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Bernie Leadon: «Gram Parsons è diventato un tossico quando ha conosciuto gli Stones»

«Cercava di stare al passo con Keith Richards», spiega il chitarrista, che parla anche della docuserie sulla scena di Laurel Canyon e spiega che senza Glenn Fley probabilmente non lo rivedremo più suonare con gli Eagles

Foto: Harvey L. Silver/Corbis via Getty Images

Per Bernie Leadon è facile mantenere la distanza: vive in una fattoria vicino a Nashville. «Sono più di 3 mila ettari, posso passeggiare senza incontrare nessuno. In pratica, vivo in un parco. Sono fortunato». L’ex chitarrista degli Eagles è tra i protagonisti della nuova docuserie Laurel Canyon, in arrivo negli Stati Uniti tra il 31 maggio e il 7 giugno.

Alison Ellwood, regista della docuserie, ha già lavorato al documentario History of the Eagles, ma in Laurel Canyon mostra la tua carriera da un punto di vista più ampio. Come ti fa sentire?
Beh, posso chiederti, prima di iniziare, più o meno quanti anni hai?

Ho quasi 30 anni. 

Ok. Ti spiego il mio punto di vista. Quando avevo 20 anni, la gente che parlava di quello che era successo 50 anni prima si riferiva alla Prima guerra mondiale. Adesso è il Vietnam. Faccio fatica a credere che siano passati 50 anni. E c’è un’altra cosa: non mi sono ancora ritirato, ho avuto una carriera lunga, ma non sono morto. Scrivo ancora canzoni.

Se quando avevi 30 anni qualcuno ti avesse detto che nel 2020 ci sarebbero stati non uno, ma due documentari sulla tua vita musicale, cosa avresti detto?
Wow, fantastico! (Ride) Direi che mi è andata bene.

Nel documentario appare una fotografia scattata da Henry Diltz: ci sei tu di fronte a Los Angeles nel 1979. Cosa ti ricordi di quel momento?
Volevo usarla per un album che non è mai esistito. È uno scatto in posa, volevamo inquadrare il paesaggio nel modo giusto. Abbiamo guardato alle luci della città da diversi punti delle Santa Monica Mountains, e abbiamo capito che dovevamo avvicinarci molto. Siamo andati a Hollywood e abbiamo trovato quel posto.

Poi, e questo è un dettaglio interessante, abbiamo scattato in timelapse, così da avere sia le luci della città che il mio profilo. Henry era il fotografo e Gary Burden il direttore della fotografia. Era nascosto nei cespugli sotto di me con una torcia. L’otturatore sarà rimasto aperto per un paio di secondi: Gary mi illuminava il volto con la torcia, mentre l’otturatore era ancora aperto. Un bell’effetto.

Foto: Henry Diltz

Il documentario dedica molto spazio a Gram Parsons, una figura mitica della scena di cui facevi parte. Com’era di persona? 

Morire giovane è un buon modo per passare alla storia,  perché resti congelato nel tempo. Puoi diventare un’icona mentre i tuoi colleghi sono ancora al lavoro. Gram era un ragazzo fantastico, soprattutto la prima volta che l’ho incontrato. Conoscevo Chris Hillman, siamo entrambi cresciuti a San Diego, e lui suonava con Parsons nei Flying Burrito Brothers, che a loro volta erano nella stessa etichetta di Dillard & Clark, in cui suonavo io. Dopo il primo album dei Burritos, il bassista ha lasciato il gruppo e mi sono proposto. Non conoscevo davvero Gram, ma ho avuto il posto. Avevo 23 anni e lui era più o meno mio coetaneo. Chris ne aveva 24, forse 25. Eravamo parecchio giovani, e nessuno di noi si era ancora autodistrutto, soprattutto fisicamente.

Gram aveva spirito di gruppo, era divertente. Eravamo davvero giovani e non pensavamo che qualcuno di noi era alcolista o tossico, anche se tutti bevevano e si drogavano. Ci sono persone che tendono a superare i limiti. Tutti bevevamo un paio di birre e fumavamo una canna, ma Gram andava oltre.

