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Bill Bruford: la mia vita negli Yes

Il batterista racconta le session di ‘Close to the Edge’: il caos creativo, il viavai di musicisti, le bobine buttate via dalla donna delle pulizie. Ma anche la rottura con la band, l’avversione per i concerti negli stadi, la decisione di smettere e poi ricominciare, il rock geriatrico

Foto: Watal Asanuma/Shinko Music/Getty Images

Per molti, gli Yes, i Genesis e i King Crimson rappresentano la Trinità del prog. C’è un musicista che ha così tanto talento da aver fatto parte di tutti e tre i gruppi. È il batterista Bill Bruford, che è riuscito nell’impresa tra il 1972 e il 1976. «Sono anche quello che ha mollato tutte e tre le band», dice sorridendo su Zoom, in collegamento dalla sua casa nel Surrey. «Sono famoso per questo fatto qui, che lascio i gruppi».

S’è parlato di Bruford anche per la decisione di mollare del tutto la musica. Nel 2009 ha smesso di suonare la batteria anche solo per divertimento e ha venduto la sua attrezzatura pensando che non si sarebbe mai più esibito. Quando lo abbiamo intervistato nel 2019, si era ritirato da una decina d’anni e pensava che le cose non sarebbero cambiate. «Non ho più l’entusiasmo che ci vuole per suonare», diceva. «Ci sono altre cose che voglio fare: scrivere libri, stare coi nipoti, cose così».

E invece tre anni dopo Bruford ci ha ripensato e ha cominciato a esibirsi in giro per l’Inghilterra col trio jazz di Pete Roth in un contesto radicalmente diverso dai concerti enormi fatti con gli Yes, i Genesis e i King Crimson. È proprio questo il punto: Bruford non si è mai trovato a suo agio negli stadi e ha sempre preferito il circuito del jazz, anche se significava guadagnare molti meno soldi.

La prima volta in cui ha seguito il cuore e non il portafoglio è stata quando ha lasciato gli Yes. È successo poco dopo aver chiuso il capolavoro del 1972 Close to the Edge, con un tour mondiale che stava per iniziare. Siccome il 7 marzo uscirà una super deluxe edition di Close to the Edge, abbiamo pensato che fosse un buon momento per tornare a parlare con Bruford. Ci ha spiegato tra le altre cose che cosa l’ha spinto a tornare sulle scene a 75 anni d’età.

Iniziamo dalle origini degli Yes. Quando hai capito che la band aveva qualcosa di nuovo, di diverso?
Domanda difficilissima. Non è che un musicista si sveglia la mattina e capisce una cosa del genere. Tieni presente che sono stato nella band per circa quattro anni, dal 1968 al 1972. E per i primi tre eravamo messi malissimo dal punto di vista finanziario. Campavamo a stento, non so come la band sia riuscita a resistere. Poi il nostro manager ha parlato con Richard Branson, che gestiva l’unica classifica del Paese. Se entravi nella classifica di Richard Branson, eri ipso facto nella Top 20 e noi ci siamo riusciti. E una volta che eri nella Top 20, era fatta.

Eravate esordienti eppure siete riusciti ad aprire il concerto di addio dei Cream alla Royal Albert Hall. Com’è stato?
Spaventoso. Avevo una batteria minuscola rispetto a quella di Ginger Baker. Lui era una specie di gigante, mi era sempre piaciuto, sono cresciuto ascoltandolo. Verso i 15 o 16 anni andavo nei jazz club di Londra: non c’erano divieti per i minori in quei posti. Lui avrà avuto più o meno 22 anni e per me, che ero un ragazzino sudato in mezzo al pubblico, era un vecchio. Mi ha molto influenzato e quindi mi metteva un po’ in soggezione l’idea di suonare alla Albert Hall. Detto questo, siamo rimasti belli calmi. Ma mi è caduta una bacchetta durante un assolo. C’è stata un’introduzione in pompa magna con Something’s Coming da West Side Story, io avrei dovuto suonare qualcosa dopo una pausa, ma tutto quello che si è sentito è stato il rumore della bacchetta che cadeva. Credo che, da allora, non me ne sia mai più caduta una.

