«A me non è mai piaciuto il saper parlare, perché adoro la sgrammatica. Le parole troppo forbite, per far vedere che hai studiato, sono imbroglione. Come quelle dei politici». Comincia così la chiacchierata con Bobo Rondelli, famous local singer di Livorno, la città dove sono nati Modigliani e Ciampi. E dove si fondò il Partito Comunista d’Italia. Con Bobo si può parlare di tutto: di musica, ovviamente, ma anche di donne, della vita, del mare, dei bar, delle notti, di ciò che siamo e di ciò che non siamo mai stati.
Lo incontriamo per parlare del suo primo libro, Cos’hai da guardare, che esce proprio oggi per Mondadori. È un romanzo-biografia, un viaggio nella vita di un “saltimbanco da strapazzo”, come si definisce lui, dove l’ironia va a braccetto con la tragedia. C’è un po’ di Lou Reed e molto Emanuel Carnevali, a cui aveva dedicato un bel disco qualche anno fa. Ma c’è anche il blues, quello di Lightnin’ Hopkins. E ci sono pure John Fante, Cesare Pavese e Primo Levi. Lo scenario è Livorno, va da sé.
Perché hai deciso di scrivere un libro proprio ora?
Ho conosciuto Alberto Rollo (responsabile della narrativa in Mondadori, nda) e mi ha parlato di un anticipo (ride). Queste sono le motivazioni fisiche, diciamo. Non avevo nemmeno realizzato che pubblicavo con la figlia di Berlusconi. Vabbè… Questo non significa che i libri che escano con Mondadori non siano liberi di esprimere quello che uno vuol dire. Anzi, mi sembra la casa editrice che lascia più liberi.
Insomma si tratta solo di soldi?
Ma no… All’inizio ho avuto anche paura di scrivere. Mi son detto: non sono mai stato un grande lettore, come mi posso permettere di scrivere? Poi ho pensato che si scrive quando si ha qualcosa da esprimere, quando si parla di cose vere, profonde, che ci sono successe. Per me uno dei grandi capolavori che va al di là della letteratura è Se questo è un uomo di Primo Levi. Il suo scrivere è una sorta di prendere frutti dagli alberi, i frutti però degli schiavi impiccati. Anche la poesia blues è così forte perché è la vita. In un certo senso, questo libro è ispirato al Primo dio di Emanuel Carnevali. Anch’io ho cercato di raccontare la mia vita. Ho preso lo spunto da ciò che ho vissuto per parlare poi della vita dei miei genitori e portare il lettore in altre epoche, cercando anche un percorso etico. Perché se finiscono l’uso della parola e il valore della scrittura, presto si salveranno solo i vigliacchi e i fortunati. Se non si dà valore alla parola la gente s’ammazza, ne sono convinto. E quindi la generazione futura dei sopravvissuti sarà una generazione di bestie umane. Che sono veramente molto peggiori degli animali. Perché noi umani siamo distruttori del pianeta.
La tua immagine è quella dello scavezzacollo pieno di donne che non termina mai una notte prima dell’alba. È un altro Bobo Rondelli quello che esce da questo libro’
Be’, c’è un po’ di tutto. Come nella mia vita. Sai, in Gioventù Bruciata di James Dean prendono le macchine e saltano dai burroni, qualcuno ci resta secco, si prendono a coltellate, no? Ecco, le mie sono storie di gioventù ustionata.
Ma non solo di gioventù.
No, certo. Anche dei padri e dei figli. La mia vita fino ad ora. Il titolo è una frase di mio padre sul letto di morte. Mi disse: “Cos’hai da guardare”. Scrivendo questo libro ho chiesto scusa a mio padre, perché col mio ego allora la presi male. Forse quella frase era un voler dire: “Figlio mio non ce la faccio, devo morire, perché devi stare qui a guardare? Non sopporto di veder soffrire anche te”. È anche una frase Comanche, di un uomo alla fine che non ha niente da dire al figlio. Gli dispiace di dover andare via e non poterlo più sgridare per non essersi sistemato, come dicevano i vecchi. Per chi ha vissuto la guerra un lavoro fisso e uno stipendio era il mito. Questo era il sogno del mio povero padre. E io il posto fisso e lo stipendio non li ho mai avuti.
Nel libro, però, c’è anche tua madre a cui hai dedicato una dolcissima canzone, Nara.
Sì. I pensieri però sono andati a cercare una pace con mio padre. Da qui il titolo, come ti spiegavo. Quando scrivi un libro è una sorta di autoterapia, vai a ricordare, scavare. È un percorso nella memoria. Ti strappi un po’. Però, visto che c’era l’anticipo, perché no? (ride) Dopo tutto, il cosiddetto artista è una prostituta che vende l’anima per quattro soldi. Io però culo e baci in bocca mai. Sono una puttana dignitosa.
