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Boosta «La mia musica indefinita riflette il caos in cui viviamo»

Il tastierista e co-fondatore dei Subsonica pubblica l’album strumentale ‘Facile’. «Ero stanco della canzone pop, di strofe e ritornelli. Questo disco è la colonna sonora del silenzio di chi ascolta»

Foto: Davide D'Ambra

Quando s’è trattato d’annunciare il disco su Instagram, Boosta ha fatto una cosa divertente: ha inventato un hashtag. Quello che gli è venuto per descrivere Facile, l’album strumentale che pubblicherà domani, è mezzo serio e mezzo ironico. È anche un po’ kitsch: #strumentaleromanticoitaliano. «Ok, sarà ai confini del kitsch, ma è appropriato: questo è un disco strumentale, ha melodie che trovo romantiche e io sono italiano. A volte le cose ovvie sono quelle vere». E ridendo aggiunge: «Inutile fare i fenomeni».

Facile non somiglia per niente all’altro disco solista che Boosta ha pubblicato quattro anni fa, La stanza intelligente. Quello era un album di canzoni pop pieno di ospiti, questo mette in fila una dozzina di strumentali per pianoforte ed elettronica che vogliono essere «la colonna sonora del silenzio di chi ascolta». Sembra pretenzioso, ma ha un senso ce l’ha: è un disco pieno di spazi, di vuoti, di silenzi appunto che l’ascoltatore è chiamato a riempire con l’immaginazione e che permettono a piccole variazioni timbriche, melodiche e armoniche di emergere con una forza espressiva che in un altro contesto non avrebbero. Se vi piace incasellare la musica potete chiamarla neoclassica, come quella di Ólafur Arnalds e Nils Frahm, ma Boosta non gradisce e ha pure ragione: «È un termine che non vuol dire niente. La musica è musica».

Lui, del resto, è un tipo con una visione molto ampia. Dire che gioca su più tavoli sarebbe sminuente. Tastierista e co-fondatore dei Subsonica, deejay, produttore, pianista, compositore di colonne sonore, educatore, conduttore televisivo e radiofonico, scrittore, autore per terzi (Mina, presente?) sono solo alcune cose che è, che fa. Una delle ultime è stata andare in giro quest’estate con pianoforte e strumenti elettronici in uno spettacolo chiamato Boostology in cui la gente non sapeva che cosa avrebbe sentito, giacché il progetto di Facile non era ancora stato annunciato. «E lì, sul palco, la musica è tornata ad essere un dono».

Come ti è venuto di fare un disco del genere?
È una parte di me che ho sempre coltivato. Ero stanco del formato della canzone pop, dell’obbligo di mettere assieme strofe e ritornelli, di fare musica con un senso di compiutezza. Mi sono preso la libertà di fare quel che mi piace senza alcuna ansia. Ho ancora voglia di perdermi nei suoni con curiosità fanciullesca.

Ecco, l’incompiutezza. L’incertezza, direi. Molti pezzi di Facile sembrano descrivere un’attesa. Ci si aspetta uno sfogo, una risoluzione che però non arriva mai. Ha senso?
Sì, perché in questo momento non mi sento di fare musica finita, non sento l’esigenza di una voce forte che canta una melodia precisa.

E perché?
Perché è un momento confuso in cui siamo tutti vulnerabili, non sappiamo che cosa sta succedendo attorno a noi. E questa cosa si è riverberata nel disco.

Foto: Davide D’Ambra

Spiegandomi l’hashtag hai parlato di melodie, però molti pezzi del disco non sono melodici. Sono basati piuttosto su moduli che si ripetono con piccole variazioni. Manca uno sviluppo melodico più ampio, no? Sono miniature che fanno venire in mente Satie e non il gusto melodico romantico.
È che sono affezionato al concetto di miniatura e alla concentrazione, all’attenzione, alla difficoltà che esige. È tipico della mia scrittura usare moduli armonici. Quando poi entra un accenno di melodia la musica diventa emozionante. È come guardare un panorama e poi mettere a fuoco un dettaglio. Ho scritto anche pezzi con più melodia, ma sono rimasti fuori. Potrebbero diventare un altro disco o un EP. Vorrei che questo disco fosse la colonna sonora del silenzio di chi ascolta. Gioca con gli spazi. Qualunque nota dopo lo spazio assume un’identità più forte di un virtuosismo.

