Da tempo lo sto facendo anche nel privato.
A cosa ti riferisci?
Sto riducendo gli sprechi, eliminando ciò che non è necessario. Consumando meno, in sostanza. La semplicità è qualcosa che ho sempre ricercato.
Come artista consideri la tua musica e la tua vita personale un tutt’uno?
Assolutamente. In un modo o nell’altro la mia musica e la mia vita sono sempre state connesse, credo che tra le due ci sia un legame che nutre soprattutto il mio subconscio. Perché il subconscio è gran parte di ciò che siamo. Pensa agli atleti che si riguardano le partite o le gare dopo che hanno vinto o perso per capire cosa hanno sbagliato e cosa hanno fatto bene, e immagina se lo facessimo noi con le nostre vite di ogni giorno, immagina se avessimo sempre una telecamera puntata addosso: quante cose faremmo diversamente?
Cosa pensi nutra il tuo subconscio più di ogni altra cosa?
Le mie radici. Sì, Wide Open Light rappresenta le mie radici e spero che la gente possa ascoltarlo senza pregiudizi. È un album che manda al diavolo la musica pop, le radio e l’industria discografica. This is my kiss my ass record. Ha dentro il sound che ho voglia di sentire adesso. A dire il vero tutta la mia musica è così, ho sempre fatto i dischi che volevo, producendoli come mi pareva, e Wide Open Light è rigorosamente spoglio, essenziale: è un album che mette al centro le canzoni, i testi, nato da un’urgenza che non ha niente a che vedere con lo show business, con l’industria musicale, con le piattaforme di streaming, con il mondo digitale, con il mercato. Niente di tutto ciò: dentro questo disco c’è la mia vita, c’è tutto ciò che sono. Se vuoi ascoltarlo bene; se vuoi sentirlo alla radio mi spiace, non penso accadrà.
La tua è una storia particolare. Sin da bambino hai trascorso intere giornate nel negozio di strumenti musicali di famiglia, il Folk Music Center di Claremont: ti senti un predestinato?
Diciamo che non credo di avere scelto di diventare un musicista. Sono cresciuto riparando chitarre, imparando a mettere le pelli sulla testa di un banjo, ad accordare le fisarmoniche, a ottenere dagli strumenti un suono più o meno acuto. Sin da piccolo sono stato letteralmente immerso nella musica, circondato da strumenti musicali, in un ambiente dove tutti scrivevano canzoni. Erano tutti cantautori, sul serio: arrivava uno e diceva «oggi ho scritto questo pezzo, senti» e un altro rispondeva con il suo brano del momento. Non era questione di decidere se mettermi a scrivere o meno, capisci? Attorno a me lo facevano tutti e così ho iniziato anch’io, mi è venuto naturale. E sai una cosa? Non sono neppure lontanamente il miglior songwriter della mia regione: l’ultima traccia di Wide Open Light, che è un pezzo strumentale, è un tributo a colui che secondo me è il miglior songwriter della California, Pat Brayer.
Per esteso Patrick Brayer, anche tuo caro amico, giusto?
Esatto, un amico di vecchia data che ha avuto un’enorme influenza su di me. Quando lo conobbi scriveva ogni giorno: si svegliava, si vestiva, si lavava i denti, portava i figli a scuola, tornava a casa, scriveva due canzoni, pranzava, scriveva altri due brani, faceva un po’ di sport, cenava e prima di andare a letto scriveva un altro pezzo. È stato il primo a credere nella mia musica e il primo a mettermi su un palco a inizio anni ’90 quando mi fece aprire una serie di suoi concerti allo Starvation Café di Fontana, sempre in California. Questo per dire quanto il contesto in cui mi sono ritrovato fosse intriso di musica. Per tutti coloro che avevo intorno scrivere canzoni non aveva niente da spartire con il music business, era uno stile di vita. Mi sono reso conto soltanto in seguito, negli anni, di quanto quel music business possa essere ingombrante e condizionare la creatività di un artista. Stare in quel mondo e contemporaneamente contro quel mondo è stato il punto di tutta la mia carriera.
Complicato?
Bisogna volerlo. Dopo il successo di Steal My Kisses, che ritengo un po’ un caso, tutti volevano da me che replicassi la stessa cosa. E io cosa ho fatto? Nel 2004 ho realizzato un album gospel con i Blind Boys of Alabama. Qualcuno lo chiamerebbe autosabotaggio, ma la verità è che ho sempre unicamente seguito la missione che mi ero dato sin dall’inizio. E quella missione non è cambiata.
Sono quasi certa di averti sentito dire che nella tua scelta di diventare un musicista abbiano influito le tue origini afroamericane ed ebree: è così?
