«The South got something to say»: ai Source Awards del 1995, gli Outkast avevano accettato così il premio al “migliore nuovo gruppo hip hop,” in mezzo ai fischi dei colleghi. Era l’apice della guerra tra hip hop dell’Ovest e dell’Est, tra Tupac e Notorious B.I.G. Non c’era spazio per due rapper della Georgia: i fischi erano il modo di farglielo sapere. E loro avevano risposto in questo modo: anche il sud ha qualcosa da dire.
Da allora, la scena è cambiata radicalmente, e gli occhi di tutti si sono spostati sul Sud degli Stati Uniti. Pensate a Ludacris, a Gucci Mane, al successo della serie Atlanta, che parla esattamente di questa scena. 1/2 degli Outkast, al suo settimo Grammy, Big Boi è il centro di gravità dell’hip hop del Sud, nonché uno dei suoi fondatori indiscussi. Dal 1995 ha fatto un po’ di tutto, da progetti pervasi di soul nostalgico, a featuring con artisti indie, a videogiochi. Boomiverse, il suo terzo LP solista, è la dimostrazione della sua versatilità e di come non si senta in dovere di dimostrare più niente a nessuno. Se non a se stesso.
Una mattina ti svegli e decidi di fare Boomiverse. Cosa ha preceduto questa decisione, e che processo intraprendi per completare un progetto?
Non smetto mai di fare album. Ogni volta che finisco un disco comincio subito il successivo, poi vado in tour, poi torno a registrare. Ho iniziato Boomiverse appena ho finito il mio ultimo EP coi Big Grams (il suo progetto con il duo Phantogram, nda). Quindi sono andato in tour coi Big Grams, e poi sono tornato a lavorare a Boomiverse: l’ho consegnato da poco, e sono già pronto a lavorare sul prossimo disco. Non smetto mai. Ventitré anni e neanche una pausa. Adesso ho uno studio tutto mio, quindi posso registrare 24 ore al giorno. Non c’è mai carenza di musica. Mai.
In questo processo continuo, le idee si aggiungono col passare del tempo?
Esatto. Parto con una collezione di canzoni, ma aggiungo di volta in volta. Lavoro su tutti i pezzi contemporaneamente. Magari scrivo una strofa di un pezzo come Mic Jack, poi passo al ritornello di Kill Jill, poi lascio tutto lì e mi metto a lavorare su un altro disco. È come costruirsi una casa in fasi alterne. E ogni volta che ritorni su un pezzo dopo un po’, è diverso, hai presente? Ci ripensi e dici: “Qui serve una chitarra, o un piano, o uno xilofono, o una tuba!”.
Qual è il concept dietro al titolo?
Boomiverse si basa sul Big Boom, che è un po’ come la teoria del Big Bang: ricominciare da zero. È tempo di un cambiamento culturale, voglio far musica che non sia come quella che c’è in radio, ma voglio anche rimanere fedele alle radici degli Outkast, al fatto che abbiamo sempre cercato di fare qualcosa di nostro. Ogni canzone di Boomiverse è diversa, e ne sono orgoglioso. Sono orgoglioso di scrivere rime, di fare l’MC. E quindi cerco sempre di migliorare.
Quando cerchi di non ripeterti, come ti assicuri che l’album sia comunque coerente? Cos’è che mette il sigillo “Big Boi” sui tuoi lavori?
Ah, è un antico segreto cinese (Ride). No, è tutta questione di feeling. Può essere un suono, o un elemento particolare che tiene insieme il tutto. È un dono che ti arriva inconsciamente a un certo punto del lavoro: tutti gli elementi iniziano a marinarsi insieme, e capisci che l’album ha preso forma. Allora sai che sei sulla buona strada.
Hai registrato dei brani a Los Angeles. Il cambio di aria ha influenzato il tuo sound?
Certamente. Ad Atlanta sono sempre nel mio studio, e andare dove il clima è diverso, l’atmosfera è diversa, l’erba è diversa, ci ha permesso di movimentare un po’ l’album. Quando tornavo a casa, la musica aveva un suono diverso.