Nel 1970 abbiamo registrato Burrito Deluxe, il secondo album dei Burrito. Poi i Rolling Stones sono arrivati a Los Angeles e Gram ha iniziato a stare con loro. Cercava di stare al passo di Keith Richards, ma non ci riusciva. È cambiato, è diventato più simile a un tossico che al ragazzo giovane e divertente che conoscevo. Nell’anno e mezzo in cui ho lavorato con lui la sua personalità è cambiata molto. È una storia drammatica, perché è morto a 26 anni.

Sei tornato negli Eagles nel 2013. Com’è stato suonare di nuovo con il gruppo dopo così tanto tempo?
Beh, le canzoni erano più o meno le stesse, non avevano cambiato le mie parti. Sono tornato e ho ricominciato a occuparmi delle intro e degli assolo dei miei pezzi. È stato interessante. Avevo già visto i ragazzi nel corso degli anni, e ogni tanto siamo tornati a lavorare insieme.

Sul palco era tutto molto naturale. La struttura dello show mi piaceva molto: all’inizio Don e Glenn cantavano un valzer acustico (Saturday Night), poi arrivavo anche io e suonavamo un pezzo in tre (Train Leaves Here This Morning), poi Peaceful Easy Feeling con Tim Schmidt al basso. Alla fine arrivava Walsh e facevamo Witchy Woman, ma eravamo tutti seduti sugli amplificatori al centro del palco, senza musicisti di supporto. Era la mia parte preferita, perché ricreava il suono che avevamo all’inizio.

Siamo stati un quartetto per i primi tre anni della band, poi è arrivato Don Felder, siamo diventati un quintetto e la musica è cambiata. Ma le prime cose erano molto folk, con la voce al centro e qualche influenza country, rock e r&b. Era un suono aperto, sempre registrato dal vivo. In fondo eravamo solo dei tizi che suonavano e cantavano insieme. Quello era il suono originale degli Eagles e siamo riusciti a replicarlo tutte le sere per quattro o cinque canzoni. È stato davvero bello sentire le nostre voci accompagnate solo dalle chitarre acustiche. Poi, per il resto del concerto, suonavamo con il resto della backing band. C’erano cinque persone: un altro batterista, così che Don Henley potesse venire al centro del palco, un organista, un pianista e un percussionista.

Il suono è diventato più grande, adatto alle arene. C’era bisogno di un suono più potente per reggere gli show, ed è questo che hanno fatto gli Eagles dopo la mia partenza. I concerti sono diventati enormi, con centinaia di tecnici, vari bus e un aeroplano. Era enorme, sì. Era diventata una cosa davvero grossa.

Sono andata a uno show degli Eagles subito prima dell’inizio della pandemia e mi ha scioccato vedere quante persone ci fossero sul palco.
Non ho più visto lo show. Pensavo che Deacon Frey avesse fatto un gran lavoro per Peaceful Easy Feeling. L’abbiamo suonata alla serata tributo per Glenn. Credo che sia un bravo cantante e fa quei pezzi molto bene. E conosco anche la figlia di Vince Gill, anche lui è un amico. Vive a Nashville. È un musicista fantastico, un cantante fantastico, lo rispetto molto. Sono sicuro che sta facendo un grande lavoro.

Ti piacerebbe tornare a suonare con loro? 

Mai dire mai, giusto? Dopo l’ultimo show del tour a cui ho partecipato, Glenn Frey mi ha abbracciato e mi ha detto: «Non è finita». Ho risposto. «Ok, fico. Parliamone». Ma Glenn non c’è più, quindi non può succedere. Onestamente, se capiterà sarà solo per un’occasione speciale, cose del genere. Non credo che succederà, ma mai dire mai. Sono in buoni rapporti con tutti, e non ci sono impedimenti. Ma non credo.

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