Premesso che mi piace credere che avrei fatto musica in ogni caso, indipendente dalle mie origini e dal mio background culturale, penso che le mie origini abbiano sicuramente condizionato ciò che sono, la mia prospettiva sulla realtà, ma al contempo spero che la mia musica trascenda il mio aspetto e le mie stesse origini. Mi spiego… Stevie Ray Vaughan non si preoccupava della confezione, ma del suono; allo stesso modo a me affascina il fatto che lui venisse dal Texas, che fosse un bianco in grado di suonare come Jimi Hendrix, perché è una bella storia, è una favola, qualcosa che ha il sapore del mito. Però non è questo che cerco quando metto su un suo disco. Ecco perché il mio primo album ufficiale, Welcome to the Cruel World, si apriva con una traccia strumentale e in copertina c’ero io con gli occhi rivolti verso il basso, in modo che non si vedesse bene la mia faccia: era tutto fatto apposta. Pensa che durante i miei primi concerti negli Stati Uniti, concerti di fronte a 15-20 spettatori, le persone sotto al palco erano stupite nello scoprire che ero un ragazzo di 24-25 anni: ascoltando quel disco si erano convinte che fossi un signore di 60 anni. Si presentavano nel locale alla ricerca di un vecchio bluesman e mentre suonavo chiedevano «ma quando arriva Ben?». Forse è per questo che ho conservato un forte senso di giovinezza interiore.
Parli come uno che ha dovuto combattere.
Una componente di lotta c’è, nel senso che tutto ciò che ho fatto come musicista è derivato da un’irrequietezza, da un tumulto interiore. Perché il fuoco che accende il mio ottimismo è il conflitto. Tornando a quello che cercavo di spiegare prima, non è che io desideri sabotare il mio successo, però voglio che si basi sulle mie idee, sulla mia creatività. È il motivo per cui, pur amando la produzione artistica, pur amando produrre altri (lo ha fatto con Mavis Staples, Rickie Lee Jones e Ziggy Marley, tra gli altri, nda) e ritenendo prezioso il lavoro dei produttori, mi piace la musica nella sua forma più genuina. Per questo ho prodotto io stesso Wide Open Light (con i suoi collaboratori di vecchia data Danny Kalb e Jason Mozersky, nda). In generale sono convinto che nel momento in cui dai la tua musica a un produttore esterno, dai una parte di te a qualcun altro e questo altro nel migliore dei casi può riuscire a mostrarti chi sei, a tirare fuori un lato di te che non conoscevi, ma può anche capitare, ed è il caso peggiore, che ti porti lontanissimo da quello che sei, perché magari ciò che vuole davvero è trasformare la tua canzone in una hit. Sia chiaro, non ho nulla contro le hit, sono ambizioso come tutti, ma se un successo deve arrivare, deve avvenire alle mie condizioni, non per le mire di un produttore, né per quelle di qualsivoglia discografico.
In 8 Minutes canti “it takes 8 minutes for the sun to hit your bones”: cosa significa?
8 Minutes è nata un giorno in cui mi trovavo nel giardino di casa durante la pandemia. In quel periodo chi aveva un posto dove stare all’aria aperta era fortunato e mi capitava spesso di passare del tempo così, seduto e incredulo per ciò che stava succedendo. A un certo punto ho cominciato a sentire che il sole era diverso in quei giorni, può darsi che lo avessi sempre dato per scontato, non saprei, di certo c’entra il fatto che fosse un sole pulito, disintossicato, e sentirlo sulla pelle era un regalo prezioso, la mia versione personale di lusso. Mi scorrevano nella mente pensieri come questi quando mi è venuto da chiedermi quanto tempo impiega il calore del sole a entrare nelle nostre ossa. E mi sono dato la risposta: 8 minuti! (ride, nda). Sono rientrato in casa e mi sono messo a scrivere.
Le tue parole rimandano alla questione dei cambiamenti climatici.
È che tendiamo a dare per scontata la natura, mentre ciò che è gratuito è ciò che ha più valore – vale anche per l’amore – e non possiamo fingere di non sapere che il clima dipende strettamente dalla maniera in cui ci approcciamo agli elementi naturali. È un argomento complesso… Insomma, guarda questi libri, guarda queste chitarre, guarda questo computer (indica i vari oggetti che lo circondano, nda): dove si supera il limite oltre il quale il nostro consumismo, la nostra dipendenza dai comfort, si trasforma in male? Il paradosso è che noi siamo un frutto della natura, siamo parte della stessa natura che ci ha creati e tutti i problemi che causiamo divengono parte di essa.
Inquinare fa male all’umanità come al pianeta: ti sembra che i governi stiano facendo abbastanza per risolvere questo problema?
Si dovrebbe fare di più, questo è indubbio, ma non so quanto siamo in ritardo per trovare una soluzione. Però credo una cosa: come umanità siamo capaci di tutto. Voglio dire, una specie che ha saputo affrescare la cappella Sistina, costruire il ponte di Brooklyn e sbarcare sulla Luna sarà probabilmente anche capace di combattere il cambiamento climatico, di invertirne il percorso, con un’ingegneria innovativa. È solo una questione di focus, dipende da quali priorità ci diamo, e spero davvero ci si focalizzi una volta per tutte sulle energie alternative e sulla geoingegneria.