Ecco, tu non sei un virtuoso del pianoforte.
Ho la tecnica che mi serve per suonare quel che ho in testa. E quando non ce l’ho, studio per raggiungerla.

Quindi a 46 anni studi ancora? Quanto tempo dedichi all’esercizio?
Cerco di essere disciplinato. Vado in studio al mattino presto, sto una o due ore al pianoforte. Suono pezzi che conosco e ne imparo di nuovi dagli spartiti, faccio un po’ di esercizi. So che tecnicamente suono meno bene di quando avevo 16 anni e studiavo tantissimo. Allora suonavo alla perfezione, chessò, Teen Town dei Weather Report. Adesso ci sono passaggi in cui faccio una fatica incredibile. Lo accetto: sono meno strumentista e più musicista.

I pezzi del disco sembrano provenire da uno spazio, da un ambiente. Dipende dalla ripresa, dagli effetti, da che cosa?
L’idea dello spazio è molto bella: ti dà modo di viaggiare in larghezza, lunghezza, profondità. Ho la fortuna di avere il mio studio con i miei pianofortini, i miei strumentini, i miei vecchi effetti. Mi sono comprato quattro microfoni belli. In Una vecchia mappa ad esempio ci sono il pianoforte e un vecchio eco della Roland, il 501. Altrove c’è un pianoforte elettrico con note ribattute in modo veloce affogato nel riverbero a sua volta affogato nel distorsore. Non ci sono tanti campionamenti a parte la mia voce in Diamond e delle tastiere in Viva. Ho tanti strumenti ed effetti in studio, li compro di continuo, sono come una ragazza che va matta per le scarpe. Perché gli effetti non sono colore. Diventano suono. Diventano contenuto.

Quale strumento c’è all’inizio di Lacrime di San Lorenzo? Sembra un giocattolo.
È un music box, una tastierina giocattolo. Dopo quell’esperimento sono impazzito e ho comprato un music box vero con i rulli e la foratrice. È diventata la mia passione: foro i fogli, li butto dentro e sento quello che suona. Vado matto per queste stupidaggini.

C’è un percorso nella track list? Sembra che il piano si confonda sempre più in questo ambiente di effetti e manipolazioni.
Ho pensato la sequenza come un viaggio e l’ho diviso in due pensando al vinile, con La danza delle api alla fine del lato A.

In un disco strumentale i titoli vengono ex post?
I titoli stanno agli strumentali come i testi stanno alle canzoni. Mentre suoni, ascolti, mixi un pezzo pensi a un titolo che deve raccontarlo e suggestionare. È un esercizio meraviglioso.

Quando hai cominciato a suonare il pianoforte?
Ho sempre saputo di volerlo suonare e a 6 anni ne ho chiesto uno ai miei genitori. Mi ci sono avvicinato e poi allontanato, come tutti i ragazzini che a 10 anni studiano solfeggio e si rompono le palle. Ho tenuto duro. Ho fatto il Conservatorio da privatista, senza finirlo. Non era la mia strada. Idem per i quattro anni in cui ho frequentato i corsi del Centro Jazz Torino. Diciamo che ho studiato quello che mi serviva per arrivare a fare quello che avevo in testa. Ho fatto il mio primo concerto con un gruppo a 15 anni, nel 1989. Mi sono pagato le rate degli strumenti facendo piano bar.

Dove?
In un ristorante che aveva un pianoforte a coda. Il mercoledì, il venerdì e il sabato suonavo per le signore e i signori che uscivano da teatro. L’ho fatto dai 18 ai 20 anni. Suonavo di tutto, da Mina e Lauzi fino a qualche pezzo classico. Era un ristorante elegante, la musica doveva essere poco invasiva. La ricordo con affetto, quell’esperienza.

