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Black Sabbath: «Dio ci ha fatti rinascere»


Nel senso di Ronnie James Dio. Tony Iommi e Geezer Butler raccontano la seconda vita della band nei primi anni '80: i problemi con Ozzy, la svolta musicale, la ristampa di ‘Heaven and Hell’ e ‘Mob Rules’

Foto: Fin Costello/Redferns

Geezer Butler non ha mai avuto una percezione nitida del valore dei Black Sabbath. Poi, nel 1979, ha cominciato a lavorare col gruppo a Heaven and Hell. La band si era appena separata da Ozzy Osbourne ed era al lavoro col nuovo cantante Ronnie James Dio. Butler, però, non poteva dedicarsi al 100% al gruppo. «Il divorzio mi dava un sacco di problemi e dovevo tornare in Inghilterra», ricorda. «Ho detto ai ragazzi: non si tratta della musica, devo rimettermi in carreggiata». Dopo qualche mese, è tornato a Los Angeles e ha ascoltato con ammirazione le canzoni che gli altri avevano scritto con Dio.

La nuova ristampa di Heaven and Hell e del seguito del 1981 Mob Rules gettano una nuova luce su uno snodo decisivo della storia del gruppo. Con Dio dietro al microfono, la band ha fatto musica più drammatica, soprattutto piccole suite che parlavano di “re e regine che ti accecano e rubano i sogni” (Heaven and Hell) e inni che gridavano contro il male esistenziale nascosto in piena vista (Turn Up the Night). In breve, i Sabbath erano rinati.

Il materiale bonus contenuto nella ristampa permette di comprendere l’evoluzione delle canzoni dalla versione in studio alle straordinarie e potenti esecuzioni live. La sconvolgente e fino a oggi inedita versione di Heaven and Hell registrata nel 1982 a Portland durante il tour di Mob Rules dura quasi 10 minuti. Dio spiega al pubblico come cantare il ritornello, mentre la band costruisce un suono monolitico strumento dopo strumento, fino a culminare nel solo di Tony Iommi. «Quel brano cambiava tutte le sere», riflette Butler. Oltre allo show di Portland, la ristampa contiene anche singoli e lati B, oltre a brani suonati dal vivo e un remix di The Mob Rules (chi scrive è l’autore delle note di copertina della nuova edizione).

Qui il bassista e il chitarrista raccontano come sono ripartiti in un momento così cruciale della loro carriera e come Dio li ha aiutati a guardare la loro musica in modo diverso.

Conoscevate bene Dio prima di iniziare a lavorare con lui? 


Tony Iommi: L’avevo ascoltato nel primo disco dei Rainbow di Ritchie Blackmore. Li avevo ascoltati per capire com’era la nuova band di Richie. Mi piaceva il disco, mi piaceva la voce di Ronnie, ma certo non pensavo che saremmo finiti a suonare insieme. Ha sempre avuto una voce forte e potente.
Geezer Butler: Non sapevo nulla di lui. Avevo sentito solo un paio di pezzi dei Rainbow. Quando ha iniziato a lavorare con noi era entusiasta, soprattutto rispetto a Ozzy, a com’era all’epoca. Era incredibile. Ha davvero fatto rinascere la band.

A che punto eravate con la scrittura dei pezzi quando è entrato nel gruppo?
Iommi: Avevamo affittato una casa a Bel-Air per scrivere un disco con Ozzy, ovviamente non l’abbiamo più fatto perché le cose non funzionavano. Avevo qualche riff. Lui ha cantato Children of the Sea, ma è l’unico brano che siamo riusciti a chiudere. Non gli andava più. Era pronto ad andarsene, immagino. All’epoca andavo a trovare quelli dell’etichetta, mi chiedevano sempre come stesse andando il disco. Dicevo: alla grande, alla grande. Ma non avevamo fatto nulla. Quando è arrivato Ronnie c’era voglia di ricominciare da zero.

Come mai è stato Bill Ward a dire a Ozzy di andarsene? 


Iommi: È una cosa di cui si è voluto far carico lui. Non l’ha detto a nessuno. L’idea era di parlare a Ozzy tutti assieme e invece ha deciso di fare tutto da solo.

Butler: A Bill piace essere il businessman del gruppo. Prima di Ozzy, aveva licenziato anche me. Mi è venuto a trovare quando stavo in Inghilterra. Mi ha detto: «Ci siamo riuniti e abbiamo deciso che sei licenziato». Oh, grazie tante. Poi se n’è andato. Ho chiesto a Tony e Ozzy cosa fosse successo e mi hanno detto che non ne sapevano nulla. Insomma, credo che a Bill piacesse gestire le cose della band, così si è preso la responsabilità di parlare con Ozzy.

Vi ha fatto arrabbiare?
Iommi: No, era una cosa che andava fatta.
Butler: Io non ce l’avrei fatta, piangevo troppo. Mi dicevo che non potevamo lasciarlo andare.