E cosa pensi dell’energia nucleare oggi sdoganata anche da molti che un tempo la combattevano? C’è chi la indica come una soluzione.
Mai stato un fan dell’energia nucleare per varie ragioni, negli anni mi è capitato di discuterne con vari fisici nucleari. Preferirei un metodo di produzione e trasporto dell’energia a rischio zero non solo dal punto di vista chimico e ambientale, ma anche sotto un profilo socio-politico.
Nel 2007, quasi tre decenni dopo i celebri concerti No Nukes al Madison Square Garden di New York, tu hai aderito alla campagna lanciata da Jackson Browne, Bonnie Raitt e Graham Nash, una raccolta firme contro un piano di finanziamenti destinato all’industria dell’energia nucleare.
Certo che ho aderito a quella campagna, sono un uomo di sinistra, sono il più di sinistra che ci sia! Dove vogliamo andare a finire? L’energia nucleare potrebbe condurre alla guerra nucleare.
Non hai cambiato idea, bene. Ed è vero che stai pensando di andartene dagli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti stanno accadendo da tempo cose per me talmente inquietanti che sento il bisogno di ridefinire la mia cittadinanza. Sì, è vero, è così. E non è che stia cercando il regno di Utopia. Sono un uomo di 53 anni, ho girato il mondo, ho il privilegio di poter pensare di cambiare vita e gli Usa non sono il centro culturale dell’universo: ci sono così tanti Paesi nel mondo, ognuno con le sue sfide.
Dove ti piacerebbe vivere?
Magari a Roma. O a Parigi… Oppure a Verona, è una delle mie città preferite. L’Italia potrebbe essere un’opzione, mi serve un posto dove mangiare (sorride, il tono è ironico, nda).
Però negli Stati Uniti hai le tue radici, è quello che dici sempre.
Negli States ho le mie radici, ho la mia vita, ho tutto, lo so bene, non è che non ci abbia pensato, sono consapevole che la mia exit strategy è complicata. Ma mi rattrista molto non sentirmi più a mio agio nel Paese dove sono nato e cresciuto.
Che cosa ti indigna di più?
Non c’è un’unica ragione, basta guardarsi intorno per vedere come stanno andando le cose. È talmente evidente che per me sta diventando ridondante persino parlarne, sono sicuro che tu sappia a cosa mi riferisco. A volte mi annoio da solo quando tocco certi argomenti, perché poi comunque ti sto parlando dagli Stati Uniti, sono ancora qui per ora. Però almeno me ne sto lontano per più mesi all’anno…
Cambiamo discorso: com’è andato il tour del 2022 con Harry Styles? Ti saresti mai immaginato che un giorno, superati i 50, avresti aperto i concerti di una popstar così giovane?
Beh, sarebbe stato terribile chiudere per Harry Styles (ride, nda). A parte gli scherzi, sono un grande fan di Harry e della sua musica, lo ero già prima che tutto questo accadesse, sin dalla prima volta in cui lo vidi cantare Sign of the Times al Saturday Night Live nel 2017: non potevo crederci! È stata la prima volta in vita mia in cui ho pensato che stavo assistendo a un cambio generazionale da cui non si sarebbe più tornati indietro, e che eravamo in buone mani.
Tornando a Wide Open Light, è un album sull’amore, sull’amicizia, sulla famiglia. In Growing Growing Gone sei un padre che guarda sua figlia diventare grande. Poi c’è Giving Ghosts, registrazione live per voce e lap steel guitar con quel testo in cui, in riferimento a tuo padre che non c’è più, dici “every day I look more like my father”: com’è nata questa canzone?
L’ho scritta in Australia alcuni anni fa nel backstage della Sydney Opera House. Di qui la registrazione live: ho provato un’ottantina di volte a inciderla in studio, in vari posti a Los Angeles, qui a casa, ma non sono mai riuscito a ottenere ciò che era venuto fuori suonandola quella prima volta su quel palco. Così ho deciso di tenere nel disco quella prima versione dal vivo. Quanto al testo, mi fa piacere ti abbia colpito, ci tengo molto: quel che volevo dire è che non importa dove tu sia, i fantasmi, le persone che ti hanno lasciato, resteranno sempre dentro di te, ti accompagneranno nei ricordi, saranno i tuoi compagni mistici ai quali affidarti nel corso della tua esistenza.
Da come racconti le canzoni sembra che l’ispirazione ti colga all’improvviso: hai capito di che si tratta?
L’ispirazione è bellezza, è un mistero. Ed è lo stesso perseguire quel mistero che diventa ispirazione, laddove quel mistero è l’ingrediente che conduce all’onestà della scrittura. Dopo che ho scritto una canzone non so mai se me ne verrà un’altra: è stato così per 30 anni ed è ciò che instilla in me un sentimento di meraviglia che alla mia età è bellissimo provare. Lo devo alla musica.