Pagavano, quindi?
Mi dissero: 100 mila lire a sera per tre serate. E io mi sono fatto i conti: quindi 300 mila lire a settimana, fanno un milione e 200 mila al mese, mica male per un diciottenne. E loro: no, facciamo il tre per due, sono 200 mila lire per tre serate (ride). In vita mia ho suonato con tutti, di tutto. Anche il liscio. Non mi sono mai sentito né musicista rock, né elettronico, né classico. Mi sento musicista.

Oggi si parla di fine dei generi, un tempo era più strano far parte di vari mondi, no?
C’era più ghettizzazione. Quando avevo 15, 16 anni a Torino c’era una scena jazz eccezionale. Un giorno un chitarrista pazzesco, uno dei più famosi d’Italia di cui non dirò il nome, è passato davanti al vetro della sala prove dove suonavo col mio gruppo. Non dimenticherò mai la sua espressione disgustata.

Foto: Davide D’Ambra

Com’è stato fare concerti nell’estate del Covid?
Ho sentito tanta gratitudine. La mia, per la possibilità di stare sul palco. E incredibilmente quella delle persone. Ho ascoltato un silenzio diverso e applausi grati. La musica è tornata ad essere un dono. Non so spiegartela meglio di così.

Ma tu l’hai capito chi viene a sentirti? Sono fan dei Subsonica?
Sai che non l’ho capito? Vedo un pubblico eterogeneo. Ci sono fan dei Sub, ma non credo tantissimi. Più che altro vedo persone curiose. Sabato scorso ho suonato al Teatro dei Rinnovati in Piazza della Campo a Siena. Bellissimo. Le maschere del teatro mi hanno ringraziato per la «bella serata inaspettata». Credo che sia uno dei complimenti più belli che abbia ricevuto.

Su Instagram scrivi che «gli spettacoli educano, sconvolgono, rilassano, intrattengono, interrogano chi li guarda e chi li fa». Non è pure troppo?
I concerti sono una scuola continua. Gli spettacoli sono anche intrattenimento e una valvola di sfogo, certo, ma alcuni possono essere un momento di crescita. La musica ispira. Se non avessi visto certi spettacoli avrei avuto meno stimoli, meno voglia di fare, di competere. Se a 12 anni non avessi visto Bon Jovi che vola sopra la folla osannante nel video di Livin’ on a Prayer non avrei cominciato a fare il musicista e chissà che cosa farei adesso. In un Paese dove c’è stagnazione e qualcuno formalizza l’idea di decrescita felice – felice un cazzo – la musica è uno degli ultimi ascensori sociali che abbiamo.

Non è che quel dicono i trapper? Guardateci, veniamo dalla periferia, non avevamo mezzi, non ci hanno dato alcuna possibilità, eppure grazie alla musica ce l’abbiamo fatta.
Eh no, perché quella è affermazione di sé, è una cosa autoreferenziale. La musica deve essere uno strumento per gli altri. Non dico che cambi la vita, non la cambia più oggi, ma nel mondo che sogno la musica è utile per la gente. Ci interessa sapere i particolari della vita e del lavoro dei grandi, di David Bowie o di Bruce Springsteen, ma più di ogni altra cosa ci interessa sapere in che modo la loro musica è stata utile nelle nostre vite.

Ma davvero stai prendendo il brevetto di pilota di linea?
Ci ho provato, ma sono uno studente fuori corso, ogni tanto do degli esami e ogni tanto smetto. Una dozzina d’anni fa mi era venuta improvvisamente paura di volare. L’ho affrontata frequentando la scuola di volo e ho preso il brevetto. Ora ho 300 ore di volo. A quel punto mi è venuta voglia di prendere anche il brevetto di pilota di linea. Lassù mi sento a mio agio. Teoricamente ho tempo fino a 65 anni per diventare pilota di linea.

Sei il nostro Bruce Dickinson.
Mi tengo libere tutte le possibilità: magari scopro di essere un ottimo pilota di linea, magari scopro che sono un bravissimo agricoltore. Sai qual è il grande privilegio di essere musicista? Mantenere lo spirito un po’ fanciullesco. A 46 anni non so che cosa farò da grande. Posso dire che la prima parte della vita è stata intensa. Vorrei che la seconda lo fosse altrettanto.

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