Cosa hai imparato sulla creazione di musica in studio registrando il primo album degli Yes?
Praticamente tutto. Non è stato facile. Quando sei in studio puoi sentire in cuffia gli strumenti che vuoi, ma io non l’ho saputo fino alla fine delle session e quindi ho suonato tutto il primo album con una chitarra assordante in un orecchio e del riverbero nell’altro. Terribile. Ma sono uno che impara in fretta, è andata bene.

In che modo l’arrivo di Steve Howe ha cambiato il vostro modo di scrivere?
Ha ampliato la tavolozza. Guardando indietro, ovviamente, sembra tutto chiaro e semplice, ma all’epoca mi concentravo sulla batteria e basta. Steve però aveva una tavolozza di colori più varia rispetto a Peter Banks, che era molto energico e divertente, più influenzato da Pete Townshend. E poi Steve suonava cose diverse come il sitar e certi strumenti portoghesi. È stato allora che è iniziato il viavai di musicisti: «Abbiamo conosciuto questo Steve, non abbiamo più bisogno di Pete». La stessa cosa è successa in seguito con Rick Wakeman e Tony Kaye, anche Rick portava una tavolozza di suoni più ampia. Abbiamo sostituito Tony perché era un organista in senso stretto e noi ci stavamo invece trasformando in una piccola orchestra sinfonica.

Pezzi dello Yes Album come Starship Trooper e Yours Is No Disgrace hanno segnato una bella evoluzione per la band. Sono sicuro che lo sentivi, all’epoca.
Non ricordo di preciso cosa pensavo. I giorni passavano velocemente e io semplicemente ero felice che il gruppo fosse ancora in piedi. Nella band c’erano discussioni piuttosto animate su chi avrebbe dovuto o non dovuto farne parte. Magari nel giro di poco tempo si sarebbero sbarazzati pure di me, chi lo sa. Probabilmente me ne sono andato prima che mi cacciassero.

Com’è stato andarea suonare per la prima volta negli Stati Uniti?
Meraviglioso, perché nel Regno Unito ci eravamo bloccati. Il Regno Unito è così piccolo che dopo un paio d’anni inizi a morire di noia e il pubblico muore di noia con te. Devi cercare nuovi spazi per respirare. L’America era il posto giusto, ma nessuno di noi sapeva come arrivarci. La Atlantic di New York non aveva idea di che roba fossimo, credo ci considerassero un gruppo folk, ma se non altro abbiamo avuto tutto il tempo per evolverci, non abbiamo avuto pressioni del tipo: o sfondate con quest’album o siete finiti. Abbiamo tenuto duro fino a quando siamo andati negli Stati Uniti ad aprire per i Jethro Tull.

Cosa vi prefiggevate quando avete iniziato a lavorare a Close to the Edge?
Uno dei primi obiettivi era prenderci più tempo di quello che si prendevano Simon & Garfunkel. Sai, loro avevano fatto Bridge Over Troubled Water impiegandoci tre mesi, un’enormità. Ci sembrava una cosa favolosa, quindi volevamo metterci almeno tre mesi e un paio di giorni, per battere il loro record. E poi, senza dirlo apertamente, tutti sapevamo di avere trovato la formula giusta con Heart of the Sunrise, in Fragile. Ci dicevamo: se riuscissimo in qualche modo ad ampliare quel discorso…

In Close to the Edge non ci sono gli intermezzi strumentali di Fragile. Sono solo tre pezzi. È una dichiarazione d’intenti.
Gli intermezzi non erano del tutto voluti, li abbiamo messi per disperazione. Non avevamo materiale a sufficienza. Questa storia è stata fraintesa. La mia idea era questa: siamo una grande band, se ognuno di noi usa gli altri musicisti per suonare quel che vuole, in qualsiasi stile, alla fine avremo cinque pezzi. Ma alla fine sono stato l’unico a farlo o quasi. Forse Jon ha usato tutti per We Have Heaven, ma in pratica Rick ha fatto un assolo, Steve e Chris pure. Non è andata come pensavo, ma abbiamo comunque riempito un album. Eravamo a corto di materiale.

