Sono passati 36 anni dall’ultima volta che abbiamo ascoltato un album dei Boomtown Rats. Nel frattempo, il frontman Bob Geldof ha di fatto inventato la musica di beneficienza con Do They Know It’s Christmas?, ha messo in piedi il Live Aid, raccogliendo milioni di dollari per le vittime della carestia in Etopia e ha ripetuto l’esperienza 20 anni dopo con il Live 8. Ha anche registrato sette album solisti, ha affrontato uno scandalo dietro l’altro sui tabloid e diverse tragedie nella sua vita personale, e ha suonato musica in giro per il pianeta.
Per tutto questo tempo, non ha mai pensato a una reunion dei Boomtown Rats. Poi, nel 2013, il batterista Simon Crowe e il chitarrista Garry Roberts gli hanno offerto di suonare all’Isle of Wight festival in Inghilterra. La band irlandese è nota in America per la hit del 1979 I Don’t Like Mondays, ma in Europa ha scalato più volte le classifiche con inni generazioni come Rat Trap, Banana Republic e Lookin’ After No. 1. La leggenda è cresciuta dopo lo scioglimento e il festival gli ha fatto una grande offerta per riportarli sul palco.
«Alla fine si trattava di curiosità, vanità e denaro», dice Geldof. «La curiosità era: “Eravamo davvero una buona band?”. Ho sempre detto che lo eravamo, ma non puoi saperlo finché ci sei dentro. La vanità, invece, diceva: “Sì! Suonerò di fronte a 100 mila persone!”. E il denaro fa sempre comodo. In retrospettiva, però, forse volevo solo sentire un po’ di fottuto, glorioso rumore; è così che Bono descriveva i Rats».
Geldof ha più esperienza di qualunque uomo della terra nel riformare band sciolte da tempo. Per il Live Aid è riuscito a convincere Who, Black Sabbath, Led Zeppelin e CSNY a mettere da parte anni di litigi e riunirsi. Per il Live 8, si è superato riuscendo a far sì che Roger Waters e David Gilmour facessero pace abbastanza a lungo da suonare quattro canzoni dei Pink Floyd. Un miracolo, considerando la loro storia.
La situazione nella sua band, in realtà, era molto meno complicata. Il problema principale, dice Geldof, è che qualche anno prima Crowe aveva venduto qualche storia non proprio lusinghiera che lo riguardava ai tabloid inglesi. «Quando ho incontrato Simon alle prime prove, mi ha detto: “Amico, mi spiace se ti ho ferito”», ricorda Geldof. «”Ero al verde, avevo bisogno di soldi”. Gli ho detto: “Mi avresti potuto chiamare per dirmi che avevi bisogno di soldi. Non ci sarebbero stati problemi”».
Il problema successivo si è presentato quando Geldof ha detto a Roberts che voleva suonare la chitarra e non limitarsi a cantare come ai vecchi tempi. «È andato fuori di testa», dice Geldof. «Ha detto: “Puoi andare a farti fottere”. Sembrava fossimo tornati all’estate del 1975. Ha aggiunto: “Sembri uno stronzo con la chitarra”. Alla fine la chitarra non l’ho suonata».
L’ultima incarnazione dei Rats ha riportato in scena anche il bassista originale Pete Briquette, che ha suonato nella band di Geldof per decenni. Il tastierista Johnnie Fingers vive in Giappone e ha declinato l’invito; il chitarrista ritmico Gerry Cott ha lasciato la band nel 1981 e non è tornato se non per un singolo concerto del reunion tour.
Quando i problemi si sono risolti, la band ha iniziato le prove con il singolo di debutto del 1977, Lookin’ After No. 1. È il loro marchio di fabbrica, ma Geldof non l’ha mai amato granché. «La suoniamo con questi grossi accordi volgari e finalmente ho capito che è una grande canzone», dice. «Ci stavo dentro. Avevo bisogno di tornare in quello spazio, nel luogo dove mi porta quel rumore. Suona stupidamente romantico, ma mi sono emozionato? Sì. Abbiamo suonato un altro pezzo e ho pensato: “Beh, non è male”».
Dopo qualche concerto di riscaldamento,il 16 giugno 2013 la band si è ritrovata nel backstage dell’Isle of Wight. Geldof e Briquette erano abituati a suonare di fronte a un pubblico così grande, ma Roberts e Crowe non vedevano niente del genere da anni, anche se hanno continuato a suonare insieme con il nome Velcro Flies.
