Il nuovo disco dei Black Angels si chiude con la sigla di Quark, il programma tv di Piero Angela. Ok, non è proprio così, ovviamente si tratta dell’Aria sulla Quarta Corda di Bach, ma data la recente scomparsa del divulgatore scientifico più amato d’Italia, l’effetto da noi è abbastanza straniante. Specie perché la band di Austin piazza l’eterea melodia del compositore tedesco sul finale di Suffocation, ultima traccia dell’album che parla di fine del mondo.
Se già il precedente Death Song, del 2017, era stato definito apocalittico e in quel pezzone intitolato Currency vedeva il gruppo texano denunciare il potere del dio denaro, con l’ottimo Wilderness of Mirrors si va oltre con 15 brani che racchiudono in sé tutte le preoccupazioni provocate dalla pandemia di Covid e dai tumulti politici degli ultimi anni, ma in cui non manca un invito a ribellarsi a un sistema economico-politico che crea disuguaglianze, costruisce muri, distrugge l’ambiente. Il tutto al suono di un consolidato psych-garage rock fatto di chitarre cariche di effetti e non privo di accenti a tratti stoner, a tratti shoegaze, debitore della lezione di Velvet Underground e 13th Floor Elevators, ma attualizzato e qui infarcito di nuove trame sonore, vedi Firefly, omaggio al French pop 60s con alla voce LouLou Ghelichkhani dei Thievery Corporation. Complici dei Black Angels, Brett Orrison nel ruolo di co-produttore e l’ingegnere del suono dei Dinosaur Jr. John Agnello. Oltre a Ramiro Verdooren (The Rotten Mangos), multistrumentista da poco unitosi in line-up al cantante e bassista Alex Maas, ai chitarristi Christian Bland e Jake Garcia e alla batterista Stephanie Bailey.
«Il mondo è impazzito, Wilderness of Mirrors nasce da questa constatazione», spiega Maas in videochiamata su Zoom con gli altri Black Angels. «Se anni fa qualcuno ci avesse detto che saremmo arrivati a questo punto, non ci avremmo creduto».
Però sono andata a rivedermi un’intervista che vi avevo fatto nel 2017 e lì mi avevi detto di temere lo scoppio della Terza guerra mondiale.
Alex: Sarà che è da tempo che ci sono tensioni, che tira aria di conflitti. Che si trattasse di Russia, Corea del Nord o Venezuela, era da un po’ che pensavo che qualcosa di grosso potesse accadere. Ma dalla pandemia in poi è come se quel pensiero fosse diventato realistico una volta per tutte, capisci? Non è più un’ipotesi, è ciò che abbiamo sotto gli occhi. E puoi anche dirti «cavoli, avevo ragione, aveva senso avere paura di un futuro distopico», ma resta una presa di coscienza terribilmente triste. Nonostante tanti libri e film ci avessero avvertiti. Pensa alla pandemia, hai mai visto Virus letale? Da ragazzino mi aveva colpito, ma quando è arrivato il Covid e ha messo a soqquadro il mondo della musica, quello mi ha fatto un male cane: pensare di non poter più fare musica come prima e di doverci reinventare è stato terrificante.
Stephanie, tu che dici? Il 2022 è stato anche l’anno della messa in discussione del diritto di aborto negli Stati Uniti.
Stephanie: Sono sopraffatta, è tutto così nauseante: com’è possibile che ancora oggi ci siano diritti che vengono osteggiati, se non cancellati?
Alex: Ed è paradossale che si discuta di come proteggere i diritti intellettuali, il copyright – c’è un dibattito acceso e partecipato sulla questione, si è tutti d’accordo che servono norme e regolamenti – mentre si fa la guerra ai diritti riproduttivi: vale di più la proprietà intellettuale che quella del proprio corpo, assurdo.
Sembra che stiamo parlando di altro, ma in realtà chi ha a cuore questi argomenti può trovare nella vostra discografia molte suggestioni e il nuovo album non fa eccezione, basti pensare a una traccia come Empires Falling. Non tutte le band sfornano testi così politici, perché voi sì? È perché siete di Austin, Texas, Stato notoriamente ultraconservatore?