Avete sentito della pressione lavorando a Close to the Edge, visto che Roundabout era stata una hit?
No, o almeno non io personalmente. Nessuna sensazione tipo «o la va o la spacca». Volevamo fare qualcosa di rivoluzionario, guidati da Jon Anderson che era molto ambizioso. Io gli andavo dietro ed ero entusiasta. Ma, come si suol dire, sono solo il batterista. Magari ti sembrerà strano, perché ero dentro fino al collo in questa faccenda prog di Close to the Edge, ma sono cresciuto col jazz. Mi piacevano lo strumento in sé, non importa se era per farci rock o jazz, mi basta poter suonare qualcosa che diverta me e, spero, anche voi.

Stando a ciò che ho letto, avete passato tanto tempo in studio per registrare Close to the Edge. È stato stressante?
Eh sì, ci siamo stati tantissimo. Registravamo, poi caricavamo l’attrezzatura, ci mettevamo per strada per andare a fare una data. Tornavamo, scaricavamo, rimontavamo tutto e chiaramente ottenevamo un suono leggermente diverso, perché era tutto cambiato, e ricominciavamo a registrare, che ne so, dalla metà di Siberian Khatru. Eravamo giovani e pieni di energia. Non capivo cosa andava bene e cosa no. Non avevo mai fatto parte di una band, non mi lamentavo. Forse pensavamo che fosse fantastico, ma non bisogna mai fidarsi di quello che un musicista ti dice a proposito di come si sente mentre registra un certo pezzo, perché la percezione di un musicista cambia in continuazione. Certo ripensandoci ora mi rendo conto che è stato tutto molto bello.

Cosa ricordi del procedimento usato per assemblare tutte le parti della title track?
Abbiamo fatto un sacco di edit. C’era un nastro da due pollici che girava e noi giù a fare modifiche. Il produttore Eddy Offord, o Edit Offered come è stato soprannominato, tagliava continuamente il nastro da due pollici cercando di attaccare varie sezioni di otto battute l’una. A volte andava bene, altre volte era una merda, ma in qualche modo siamo riusciti a finirla.

È incredibile che ci siano così tanti tagli, visto che il risultato è bello compatto.
Non c’era una figura unica a supervisionare il lavoro. Magari qualcuno proponeva di provare una cosa e gli altri si accodavano. Poteva veniva fuori bene, ma non è detto. A quel punto avevamo fatto le 4 del mattino ed eravamo tutti esausti, ma in qualche modo ce l’abbiamo fatta.

Cosa pensi dei testi di Jon? Ti sei mai chiesto che diavolo è un Siberian Khatru?
Sì, ma ho deciso quasi subito che non mi importava granché dei testi, a patto che abbiano un bel suono e il giusto ritmo. Sono entrambe cose molto importanti per me. Ma non ci ho mai messo bocca, non ho mai chiesto di cosa parlavano i pezzi, non ho bisogno che ci sia un argomento preciso. Come batterista, ho bisogno di ritmo e di un cantante che tenga bene il tempo. Mi piace il suono delle parole. Quindi non so cosa sia un khatru siberiano, ma so che suona bene.

Ho letto che per errore avete buttato via alcuni master durante la registrazione. Cosa è successo?
Dovevamo andarcene dallo studio verso l’alba, ogni giorno, prima che arrivasse la donna delle pulizie, in modo che potessero riaprire alle 9 del mattino o quel che era. Un giorno lei è arrivata e nel ripulire tutto ha gettato via anche delle bobine che, a quanto pare, erano piuttosto importanti. Credo che Eddy Offord le avesse lasciate sulla scrivania pensando che non le avrebbe toccate, ma lei ha pensato che fosse spazzatura e le ha buttate. Siamo andati a rovistare tra i bidoni dell’immondizia e abbiamo trovato delle bobine. Eddy ha caricato il nastro sul macchinario: se non avesse funzionato sarebbe stato un casino… ma è andata bene. E credo che quella roba sia anche finita sull’album. È una storia fantastica. La donna delle pulizie è stata fondamentale.

