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Bootsy Collins: «Le tragedie come la pandemia ci rendono tutti uguali»

Dopo aver pubblicato ‘Stars’, un singolo con Cornel West e Béla Fleck, il leggendario bassista riflette sul potere sulla musica, gli insegnamenti di James Brown, la morte di George Floyd. «Ripensiamo le nostre priorità»

Foto: Larry Hulst/Michael Ochs Archives/Getty Images

Bootsy Collins ha provato tante sensazioni diverse mentre il coronavirus fermava il mondo, ma più di tutto si augura che le persone approfittino del momento per pensare al ruolo che interpretano nel grande schema delle cose. «Credo che la pandemia sia una tragedia, ma ci dà la possibilità di fare un reset e riflettere sulle nostre vite, su cosa è importante, così da ripensare alle nostre priorità», dice. «Prima del coronavirus, tutti avevano fretta. Adesso mi sembra che la gente si prenda del tempo per pensare alle cose. È una cosa terribile, ma anche positiva. A volte abbiamo bisogno di fermarci».

In questo momento di riflessione, Collins – che nella sua carriera ha suonato il basso con James Brown e i Parliament-Funkadelic – ha deciso di scrivere una canzone sul senso di comunità. Aveva quasi finito di registrare il suo nuovo album The Power of the One, in arrivo a ottobre, ma ha preferito fermarsi per lavorare a Stars, un nuovo singolo in cui collabora con EmiSunshine, un cantante di 16 anni, il filosofo e attivista Dr. Cornel West, il maestro del banjo Béla Fleck, il batterista Steve Jordan e il cantante Olvido Ruiz.

La canzone si apre con una classica introduzione alla Collins, che dice: «Ah, the name is Bootsy, baby», e poi elenca i motivi per cui la musica è importante. Guidata da una incredibile linea di basso, la densa traccia R&B continua con la voce di EmiSunshine («Non può continuare così per sempre») e un discorso di Dr. West sulla necessità di fare comunità. Tutti i guadagni raccolti dal pezzo verranno donati al Relief Fund di MusiCares.

Nonostante Stars sia stata registrata prima dell’omicidio di George Floyd, il brano ha cambiato significato nelle ultime settimane. «Sacrificare la propria vita è il prezzo più alto da pagare per aiutare gli altri. George Floyd l’ha pagato», dice Collins. «Cosa hanno ottenuto in cambio i vivi? Perché non cominciare con un po’ di vera giustizia?».

Quello che lo colpisce di più del messaggio del pezzo, però, è quanto sia importante per tutti trovare conforto nella musica. «La musica ti permette di tirare fuori le cose, ed è per questo che le canzoni sono piene di emozioni», dice. «Quando senti qualcosa che ti emoziona, è come il primo amore. Credo che tutti vogliano sentirsi così. Per questo avevamo bisogno di fermarci, riflettere e rinegoziare le nostre vite. Non possiamo più dimenticare cosa provano gli altri. Questa mi sembra la cosa più importante oggi».

Com’è nato il pezzo? 

Stavo lavorando al nuovo album, eravamo al 75% e poi è arrivata la pandemia e mi ha portato verso un’altra direzione. Credo abbia sorpreso tutti. Ho pensato che dovevo fare una canzone su questo momento per aiutare gli altri e sollevare il morale. Ho esplorato il mio archivio e ho trovato le melodie giuste. A quel punto ho chiamato EmiSunshine per il testo.

Che messaggio volevi mandare? 

Stars parla di come la sofferenza ci renda tutti uguali. Le tragedie ci permettono di unirci. La canzone lo dice in maniera un po’ tradizionale, ma mi sembra giusto. Non rompe le palle a nessuna religione, a nessuna idea politica. Non è necessario. Anzi, è meglio parlare direttamente alla gente.

Che effetto ti fa ascoltarla mentre tutti protestano per la morte di George Floyd? 

Tutti vorremmo essere trattati con uguaglianza, e la giustizia è l’unico modo per arrivarci. Se vedi qualcuno affogare, non puoi restare a guardare. Una società umana avrebbe agito per aiutarlo.

In Stars ci sono collaboratori di tutti i tipi, da Béla Fleck a Dr. Cornel West. Come hai fatto a convincerli tutti? 

Avevamo già lavorato insieme in passato, e questa era la tempesta perfetta per coinvolgere tante voci diverse, colori diversi e culture diverse. Farlo ha reso il pezzo ancora più potente, perché parla a tutti. È stato bello collaborare con loro, e credo sia successo nel momento giusto.

Hai lavorato al pezzo mentre registravi il tuo nuovo album. Come sta andando?
Il disco si intitola The Power of the One. Stars è la ciliegina sulla torta. Ovviamente l’album ha più canzoni festose, pezzi uptempo e ballate. È pieno di culture diverse e artisti di ogni tipo, dai giovani come Brandon “Taz” Niederauer, un pazzo della chitarra, fino a George Benson. È un disco eccitante, abbiamo anche rifatto If You Want Me to Stay di Sly Stone.

Come hai passato il tempo a casa durante l’isolamento? 

Quando abbiamo capito che saremmo dovuti restare in lockdown, io stavo registrando nel mio studio casalingo e mi sono abituato subito. Ma devo dire che questo nuovo stile di vita sembra ancora strano. Resto sano di mente solo grazie alla musica.

Il titolo del disco fa riferimento al periodo in cui suonavi nella band di James Brown, 50 anni fa. All’epoca “the one” si riferiva al primo accento di una battuta, che significa per te adesso? 

Musicalmente è la stessa cosa: James mi ha insegnato l’importanza del primo accento e adesso io la devo tramandare al resto del mondo. Per il resto, abbiamo tutti un “the one” diverso, nessuno ha lo stesso. È questo il bello. Le cose si fanno complicate quando qualcuno cerca di imporre il suo sugli altri. Non è necessario. Non dobbiamo avere lo stesso padre per piacerci, l’importante è rispettarci.

In fondo, è l’unica cosa importante. Non devi costringere gli altri a ricambiare il tuo amore, puoi amare chiunque. Parlare di queste cose mi fa tornare in mente l’epoca degli hippie. È stato un periodo meraviglioso, siamo stati fortunati ad averlo vissuto e non credo che i giovani d’oggi abbiano mai sentito quel tipo di libertà. Sto cercando solo di tramandare quel che ho vissuto, questo è un mondo nuovo e cambia ogni giorno.

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