Alex: Austin, però, è una città parecchio progressista. Non so se c’entra il Texas, forse è più qualcosa che abbiamo dentro.
Christian: Il fatto è che con la nostra musica osserviamo la realtà che ci gira intorno e raccontiamo come ci sentiamo al riguardo. Siamo come dei messaggeri, diciamo ciò che vediamo accadere e proviamo a dargli un senso.
Con questo Wilderness of Mirrors com’è iniziato e come si è sviluppato il processo di scrittura?
Alex: Più o meno come sempre, a parte un dettaglio non marginale: eravamo in piena pandemia, cosa che in un certo senso abbiamo preso come un’occasione. Tutto d’un tratto avevamo più tempo libero, e quindi più tempo da dedicare al disco, e abbiamo deciso di approfittarne, di sfruttarlo e di godercelo, anche.
Christian: Alla fine avevamo una trentina di pezzi, ne abbiamo tenuti 15, ma con una scelta compiuta in maniera molto naturale. Non stabiliamo mai nulla a priori, semplicemente tra le cose che vengono fuori in studio alcune risaltano maggiormente.
Stephanie: Di sicuro questa volta è stato tutto più rilassante. Non solo per il maggior tempo a disposizione, ma anche perché abbiamo lavorato all’album senza muoverci da Austin, com’era successo con i nostri primi due dischi, e questo ha significato anche meno regole, più libertà di fare le cose a modo nostro e una maggiore creatività e possibilità di sperimentazione.
Com’è andata con Ramiro, unitosi a voi di recente?
Stephanie: Ha portato molte novità.
Alex: Aggiungi un elemento, un ingrediente nuovo, e tutto cambia. È così che funziona ed è quel che è successo con Ramiro: ha portato nella band una nuova prospettiva sulla vita come sull’arte e sulla musica. Sentiva un pezzo e ci diceva «io farei così e così…», dandoci nuove idee. Abbiamo sperimentato molto e questo ci ha rinvigorito, penso.
Christian: Ci ha aiutato a focalizzare il modo in cui possiamo sviluppare certe idee.
Che cosa potete raccontarmi di Vermillion Eyes, brano il cui arrangiamento è dichiaratamente ispirato a Morricone?
Alex: Quella canzone per me è una vera e propria chiamata alle armi, un appello a farsi sentire dai potenti, a dire ciò che non ci va, a criticarli, a riprenderci il controllo di quanto chi ci governa decide sulle nostre teste. Non so se potrà realmente accadere, ma è fantastico e stimolante pensare che ci sia questa possibilità.
Jake: E siamo fan di Morricone, ma anche di Alessandro Alessandroni. L’arrangiamento di questa traccia si lega a questi ascolti, e credo che le parole scritte da Alex si sposino benissimo con la musica. Ho visto Morricone dal vivo a New York nel 2007 e mi ha cambiato la vita.
Alex: Che meraviglia! Dov’era il concerto?
Jake: Al Radio City Music Hall di New York.
Alex: Io l’ho scoperto grazie a quelli che chiamano spaghetti western. Era abilissimo nell’inserire suoni e rumori, dalla pistola al fischio, nella musica (a questo punto Stephanie accenna il tema del film Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone, ndr).
Vostro riferimento noto sono, invece, i Velvet Underground. Il brano Icon è un omaggio a Nico e all’eredità della band: perché questa passione?
Christian: Per noi Nico è un’icona, un’icona tragica, data la sua storia. A proposito di Icon, c’è una cosa interessante da sapere: quella canzone era stata buttata giù tempo fa da Alex, la stava per inserire nel suo disco solista del 2020, Luca, e ricordo di avergli chiesto esplicitamente di non farlo, perché era chiaramente un pezzo dei Black Angels.
Alex: È tutto vero (ride).