Come l’hanno presa quelli che lavoravano con il gruppo? 


Iommi: A Don Arden (il manager, ndr) non interessava Ronnie. Lui voleva Ozzy. Gli ho detto: è una storia finita, non vuole più farlo, è esaurito. E lui: «lo convincerò a tornare, non preoccuparti». Ho insistito, gli ho detto che non è una cosa che si può fare controvoglia. Lui invece voleva costringerlo, ma Ozzy aveva bisogno di quella pausa.

Avete mai pensato di cambiare nome una volta iniziato a lavorare con Ronnie? 


Butler: La Warner aveva già pagato per la casa, le prove e tutto il resto. E insomma, doveva essere un disco dei Sabbath. Avevano messo i soldi, avevano costruito la forza di quel nome. Non volevano che ricominciassimo da zero. Quindi abbiamo continuato così.

Dopo aver preso la decisione, come avete ritrovato la concentrazione per scrivere?
Iommi: Abbiamo deciso di andar via da Los Angeles. Volevamo isolarci e continuare quello che avevamo iniziato, così siamo andati a Miami. Siamo finiti a casa di Barry Gibb, dove siamo rimasti per un bel po’.

Perché ha funzionato così bene? 


Butler: Credo che non avrebbe funzionato con nessun altro. Ronnie era davvero entusiasta, è entrato subito nella musica. E aveva una voce incredibile.

Il primo periodo dei Sabbath con Ronnie è durato pochi anni. Poi ha fondato i Dio con il batterista Vinny Appice, nel 1982. Come mai è finita così? 

Butler: Il nostro vecchio manager, Patrick Meehan, aveva fatto uscire Live at Last (nel 1980, ndr), dove c’era la line-up originale. Era stato registrato quattro o cinque anni prima e l’avevamo lasciato nel cassetto. Pensavamo che fosse terribile. Quando è uscito ci siamo incazzati parecchio perché ci trovavamo nel picco della nostra collaborazione con Ronnie, il pubblico l’aveva accettato ed è uscito questo disco live con la formazione originale, sembrava quasi che volessero metterci i bastoni tra le ruote. È per questo che abbiamo fatto Live Evil (un disco dal vivo con Dio, ndr). Volevamo avere il controllo, e si è rivelato un disastro.

Come mai?
Butler: Durante il mix di quel disco, io e Tony lavoravamo di giorno e sistemavamo alcune cose, ci assicuravamo che tutto andasse bene. A quanto pare, Ronnie entrava in studio dopo di noi e modificava il suono secondo il suo gusto. Il giorno dopo io e Tony non capivamo più nulla: «Ma cosa sta succedendo? Ieri non suonava così». Il fonico ci ha spiegato che era colpa di Ronnie, gli abbiamo chiesto spiegazioni e lui ha negato. È stata l’ultima goccia. Poi ci siamo separati. Eravamo io e Tony contro Ronnie e Vinny. L’atmosfera era pesante.

Come siete arrivati a quel punto?
Butler: Beh, Ronnie diceva che i Sabbath erano rinati per merito suo, voleva la sua parte delle royalties di tutti i brani, anche quelli vecchi. Questa cosa ci ha fatto incazzare. Abbiamo litigato di brutto, poi ha detto: «ok, farò un disco solista». Ed è finita. Non sembrava più tanto interessato.

Ovviamente siete riusciti a chiarirvi, visto che è tornato nel 1990 e poi nel 2006 con gli Heaven and Hell. 


Butler: Beh, Devil You Know, il disco degli Heaven and Hell, è fantastico. Eravamo tutti cresciuti, avevamo avuto i nostri successi. I problemi erano acqua passata.

Che rapporto avevi con Ronnie negli ultimi anni della sua vita? 


Butler: Litigavamo come marito e moglie. Ci andavamo giù pesante. Poi il giorno dopo ci prendevamo un drink insieme. Non è facile trovare persone così. Era come stare in famiglia, in una famiglia irlandese. Ronnie non si teneva niente. Sapevi sempre cosa pensava di te, non ci sono dubbi. Litigavamo di continuo, poi facevamo pace e tornavamo buoni amici. Lo eravamo quando se n’è andato. Ogni anno vado a visitare la sua tomba.

Cosa vi colpisce oggi di Heaven and Hell e Mob Rules? 


Butler: Credo siano davvero buoni. Credo reggano il confronto con gran parte della roba che esce anche oggi.
Iommi: Ero molto orgoglioso di quei dischi, soprattutto Heaven and Hell. Era un’esperienza nuova, cambiare il cantante era un azzardo. Era facile perdersi per strada, ma noi ce l’abbiamo fatta perché credevamo in quello che facevam. Quei dischi significano molto per me.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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