Nell’autunno del 2008 gli Yes hanno spiazzato tutti annunciando che il cantante e fondatore Jon Anderson avrebbe lasciato la band a causa di una malattia respiratoria. Al suo posto sarebbe arrivato Benoît David, il cantante di una tribute band franco-canadese degli Yes. «Andrà bene», diceva il bassista Chris Squire ad Associated Press. «Ovviamente qualche rischio c’è, ma è inevitabile».
In realtà c’era ben più che «qualche rischio» considerando che il loro unico tour senza Anderson era stato quello disastroso per Drama, nel 1980, con Trevor Horn dei Buggles alla voce. Benoît David era comunque un ottimo candidato: aveva una gran voce con cui poteva replicare le parti da alto tenore di Anderson e conosceva a menadito i pezzi avendo passato anni a cantarli con una tribute band di Montreal chiamata Close to the Edge. Saliva sul palco senza troppe paranoie. «Non mi sono mai sentito come Cenerentola», spiega a Rolling Stone dalla sua casa a Montreal. «Mi sentivo a casa e sapevo che ero all’altezza».
David ha cantato con gli Yes per quattro anni, prendendo parte alle registrazioni dell’album Fly from Here del 2011, per poi lasciare il gruppo per via dei gravi problemi alla voce di cui ha iniziato a soffrire a causa dell’attività concertistica intensa. Negli ultimi dieci anni è sparito dai radar e lavora in un campo che non ha niente a che fare con l’ambiente della musica, di cui non sente minimamente la mancanza.
«La musica mi manca», precisa, «a non mancarmi è l’industria musicale. L’ho sempre odiata. Lì il talento diventa merce. L’industria musicale è tremenda. Quando canti per i fan, per lo meno canti per gente che s’interessa e apprezza la musica. Ma con quegli altri… e che cazzo, ti fanno sentire un bancomat».
David è cresciuto in un sobborgo di Montreal chiamato Brossard. In un certo senso, ha iniziato a esibirsi in pubblico alle medie, durante le pause pranzo, impressionando i compagni di classe con la sua estensione vocale e le sue imitazioni. «Qualcuno ha iniziato a chiedermi di cantare nella sua band. Facevamo i pezzi dei Black Sabbath, dei Rush. Ero abbastanza dotato. Stiamo parlando delle prime canzoni dei Rush, roba tipo The Temples of Syrinx che è in una tonalità altissima. E quando si andava al karaoke, cantavo pezzi interpretati da donne, tipo Gloria nella versione di Laura Branigan. Non l’ho mai trovato particolarmente difficile. Anzi, all’inizio pensavo che tutti fossero in grado di farlo. Non avevo capito che avevo qualcosa di speciale».
Dopo le superiori ha trovato lavoro presso un corriere. Nel tempo libero continuava a cantare in varie cover band. A 28 anni gli è stato proposto di entrare in una tribute band degli Yes. È stato l’inizio di un percorso l’ha portato a cantare con gli originali.
Quando hai ascoltato gli Yes per la prima volta?
Le radio di qui passavano sempre i loro grandi successi, ma non ci facevo granché caso. Solo quand’è uscita Owner of a Lonely Heart ho iniziato ad ascoltarli sul serio. Pezzi come Roundabout e Long Distance Runaround erano troppo astratti per me.
Perché il prog rock era così popolare a Montreal? So che gruppi come i Genesis avevano un seguito enorme lì.
Non so il motivo, forse siamo diversi. C’è una comunità francese, qui. Il contesto e la cultura sono differenti. Questa cosa si manifesta in vari modi, uno di questi è che ci piace musica differente rispetto ai nostri vicini.
I Musical Box ricreavano con cura certosina gli spettacoli dei Genesis, dai costumi alle luci era tutto identico. L’approccio dei Close to the Edge era diverso?
Massì, non c’importava granché di quelle cose. Non che avessimo grande successo, anche perché i Genesis a Montreal sono decisamente più popolari degli Yes. Non avevamo abbastanza seguito per fare le cose più in grande.
Tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 che facevi per campare?
Lavoravo sodo. Avevo una famiglia. Dei figli. Per guadagnarmi da vivere facevo il commesso in un negozio della catena Sears, vendevo elettrodomestici. Tiravo avanti così.
Come hai saputo che gli Yes erano in cerca di un nuovo cantante?
Loro dovevano suonare in questo grande festival a Quebec City, il Summer Festival. Roba grossa, ne parlavano tutti. Hanno dovuto cancellare la data perché Jon era malato. Non avevo neanche in programma di andare a vederli. A quel punto la gente ha iniziato a prendermi in giro: «Occhio che hanno bisogno di un cantante, vedi che ora chiamano te». Dai, era divertente. Poi, un bel pomeriggio di sole, stavo lavorando quando è squillato il telefono: era Chris Squire. Mi fa: «Immagino tu abbia sentito che il nostro cantante non sta bene. Lo prenderesti il suo posto?». Non me l’aspettavo.
Ti ha detto che il posto era tuo o voleva che ti presentassi per un’audizione?
Chris era uno molto diretto. Gli ho chiesto se dovevo fare un’audizione e lui ha risposto una cosa tipo: «Ho appena visto un tuo video. Sei perfetto. Ti ho telefonato giusto per vedere se eri un idiota. Mi sembri un tipo a posto, ti chiamerà il management».
E poi?
Il management m’ha contattato e abbiamo discusso dei dettagli. Quindi ho incontrato Steve [Howe]. Io e lui siamo stati un paio di giorni in una stanza d’albergo a provare. Quella è stata la mia vera audizione. Volevano sapere com’ero, se ero uno di quei tipi presuntuosi o uno con cui si lavora facilmente. Beh, lo ero.
Eri nervoso mentre cantavi con Steve in quell’hotel?
Zero. Ero molto sicuro delle mie capacità. Avevo una voce cristallina e un gran controllo. Ero al top.
E non eri preoccupato? Sono certo che per molti fan degli Yes l’idea di sostituire Jon fosse sacrilega.
La cosa non mi preoccupava. In fondo mi limitavo a cantare. Che poteva mai accadere? Mica stavo cercando di prendere il posto di nessuno. Cantavo e basta. Se qualcuno aveva qualcosa da ridire, non era affar mio.
In seguito Jon ha detto pubblicamente di non approvare che la band continuasse senza di lui. Questa cosa ha causato qualche tensione?
Anch’io ho avuto qualche screzio con gli Yes. Hanno un modo tutto loro di farti sentire a disagio, a volte. Però voglio credere che Jon pensi cose positive sul mio conto, ma qualunque cosa dica di me, non ci siamo mai incontrati. Non è affar mio, davvero. Mi limitavo a cantare. Mi ha scelto la band.
Il tuo primo tour con loro è partito il 4 novembre 2008 a Hamilton, Ontario. Com’è stato salire sul palco e attaccare con Siberian Khatru?
(Ride) Fammi ricordare… Credo che il secondo concerto sia stato più importante per me, quello che abbiamo fatto alla Massey Hall di Toronto. Il concerto a Hamilton è stato il primo, avevamo suonato le canzoni senza sosta per due settimane e ogni volta che avevo fatto un concerto tributo agli Yes, avevo iniziato con Siberian Khatru. Quante volte l’ho cantata… l’unico ad averla fatta più di me è Jon Anderson. Insomma, ero parecchio sicuro di me. Ovviamente ho provato una certa emozione. Invece alla Massey Hall c’era la mia famiglia. Ed è un luogo mitico. Siamo andati avanti per tre ore. Abbiamo suonato qualunque pezzo ti possa venire in mente.
I primi concerti avevano in scaletta molti brani che la band di solito non suonava, come Parallels, Astral Traveller e Onward.