A proposito di atmosfera, l’album è pieno di tracce ballabilissime. In questo momento storico, pensi sia importante dare agli ascoltatori una fuga dalla realtà, anziché un chiaro messaggio politico?
Nell’album parliamo delle violenze della polizia. Ma, soprattutto in questo periodo, con tutta questa merda politica che ti segue ovunque tu vada, quando uno vuole ascoltare musica cerca anche una valvola di sfogo. Noi abbiamo cercato di offrirla. Allo stesso tempo, però, non volevamo starcene zitti, e abbiamo disseminato il disco di piccoli messaggi che facciano pensare.
In Get Wit It, la tua collaborazione con Snoop Dogg, parli di responsabilità familiari. Che influenza ha la famiglia sul tuo lavoro?
Dà senso e stabilità alla mia vita. Io sono padre, marito e figlio, in più ho un’enorme famiglia allargata… E poi c’è la mia Dungeon Family: i miei amici, una specie di famiglia anche loro. Domani torno in America, ma prima di andare a Los Angeles per The Voice, mi fermo ad Atlanta per portare mia mamma a cena fuori. In questo momento lei è a casa mia a tenere i miei figli e a dar da mangiare ai miei pesci. È un angolo di quiete in tutto il rumore che è l’industria della musica. Torno a casa e ridivento Antwan.
Un pezzo del disco si intitola In the South. Nel 2017, che cosa ha da dire il Sud?
Il Sud dice: “Siamo qui e ci rimaniamo”. È stata una lunga strada, quella che ci ha portato qui. Ai Source Awards ci fischiavano, non ci accettavano. E ai tempi eravamo MC affamati, e quell’episodio ha reso anche peggiore il torto di chi ci fischiava: perché così ci hanno fatto tirar fuori le unghie.
Dici che il Big Boom equivale a tirare una linea netta e cominciare da zero. C’è qualche elemento che ti piacerebbe l’hip hop commerciale si lasciasse alle spalle?
Sono un grande sostenitore del “Tu sii pure te stesso, ché io sono me stesso”. E io faccio il meglio che posso per essere me stesso. Vado ai festival rock, vado in tour, vado al cinema e in tv. Gli altri facciano quello che gli pare. Il Big Boom è l’inizio di qualcosa di nuovo, e la gente vuole roba nuova. Non vogliono sentire gli stessi beat, gli stessi rullanti. E in questo motherfucker abbiamo messo proprio tutto.
Hai parlato di cinema, e oltre a quello ci sono i videogiochi. Esiste un campo che non hai ancora sperimentato?
Guarda, le ho fatte tutte. In futuro farò più film, più tv. A casa ho una pila di copioni, e un paio di film su cui io e Brian Barber lavoriamo da anni. C’è una serie animata per cui ho appena firmato il contratto che si intitola Hotlanta Waxxx. Con tre “x”. È una roba pazzesca quella serie, e ne firmo anche la musica. È una roba folle. È quello il prossimo passo. Più film, più tv, ma la musica sarà sempre incorporata. Perché dopotutto, è quello il mio campo, no?
Pensi di aver ancora qualcosa da dimostrare?
Assolutamente no. Ho fatto di tutto. Siamo stati in cima alle classifiche, abbiamo ricevuto i maggiori riconoscimenti: Grammy, BET awards, World Music Awards. Non ho nulla da dimostrare. L’unica cosa che devo fare, ora, è dimostrare a me stesso di poter continuare a farlo. Ma non c’è competizione. Zero. L’unica competizione è con me stesso.
È il 2017 ed esplode il “Big Boom”. In che tipo di universo abiterà Big Boi tra cinque anni?
Oh, mamma! È entusiasmante proprio perché non ne ho idea. Non lo sai finché non ti ci trovi dentro. È andata così anche con questo album: quando le idee hanno iniziato ad andare tutte al proprio posto, ho detto “Ah, cazzo, mi sa che ne uscirà qualcosa di grosso”. E poi è diventato un album. Ho un piano quinquennale, ma i miei piani vanno sempre a farsi fottere, ed è meglio così. Finché la musica va così bene, finché migliora ogni volta, continuerò a farla. Questo non è che un inizio.