È stato durante la lavorazione del disco che hai iniziato a pensare di lasciare la band?
Non so quando sia nata esattamente l’idea. Da un po’ suonavo con Robert Fripp, eravamo stati in tour insieme, mi pare prima di Close to the Edge o forse subito dopo. In un certo senso gli ho fatto capire che avrei voluto far parte dei King Crimson. E ai tempi Close to the Edge ho capito che era arrivato il momento di cambiare aria.

Perché?
Perché non potevo fare di più, nella band. Avevo dato il massimo. Mi sarei semplicemente ripetuto, solo che la volta dopo il risultato non sarebbe stato altrettanto buono e io non ho pazienza per questo genere di cose. Ripetermi non è la ragione per cui mi pagano. Un musicista ha l’obbligo di lavorare sempre al massimo delle sue possibilità. Non mi va ti ritrovarmi a fare la stessa cosa tutte le sere, che è il mio problema coi tour negli stadi. Preferisco suonare con gente nuova, materiale nuovo, problemi nuovi. Così mi è venuta l’irrefrenabile voglia di togliermi di mezzo. Per una fortunata coincidenza nei paraggi verso la fine dell’album c’era Alan White, un amico di Eddy Offord. Forse è venuto all’ascolto finale del disco. Non avevo mai pensato che potesse essere lui il nuovo batterista, ma aveva senso. Ne sono stato felice e credo che anche lui lo fosse.

Steve ha detto che il tuo abbandono l’ha sconvolto. Te lo ricordi?
Che Dio lo benedica. Anche Jon la pensava così. E io pure. È stato difficile lasciare un ambiente così creativo, ma era anche molto frenetico, molto teso: discussioni, discussioni e ancora discussioni. Non dimenticare che avevo suonato in un solo gruppo, fino a quel momento. Avevo visto soltanto queste persone nel corso di tutta la mia carriera musicale che era durata quattro o cinque anni. Avevo lavorato solo con loro, ma bisogna cambiare e Close to the Edge era il momento giusto per farlo. Poi è uscito fuori che c’era di mezzo un tour visto che la band stava diventando famosa. Io non ne sapevo niente, nessuno mi aveva chiesto nulla. Quando ho detto che me ne andavo, mi hanno risposto che dopo una settimana sarebbe iniziato il tour. Non ho sentito il bisogno di scusarmi. Sapevo di aver dato il meglio e di avere ancora molto da dare, ma non in quella band.

I King Crimson sono stati un’esperienza più appagante?
Sono stati un’altra esperienza appagante. Sai perché? Perché non aspetto mai che la situazione diventi insostenibile. So quando do il meglio e quando esaurisco le idee.

Ho parlato con Rick qualche anno fa e mi ha detto che la lavorazione di Tales from Topographic Oceans è stata una delle peggiori esperienze della sua vita, a livello professionale. Una parte di te è felice di non avere partecipato?
No. Nessuna parte di me è felice, da questo punto di vista. Non ho nemmeno mai ascoltato quel disco. Non seguo i gruppi quando li lascio. Mai. Quindi non conosco l’album, ma col senno di poi sono contento di non aver dovuto affrontare quella roba. Era un doppio, mi pare.

Sì, ma solo con quattro pezzi.
Wow. Probabilmente sarebbe stato troppo per me. Comunque sono contento delle mie scelte e sono stato molto fortunato come musicista. Ho lavorato con molte persone e ho imparato tante cose. È così che si progredisce, non suonando Close to the Edge tutte le sere negli stadi.