Perché quando sono entrato nella band tutti erano entusiasti all’idea di suonare canzoni che Jon non voleva fare, tipo quelle di Drama e alcune vecchie. È stato piuttosto divertente. Mi è piaciuto. La band era elettrizzata perché suonava cose diverse dalle solite e anch’io lo ero. Ho fatto anche alcune proposte. Abbiamo suonato tantissime canzoni. All’inizio gli spettacoli duravano circa tre ore.
Raccontami come è stato conoscere Chris, Alan e Steve. Con chi hai legato di più?
Difficile dirlo. Credo di aver avuto bei momenti con ognuno di loro. Alan era dolcissimo, era impossibile litigare con lui. Oliver Wakeman, invece, era un amico. È un grande musicista e un ragazzo gentile e coi piedi per terra. Gli altri erano più grandi di me di una ventina d’anni o più. Facevano la vita delle rockstar da un po’, è una realtà diversa. Magari pensavano che fossi un po’ troppo diretto, ma sono fatto così, sono schietto.
Chris Squire era il più affascinante, ma accidenti se riusciva a essere fastidioso a volte. Ora che è mancato non voglio parlare male di lui. Diciamo che non aveva una personalità sempre facile da gestire. Mi ha detto cose tremende, ma anche alcune tra le belle che mi siano mai state dette.
Cosa ti ha detto di così terribile?
Dovevo cantare tantissimo e la voce si stancava. Una volta ho steccato una nota, alla fine di Heart of the Sunrise. Chris mi ha detto delle cose crudeli, da egocentrico. Non mi è piaciuto per nulla. Ma sapeva essere anche molto amichevole e presente, era un tipo affascinante.
Come viaggiavate?
Tutti insieme. Ma non passavo molto tempo con loro, fuori dal palco.
Leggevi le recensioni dei concerti? Andavi online a vedere le reazioni dei fan?
Mai. Non mi è mai interessato particolarmente. Certo, mi serviva sapere se avevo fatto qualcosa di sbagliato, ma avevo le mie fonti, non avevo bisogno di leggere le recensioni.
Parlami della lavorazione di Fly from Here. Ti è piaciuta l’esperienza?
Sì, certo. In realtà le cose sono partite diversamente. In origine c’è stato From a Page, l’album con quattro brani prodotto da Oliver e uscito poi nel 2019. Quello avrebbe dovuto essere il disco nuovo degli Yes nel 2010. È musica scritta prima che arrivasse Trevor Horn. Tutto è iniziato così, ma si è trasformato in Fly from Here nel bel mezzo di una session durante l’inverno del 2010. Avevamo lavorato per un paio di mesi con Oliver al Neptune Studio. I brani stavano prendendo forma. Quando siamo tornati in studio per continuare il lavoro, a febbraio del 2011, Oliver non era più della partita. C’era invece Trevor Horn che l’ha cacciato e ha chiamato [il tastierista degli Yes del periodo di Drama, nonché compare di band di Horn nei Buggles] Geoff Downs per realizzare Fly from Here così come lo avete ascoltato. Trevor mi ha fatto cantare meravigliosamente seguendo le sue linee vocali. Ha anche scritto parecchia musica, per cui in quell’album c’è molto di Trevor. So che poi ha reinciso il disco cantando lui i pezzi. Buon per lui. Era quello che voleva: che io cantassi seguendo la sua voce (ride).
Perché Oliver è stato cacciato?
Non ero presente, ma immagino che a Trevor non piacesse ciò che faceva. Chris chiamava Oliver “il catalizzatore”. Quando stavamo lavorando al disco, era lui a tenere insieme la band e a farla funzionare. Era attivissimo. Forse troppo per i gusti di Trevor, che voleva avere più controllo o almeno questa è la mia impressione.
Avresti desiderato contribuire di più alla scrittura dei brani di Fly from Here?