Livorno è sempre stata lo scenario della tua musica e della tua vita. Lo è ovviamente anche in questo romanzo-biografia.
Esce fuori, certo. A partire dall’infanzia livornese. Sono nato nel quartiere roccaforte dei comunisti durante il periodo fascista. Gli tiravano le uova dai terrazzi. Devo dire che quando ero piccolo con i vecchi partigiani comunisti del quartiere era come stare in un villaggio dei puffi: si tramandava una sorta di buonsenso, la lotta contro i prepotenti, l’essere giusti. Questo quartiere si chiama San Marco Pontino. È stato davvero una culla. Qui sono stati accolti i siciliani del Belice. C’è nato Enrico Martelloni, rivoluzionario contro gli austriaci nel 1848. Poi ci ha vissuto Piero Ciampi. I muri hanno anche loro un’importanza. Il luogo in cui sei cresciuto ti entra dentro. Se vai al paese in cui è nato Pavese, pensi a quella sua fantastica poesia: Lavorare stanca. C’è una forza poetica in quelle strade. È una sorta di mia spiritualità credere che le anime lasciano dei segni.
A Ciampi sei molto legato. Quanto c’è di lui in Cos’hai da guardare?
Più che Ciampi ci troverei John Fante. Il Fante della Strada per Los Angeles. C’è la tragedia che esce sempre fuori con la goliardia. Forse lo avrei dovuto intitolare Il solito cretino perché è come se io avessi, non so se in dono o disgrazia, un bambino dentro. Me ne accorgevo quando mia madre mi sgridava fino alla fine o quando lo fa ora mia figlia, che è piccola. Quelli che vengono sgridati sono quelli che hanno più difficoltà a entrare nel mondo degli adulti: non concepiscono proprio una vita da prendere sul serio. A proposito, Livorno è un buono spunto per ripensare la frase “cenere sei e cenere ritornerai”. Ecco, a Livorno io direi “merda sei e merda morirai”. Qui c’è questo senso del non prendersi sul serio e di condividere la vita con tutti. Per questo Livorno è bella.
Hai iniziato con una band, L’Ottavo Padiglione, poi hai continuato con una carriera da solista, ora hai scritto un libro. E in futuro?
Continuerò ad essere sempre questo saltimbanco da strapazzo che le prova tutte. L’importante è fare cose che ti divertono. Alla fine quando vado sui palchi, anche quando trionfo, non è che sono proprio contentissimo: ho paura di trovarmi in camerino con della gente fanatica e insopportabile. Sicché mi piace anche l’insuccesso. La prima regola del clown è che devo divertirmi io perché allora si divertono anche gli altri.
E come si fa per diventare clown?
Ci vogliono tante botte e molte esperienze… Guarda, è come la metafora del caffè che mi è venuta ieri: se vuoi gustarti il buon caffè devi aver bevuto tanta ciofeca. Perché solo così ne riconosci il sapore. Quando mi danno la ciofeca, mi incazzo perché… sono un buon caffè! Capito?
Hai partecipato a parecchi film, con Virzì e altri registi. Ti diverti a fare l’attore?
No, è quando arriva il bonifico che mi diverto molto di più. Te lo assicuro. Nel film, sai, sei un po’ un burattino… per quanto poi tu sia abbastanza bravo e impari bene le parti, a meno che non ti sei ubriacato la sera prima, alla fine sei nella storia di un’altra persona. E a me non diverte granché.
Quante donne ci sono nel libro, escluse tua madre e tua figlia?
Non molte, dai. C’è la moglie… poi c’è una ragazza molto importante… che ovviamente è sempre l’ultima. Cioè, l’ultima è sempre quella più importante perché se non parli bene di lei poi le girano i coglioni e ti rovina la vita. Dunque, vi do un consiglio: dovete sempre parlare bene della donna con cui state al momento. (ride)
Che insegnamento c’è in questo tuo libro?
Sono abituato ai dischi per cui direi innanzitutto: masterizzatelo, non compratelo. Forse però costa di più fare le fotocopie… quindi siete costretti a comprarlo. Insegnamento: penso che sia la storia di un uomo-bambino, una figura che in quest’epoca sta scomparendo. Per me fare questo libro è stata anche la voglia di ricominciare, di riscoprirsi anche uno che sa un po’ scrivere. Perché mi sono accorto che poi come scrittura non sono male. Me lo dicevano anche gli editori. Sai, fare canzoni non è mica facile. Scrivere un libro è bello perché ha un percorso. Io ho cercato di dargli un ritmo un po’ musicale e di scrivere un film della mia vita.
Come definiresti un uomo-bambino?
Con questo pensiero: ciclope mi arrampicai su montagne cosmiche per poi cadere formica nel dirupo di uno scalino, ma uomo medio non fui mai. Sempre guardai la vita con gli occhi di un bambino.