Cosa pensavi del punk quando è esploso alla fine degli anni ’70? So che è stato un fenomeno polarizzante per la gente della tua generazione.
Com’è arrivato se n’è andato, diciamo. Pensavo che quella roba suonasse bene, non mi dispiaceva affatto. E di certo non sembrava influenzare in alcun modo le nostre vendite o la nostra situazione finanziaria. Non ha avuto alcun impatto sui grandi gruppi rock che a quel punto, secondo Robert Fripp e altri, erano dinosauri che avrebbero dovuto ritirarsi. Cosa che ha smesso di dire nel 1974: una scelta intelligente, direi.

Qualche anno prima della sua scomparsa, ho parlato con Greg Lake. Per lui alla fine degli anni ’70 il prog era spacciato, era diventato troppo pomposo. C’è del vero per te?
Assolutamente sì. E a Robert Fripp, nel 1980, va riconosciuto il merito di aver guidato una versione minimale dei King Crimson, che a quel punto erano una band completamente diversa. È stato coraggioso e bravissimo. Il loro era un repertorio completamente nuovo che non poteva essere definito prog. Non soffriva degli eccessi e della lentezza, non c’erano i mantelli e tutte quelle cose che avevamo accantonato già nel 1974.

Com’è stata l’esperienza con Anderson Bruford Wakeman Howe? Deve essere stato strano tornare a suonare quel materiale dopo tanti anni.
Un po’ sì. È stato buffo perché quando abbiamo iniziato a lavorare agli studi di Montserrat, che ora non esistono più, pensavo di fare un disco solista di Jon Anderson, ma in aeroporto ho visto che c’erano anche Rick, Steve e il loro manager Brian Lane. È stato tutto molto semplice, Jon aveva già definito i brani, non abbiamo dovuto sederci in sala prove a discutere. È stato facile e alcune soluzioni erano molto fresche. All’epoca avevo una batteria elettronica che suonava in modo diverso. In certi momenti, sul palco con Rick, Jon e Steve, ho pensato che avremmo potuto incidere un secondo album. C’era qualcosa a cui potevamo aggrapparci, ovvero un modo più nuovo e minimale di guardare alla musica. Non è andata così, perché tutto è finito in mano agli avvocati.

Durante il tour, finalmente hai potuto suonare Close to the Edge sul palco.
È stato magnifico. Non l’avevo mai suonata in concerto, è stato bello farla, è molto divertente.

Com’è stata l’esperienza di Union?
Pessima.

Perché?
Troppe persone. Tutto troppo finto, una specie di roba hollywoodiana, un’idea folle, con sette/otto persone strane insieme a suonare. Era una specie di sogno proibito dei discografici, ma non era una bella situazione. D’altra parte, se sei strapagato per fare pochissimo, come è successo a me, puoi prendere quei soldi e usarli per qualche altro progetto a cui stai lavorando, tipo gli Earthworks, la band che ho guidato per 20 anni. Quindi da questo punto di vista ha funzionato.

Come vi siete divisi le parti di batteria tu e Alan in quel tour?
Non benissimo, direi. Io mi occupavo principalmente della batteria elettronica e suonavo le percussioni seguendo la sua batteria heavy rock. Qualche volta credo di aver suonato Heart of the Sunrise da solo. Un critico ha fotografato molto bene la situazione scrivendo che «Bill Bruford era la salsa olandese che accompagnava la carne con le patate di Alan White». L’ho trovato giusto, era più o meno così.

Rick mi ha detto che ha soprannominato Onion l’album Union perché lo fa piangere.
Questa è bella.

Hai pensato la stessa cosa?
Non l’ho ascoltato.