Onestamente, non ho mai sentito la necessità di scrivere. Cantare mi veniva naturale, non dovevo neppure pensarci, ma scrivere non faceva per me. Ho scritto un paio di cose per il disco, quelle sì. Ricordo che Chris mi ha detto di fumare dell’hashish e scrivere dei testi. Avrei potuto contribuire di più se avessi avuto talento nella scrittura.
Sei accreditato fra gli autori del brano Into the Storm.
Certo. La parte del bridge in 7/8 è mia.
Qualche anno fa ho parlato con Rick Wakeman. Stando a quel che dice, durante il suo ultimo tour, nel 2004, alcuni membri della band bevevano e la cosa ha avuto ripercussioni sulla qualità dello show. Tu hai avuto questa sensazione?
Be’… um… sì. Ma ci sono vari fattori in gioco. A volte è l’alcol, a volte altre cose. Può capitare di non essere in forma per via di quello stile di vita, con un concerto dopo l’altro, i viaggi e tutto il resto. Alcuni di loro non sono esattamente dei lavoratori indefessi. Suonano le stesse canzoni da anni e anni, non hanno molta voglia di provare quando non sono in tour.
Parli di Alan e Chris?
Non voglio fare nomi. Devo essere molto cauto, non voglio farmi odiare. Ero nella band, quindi ho visto delle cose, ovviamente. Ma davvero la gente vuole sentire parlare di questa roba?
Hai fatto 72 concerti nel 2011. Un’agenda fittissima. È stato durante quel tour che la tua voce ha iniziato a cedere?
Sì. Durante il tour con gli Styx è successo qualcosa alla voce.
Ed è allora che Chris ti ha bacchettato?
Sì. Quello è stato il momento di rottura.
Deve essere stato molto stressante salire sul palco ogni sera sapendo che non potevi fare affidamento sulla tua voce come prima.
Una delle sensazioni più brutte, nella vita, è l’inadeguatezza. Non mi piaceva per niente. In più non percepivo molta empatia nei miei confronti, in quel momento di difficoltà. Mi dicevano solo: «Sistema questa cosa, forza!». Non è mai un buon approccio.
La cosa da sistemare era la tua voce. Ma non si possono sostituire le corde vocali come si cambiano le corde di una chitarra.
Già. Chris me l’ha detto davvero una sera, sul finale di Heart of the Sunrise… ho steccato la nota alta in chiusura, ma il resto della canzone era andato bene. Subito dopo abbiamo suonato I’ve Seen All Good People, in cui ogni musicista fa un piccolo assolo, uno dopo l’altro. A quel punto Chris mi ha fissato e ha tirato fuori di proposito un suono orribile dal basso. Mi ha guardato negli occhi e ha detto: «Faccio come fai tu». Mi ha ferito e fa ancora male. A quel punto mi sono infuriato. Gli ho dato addosso di brutto. Non l’avevo mai fatto con nessuno e non l’ho mai più fatto da allora. Lui mi diceva: «Riprenditi, amico. Così mi rovinerai la carriera!». Da quel momento ho iniziato a capire come funzionavano le cose. E qualcosa, dentro di me, si è rotto.
Che concerto era?
Era una data con gli Styx, un abbinamento perfetto. Loro hanno suonato per primi. Eravamo arrivati in auto da New York. Era estate, in un posto sulla spiaggia… Jones Beach. Un bellissimo posto all’aperto, sul mare.
Il tuo ultimo concerto è stato il 9 dicembre di quello stesso anno, a Stoccolma. Hai qualche ricordo?
Non ho un bel ricordo. Non ho cantato bene e neanche so perché. Non capivo cosa stava succedendo, se non che mi dovevo sforzare moltissimo per cantare. Continuavo a dire agli altri che il volume sul palco era troppo alto. Le condizioni erano pessime. Loro di solito non muovevano un dito, ma quella sera hanno provato a fare qualcosa per aiutarmi. Per questo ho provato imbarazzo. Ed è il motivo per cui ho deciso di andarmene, alla fine di quel concerto.
E le date successive sono state cancellate.