Christian: Già, così abbiamo lavorato alla musica ispirandoci a Poor Moon dei Canned Heat (il gruppo di On the Road Again, classico blues-rock del ’68, nda).
Alex: Suona un po’ come un pezzo vecchio dei Black Angels, qualcosa da Passover, il nostro primo album del 2006. Nel 95% dei casi la nostra musica nasce prima dei testi; le parole le aggiungiamo dopo, ascoltando la musica stessa e tirando fuori quello che proviamo durante l’ascolto. È la musica che orienta il contenuto delle liriche, sintetizzando. Questa volta è andata diversamente, abbiamo unito le parole che avevo scritto con questa musica che, sì, rimanda al pezzo dei Canned Heat citato da Christian, ma anche a Personal Jesus dei Depeche Mode. Alla fine sono contento di aver inciso questo pezzo per questo disco della band, ci sta bene. Non c’è un motivo razionale, sono cose che accadono così, per magia. Di sicuro questa versione è molto diversa da quella che avevo pensato originariamente.
Che eredità ci hanno lasciato i Velvet Underground?
Christian: Ho imparato a suonare la chitarra ascoltando i loro dischi, il loro minimalismo mi ha ispirato tantissimo. Ho capito che volevo fare musica di quel tipo, con quello stile: semplice, ma d’impatto. Non è necessario avere una formazione classica o essere un compositore grandioso, questo è quello che ho imparato da Lou Reed e soci. Io non ho studiato musica e non c’è bisogno di farlo, piuttosto prendi una chitarra e mettiti a suonare.
Stephanie: È così, se hai una storia da raccontare attraverso la musica non conta la tecnica, è questo che band come i Velvet Underground ci hanno trasmesso: conta l’immaginazione, conta che la tua canzone sia una forma di espressione genuina.
Alex: E se la musica è questo, se arriva dalle viscere più che da un processo intellettuale, allora ha anche un aspetto rituale.
Viaggiando ho notato che la comunità psych rock, pur rappresentando una nicchia, è molto forte in giro per il mondo, vanta un circuito di locali e festival tutti suoi e attira tribù che ricordano un po’ quelle degli anni ’90, con un senso di appartenenza legato ad ascolti musicali, stili di vita e gusti estetici comuni. Che ne pensate?
Alex: C’è qualcosa di spirituale, penso, nell’approccio che la comunità psych rock ha nei confronti della musica. Non c’è nulla di mainstream, eppure c’è una serietà tale, nel modo in cui nel nostro mondo si guarda alla musica… È quello che stavo dicendo poco fa, c’è una dimensione di ritualità in tutto questo.
Come va con il vostro festival Levitation? Ho visto che si terrà dal 27 al 30 ottobre sempre ad Austin e che avrete sul palco, tra gli altri, King Gizzard & The Lizard Wizard, The Jesus and Mary Chain, Godspeed You! Black Emperor, Osees, Shame, L7, Moon Duo. E suonerete anche voi.
Alex: Siamo stati costretti a una pausa a causa della pandemia, ma abbiamo ripreso subito e ora siamo pronti per questa nuova edizione: la line-up è al completo, proprio ieri abbiamo annunciato anche Os Mutantes, band che ci piace moltissimo (dopo questa intervista hanno comunicato l’intero cartellone, nda).
Quest’anno il Primavera Sound è stato accusato di alcuni di essersi ingrandito troppo, si è parlato di avidità, ma è anche vero che la logica dei grandi eventi è ormai dominante…
Christian: Quando i festival diventano sempre più grandi, diventano anche dipendenti da grandi sponsor, si trasformano in eventi corporate e perdono il contatto con il loro spirito autentico. Noi siamo indipendenti, da questo punto di vista non vogliamo perdere il controllo e sul palco vogliamo band sulla stessa lunghezza d’onda. Non importa quali offerte ci arrivino, i soldi tentano chiunque, ma ci teniamo a difendere il nostro mondo così com’è.
Alex: Sì, non ci interessa che il festival diventi più grande, il nostro obiettivo è diffondere una cultura.