Ma ci hai suonato.
Sono sul disco da qualche parte, ma era tutto troppo computerizzato. Tutto è stato elaborato con ogni tipo di macchinario, a differenza di Close to the Edge, anche se sono sicuro che nella nuova versione hanno aggiunto di tutto, fatto dei remix e probabilmente raddrizzato molte cose qua e là. Ma io sono un tipo all’antica. Mi piace Close to the Edge nella forma in cui l’ho lasciato quando l’ho ascoltato in studio: suonava benissimo. Era divertente, si sentivano tutti distintamente, era umano e caldo, anche se probabilmente c’erano degli errori. Ci sono delle parti che mi fanno trasalire e che non sono perfette, ma questo è il disco che abbiamo fatto e lo amo così tanto che non mi interessano tutte le altre cose che la casa discografica si sente in dovere di propinare. La super deluxe edition non l’ho ancora ascoltata, ma è improbabile che lo faccia perché non ho bisogno di sentire dei remix o altro. Prima di tutto, non sono un audiofilo. Non sono un collezionista. Non sono un ascoltatore. Sono un esecutore. È la performance del 1972 che mi è piaciuta e non ho bisogno di sentire un’altra versione.

Molti fan ritengono che Close to the Edge sia l’apice del prog. Pensi sia un’idea fondata?
Mi dispiace, ma non sono molto bravo in questo tipo di confronti e classifiche. È sicuramente uno dei migliori, è stato molto popolare, ha dato alla gente un sacco di emozioni. A me comunica molte sensazioni positive. Penso sia fantastico.

Hai partecipato alla cerimonia di ingresso degli Yes nella Rock and Roll Hall of Fame proprio mentre la band era nel bel mezzo di una grossa disputa interna. Come hai vissuto quel momento?
C’era sempre battaglia e questo è uno dei motivi per cui a uno poi non va di passare troppo tempo in band del genere. Non ricordo granché, se non che ho detto: «Alan può suonare la batteria, non voglio farlo io». Ma sono stato contento di partecipare all’evento con tutto l’entusiasmo possibile. Credo che Jon e Steve non andassero molto d’accordo. E ancora oggi c’è un rapporto strano tra loro. Non so cosa, ma qualcosa è successo. Però io ora sono fuori dai giochi.

Quella sera non hai tenuto alcun discorso. Avevi intenzione di farlo?
Avrei potuto dire qualche parola, se solo Rick Wakeman avesse parlato di meno. Lui ha dato il via alle danze e circa 20 minuti dopo la gente diceva: «Taglia!». Mi è dispiaciuto molto per Scotland Squire, che era lì con la figlia piccola. Penso che volesse dire qualcosa a nome di Chris, per cui mi sono sentito in imbarazzo mentre Rick la tirava per le lunghe, ma ehi, è rock’n’roll.

Nel 2009 hai smesso di suonare la batteria. Cos’è successo?
Sfinimento, una specie di burn-out. Non lo davo molto a vedere, ma era una stanchezza profonda. Riuscivo a malapena a prendere in mano le bacchette e pensare a cosa suonare. E così non si riesce certo ad avere idee nuove. Il motivo era un sovraccarico di lavoro causato dal jazz. Il jazz è sofferenza. Non ci sono soldi, devi fare tutto da solo. Noleggi i furgoni, prenoti biglietti per persone che potrebbero anche non presentarsi. È un lavoro duro e a me andava bene così, ma dopo 20 anni con gli Earthworks ero sfinito. Sapevo solo che volevo davvero fare qualcos’altro. Volevo andare all’università e studiare per un dottorato, cosa che ho fatto e che mi ha impegnato per cinque anni. E poi ho insegnato per altri sette anni circa.

Cosa ti ha fatto tornare alla musica?
Un giorno, passando davanti alla batteria che c’era nel mio ufficio, ho pensato: «Però, che bella. Mi faccio una suonatina e vedo se mi ricordo qualcosa», perché 13 anni senza suonare sono tanti. Così mi sono rimesso a suonare la batteria e ho passato un paio d’anni a lavorarci fino, più o meno, al 2022.