Esattamente. Non volevo rovinare la carriera di nessuno.
Hai lasciato tu la band?
Sì, me ne sono andato io. Non riuscivo a cantare. Sono anche andato da un medico. Mi ha detto: «C’è qualcosa che non va. Dobbiamo indagare a fondo. Non puoi continuare a cantare, rischi di peggiorare le cose». Perciò abbiamo deciso di chiudere lì il tour.
Come hai comunicato agli altri che te ne andavi?
Ho radunato tutti e ho detto loro che cantare era sempre più difficile e che per proteggere la reputazione della band la cosa migliore era che smettessi.
Non pensi che, se ti fossi preso una pausa di sei mesi avresti potuto tornare?
In quel momento volevo chiudere. Sarò onesto con te. È vero che stiamo parlando di musica, ma in quel periodo avevo un figlio quattordicenne che stava facendo impazzire la madre. Dovevo tornare a casa e gestire la situazione. Avevo due figli adolescenti che avevano bisogno di me. E anch’io, credo, avevo bisogno di loro.
Hai mai più parlato con Chris, Alan o Steve?
No. Avrei potuto chiamarli, avevamo i rispettivi numeri di telefono. Se avessi avuto qualcosa di importante da discutere con loro, non avrei avuto problemi a chiamarli. Mi sono tenuto in contatto con Oliver, però. È un amico. Avevamo un rapporto più stretto.
Come ti sei sentito quando Chris e Alan sono morti?
Triste, ovviamente. Avevano qualcosa di magico. E quando una persona muore, restano solo le cose buone, ti ricordi solo di quelle.
Speri di parlare ancora con Steve, in futuro?
Succederà se avremo qualcosa da dirci. Non avrei nessun problema a chiamarlo. È sempre stato facile parlare con lui.
Hai ascoltato il loro nuovo cantante, Jon Davison?
Sì e penso che sia perfetto. Non ho sentito tantissimo, ma un po’ di cose sì. Credo che stia facendo un bel lavoro. Non mi stupisce che, quando io non sono più stato in grado di cantare, lui fosse lì, pronto a subentrare. Era la persona giusta.
Cosa hai fatto quando hai mollato la band e sei tornato a casa?
Ho ricominciato a lavorare nell’attività che avevo messo in piedi prima di iniziare coi tour. Piano piano mi sono allontanato dai miei progetti musicali nei due anni successivi, per far riposare la voce e prendermi un po’ di tempo per ritrovarmi.
Ora lavori in una ditta che si chiama Vinyle Pro. Dimmi qualcosa di più.
Vado nei porticcioli, nei garage, ovunque a sistemare rivestimenti in cuoio, in vinile e in tessuto; riparo le bruciature di sigaretta e rimedio ai piccoli danni di quel tipo.
Se in radio passano Roundabout o I’ve Seen All Good People, le ascolti o cambi stazione?
Per un po’ di tempo ho cambiato stazione, ora invece le ascolto e me le godo. È musica grandissima. Sono contento di avere imparato così tanto, grazie a questi pezzi. Ora ne comprendo la complessità.
Pensi che canterai ancora un brano degli Yes su un palco?
Non credo proprio. È da più di 11 anni che non sono più negli Yes. Incontro spessissimo persone che vogliono parlare di questa cosa. Quando faccio una jam con gli amici c’è sempre qualcuno che accenna a un riff degli Yes. Ma non gli do mai corda. Sono me stesso. Mi chiamo Benoît David. Ecco chi sono. Voglio essere conosciuto per i miei talenti, la mia personalità e ciò che ho da offrire. Non voglio imitare nessuno e nessuno dovrebbe cercare di imitare me.
Direi che è tutto. Grazie per la chiacchierata e per la franchezza.
Le cose sono andate così. Ora sai tutto. Mi hai fatto le domande giuste e ora sai tutta la storia. Spero che nessuno si offenda, ma è così che è andata.
Da Rolling Stone US.