«Gary e Simon si stavano cagando addosso», dice Geldof. «Ma l’esperienza è stata liberatoria, esilarante e devastante nel modo migliore possibile. Ero libero e colmo di emozioni, psicologicamente completo e gratificato, fisicamente esausto. Ed ero felice. Nessun equivoco. Nessun dubbio. Ero felice. E non è normale. È una droga».
La maggior parte del set consisteva in canzoni vecchie decenni, ma Geldof non ha mai sentito fitte nostalgiche durante la performance. «Quando canto I Don’t Like Mondays non sono nel 1979», dice. «Sono nell’ultimo massacro di studenti dell’altra notte, che nessuno aveva previsto. Quando suono Rap Trap non lo faccio per l’assenza di speranza della gente del mattatoio in cui l’ho scritta, ma per chi non ha speranza adesso. Quando suono Banana Republic non suono per la Repubblica Irlandese, che alla fine è maturata. Suono per quella americana, e vado ancora più a fondo fino all’infantilismo politico».
«Quando suono Lookin’ After No. 1 non canto delle condizioni di vita del 1979», continua. «Ma di Google, Facebook e Zuckerberg che ci controlla sempre, che elenca tutto quello che hai, ogni amico, ogni scelta, lo impacchetta e lo vende a un’altra azienda che sfrutta te e le tue preferenze. È molto contemporanea. Quella rabbia pervade i Boomtown Rats».
Lo show si è concluso con un pezzo che Geldof aveva scritto per l’occasione, opportunamente intitolato The Boomtown Rats. È un pezzo incredibilmente ballabile che, come suggerisce il titolo, parla proprio della band con un testo che dice: “I’m going to Boomtown / I’m going back … What’s happened here in Boomtown? / It’s those rats / Those rats / Those dirty, dirty rats!”.
Sette anni dopo, Geldof vibra di eccitazione ripensando a quel momento. «Ero Muhammad Ali che dice a Sonny Liston: “What’s my name? What’s my name?”. Avevo convinto 100 mila persone a cantare “The Boomtown Rats!”».
Il momento trionfale sarà il seme del nuovo album del gruppo, Citizens of Boomtown, in arrivo il 13 marzo. È un LP di 10 canzoni con il classico suono dei Rats, più qualche aggiunta moderna. È prodotto da Briquette e la band ha iniziato a registrarlo nella sua casa di Acton, a Londra. «Eravamo seduti nella camera da letto di un ragazzino», dice Geldof. «Mi sentivo più libero lì che in uno studio con un 24 piste e i fonici».
Alcune canzoni erano già abbozzate prima di iniziare, mentre altre sono state create sul momento. Monster Monkeys, per esempio, è nata quando le parole “Hey, Mr. Mojo with your moptop hair… Monster moonsoon monkeys are sucking out my brain” sono venute fuori dalla bocca di Geldof mentre il gruppo improvvisava su un groove alla Sympathy for the Devil. «Quando il tuo subconscio è nel panico, vomita frasi e immagini che non sembrano avere senso», dice Geldof. «La tua coscienza le tira fuori perché devi dire qualcosa, e un minuto dopo le labbra si muovono e viene fuori di tutto».
Le session si sono poi spostate in uno studio vicino all’aeroporto di Gatwick. Hanno lavorato a più canzoni di quante ne servivano per un singolo album, ma Geldof era determinato a registrarne solo 10. «L’arte di fare dischi è sparita, ma io sono old school», dice. «Un album contiene 10 canzoni. È come una mostra. Si tratta di una sola idea, nel nostro caso un solo suono».
Il gruppo partirà per un tour europeo poco dopo l’uscita. «Abbiamo fatto quest’album per il 2020», dice Geldof, «ma dubito che i fan di Billie Eilish verranno ad ascoltarci. Che cosa abbiamo che potrebbe colpirli? Mi piacerebbe suonare nei festival perché raggiungerei chiunque, c’è un pubblico gigantesco. Forse scapperanno tutti via dicendo: “Cazzo, ma hai sentito quelli?”. Ecco, vorrei andasse così».
Non ci sono piani, almeno al momento, per un tour americano. La band non è mai stata particolarmente seguita negli USA, ma un documentario di prossima uscita potrebbe migliorare la situazione. Finiti i concerti, però, Geldof non ha idea di cosa succederà. «Abbiamo tutti 965 anni», dice. «Probabilmente ci restano 18 mesi di vita. La fine è piuttosto vicina, a questo punto. Ma voglio suonare queste canzoni dal vivo, perché è solo così che saranno complete. È così che si chiuderà il cerchio».