E poi?
Ho incontrato un grande chitarrista di nome Pete Roth. Abbiamo iniziato a provare in una sala qui vicino, giusto per suonare un po’ e capire come me la cavavo. Abbiamo suonato per un po’ e abbiamo cominciato a diventare bravi. Poi qualcuno ha detto: «C’è questo bassista, perché non…». Arriva un bassista in sala prove e poco dopo ti ritrovi a suonare al pub in fondo alla strada. Poi una cosa tira l’altra in poco tempo si torna a fare concerti. Ma devo dire che è completamente diverso rispetto agli Yes. Non ho intenzione di fare grandi concerti. Il gruppo si chiama Pete Roth Trio, suoniamo in festival jazz e in piccoli teatri, club e pub nel Regno Unito e in Europa.

Come ti sei sentito la prima volta che sei tornato sul palco dopo tutti questi anni?
Non sono sicuro che sia andata particolarmente bene, ma è stato bello ricominciare. Mi facevo un sacco di domande. So suonare quella roba? È stupido, per una persona di 75 anni, cercare di adottare il linguaggio dello strumento del 2025, se ha iniziato nel 1967? È umiliante? È dignitoso? È indecoroso? Posso dare un contributo? Non voglio mettere in difficoltà i più giovani se pensano che io non sia all’altezza.

Quell’impulso a sedersi di nuovo alla batteria ti ha sorpreso?
Certamente. Per 12 dei 13 anni precedenti non pensavo proprio che l’avrei fatto. Avevo persino venduto la mia batteria. È stato un fulmine a ciel sereno. Una volta che mi entra in testa l’idea di fare una cosa, vado avanti e sono determinato. Quindi mi sono detto: ci voglio riprovare.

Non ti va di fare qualcosa di più grosso, formare una nuova versione degli Earthworks o altro?
No, preferisco continuare con quello che ho adesso, poi staremo a vedere. Magari tra un anno lo trasformerò in qualcos’altro, non lo so. Per ora sono molto felice di suonare in piccoli posti in Inghilterra.

Ha mai visto gli Yes negli ultimi anni?
Sì, li ho annunciati in un grande teatro di Londra per il tour per il 50° anniversario. Ma non mi sento più emotivamente legato a loro. Lo sono stato, ma molta acqua è passata sotto i ponti. Ora mi limito a guardare quella band. E devo dire che è interessante, dal punto di vista musicale.

In che senso?
Per i giovani della band… Chiunque abbia meno di 50 anni è abituato a seguire il click. Suonare a tempo è una specie di religione per loro. E così i giovani non andavano d’accordo con i più anziani che, invece, non suonavano a tempo, ma si appoggiavano al tempo. Però le differenze tra i giovani e i vecchi si sono appianate man mano che la serata andava avanti.

Ti colpisce che una band che hai fondato nel 1968 sia ancora in attività?
Sì, è sorprendente, incredibile. Ma forse non dovrebbero continuare. Non sono un grande fan del rock geriatrico. E poi non mi vedo come un tipo rock. Infatti sono tornato alla mia natura, che era fondamentalmente quella del jazzista.

Se gli Yes ti chiedessero di salire sul palco per una canzone con loro, ora che hai ripreso a suonare, lo faresti?
Credo che da 15 anni a questa parte me lo chiedano un paio di volte a settimana. La risposta è sempre questa: no grazie, sto bene così, non lo faccio.

Speri che Jon e Steve trovino un modo per appianare le loro divergenze e tornino a esibirsi insieme?
Non ci spero affatto. Stranamente, Jon ed io abbiamo una cosa in comune: in un certo senso entrambi siamo tornati. Jon ha passato molto tempo lontano dagli Yes e poi è tornato con un progetto e un album nuovi. Credo che sia fantastico. Anch’io mi sento così.

Obiettivi per i prossimi anni?
Essere un buon batterista, essere molto bravo in qualunque formazione suoni, contribuire con idee nuove. Se non sarà così, sparatemi. Smetterò il giorno in cui non riuscirò più a dare un qualche contributo musicale. Ma vorrei continuare a suonare. C’è una bella frase che qualcuno ha detto: «Non si smette di suonare la batteria quando si diventa vecchi, si diventa vecchi quando si smette di suonare la batteria».

Da Rolling Stone US.

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