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Brandi Carlile: «Le hit sono il bacio della morte»

Il rifiuto della femminilità nella voce, la maternità, l'amore per Joni Mitchell, Dolly Parton e Bonnie Raitt, la vita «in una setta» durante la pandemia: parla una delle grandi cantautrici americane

Illustrazione: Mark Summers per Rolling Stone US

Brandi Carlile pensava di prendersi una pausa dopo aver finito di scrivere la sua autobiografia Broken Horses. E invece quando l’amico Bernie Taupin le ha mandato alcune poesie, s’è messa a scrivere un altro album un po’ come quando, da bambina, i testi di Captain Fantastic and the Brown Dirt Cowboy l’avevano spinta a cominciare a scrivere canzoni.

Il disco che ne è venuto fuori, In These Silent Days, è tra le sue cose migliori. «Scrivere il libro mi ha fatto capire meglio la mia stessa vita, il perché sono come sono», spiega. «È stata una bella fonte d’ispirazione». In questa intervista, Carlile racconta com’è cambiata la sua voce, la vita in famiglia e il sogno di entrare nei Soundgarden.

Col passare degli anni la tua voce è diventata più potente e limpida. Quanto dipende dall’esercizio e quanto dall’avere superato un blocco psicologico?
Eh, c’è tanto dentro questa domanda. Quando suonavo in bar pieni di fumo, urlavo pensando che fosse una cosa punk. Mi piaceva. Avevo una voce roca e volevo sembrare una dura. E poi c’erano anche questioni di genere. Non volevo una voce femminile o troppo chiara. Volevo gridare, urlare e resistere, diciamo così.

Con resistere intendi respingere quella femminilità stereotipata?
Ho iniziato a liberare la voce da tutti i preconcetti di genere nello stesso periodo in cui cercavo di guarirla da quelle performance brutali. Mi ero fatta davvero del male. Ho messo in discussione il mio rapporto con alcol e droghe, su cosa significava vivere i tour in modo autodistruttivo. Quando ho ripreso il controllo della mia vita, lo stesso è successo con la voce. Soffre, guarisce e si esprime direttamente con l’anima. Rivela cosa accade nel mio corpo e nella mia mente.

Sei diventata una fan di Joni Mitchell tardi, grazie a tua moglie Catherine. Poi però tu e Joni siete diventate amiche. In che modo ti ha influenzata?
Ho beneficiato del fatto di aver trovato l’amore così tardi, mi sono sposata dopo i miei fratelli e sono diventata madre superati i 30 anni. Il mio amore per Joni Mitchell si è sviluppato più tardi di altri, che erano più viscerali. Mi ha cambiato in quanto artista e persona. Quando T Bone Burnett me l’ha fatta ascoltare, più o meno nel 2006, ho sentito una femminilità impudente. Ho avuto come un rigetto. Mi ritraevo non appena sentivo qualcosa che mi pareva troppo femminile. Per cambiare mi sono dovuta evolvere.

Vivi in una situazione unica, un complesso dove ci sono amici, parenti, ex fidanzate, compagni di band e la tua famiglia. Com’è accaduto?
Credo che molte persone queer, quando raggiungono una certa età, si arrendono all’idea di dover frequentare solo chi le capisce. Nemmeno le migliori intenzioni da parte della tua famiglia garantiscono che verrai vista nella tua unicità. Ecco perché  un sacco di persone queer si trovano in situazioni come la mia, quasi una piccola setta, ma si tratta di una vita incredibilmente bella. Mio padre dice che deriva dall’isolamento e dal senso di rifiuto, non importa se reale o solo percepito, che ti porta a circondarti di persone che ti sostengono. Cerchi l’amore incondizionato.

Setta è una parola strana per definire la tua situazione.
Sì, durante la pandemia sembrava davvero una setta, perché non vedevamo nessun altro. Eravamo grati e allo stesso tempo spaventati.

Cosa pensi che ti direbbe la Brandi Carlile adolescente?
Non riuscirebbe a capacitarsi di cosa mi è successo. La capirei. Mi accompagna tutto il tempo e dice: «Ma che cazzo sta succedendo?».

Nel libro dici che sopprimi la tua parte giovane in situazioni come i Grammy. Che significa?
Devo metterla da parte: «Non sei la benvenuta qui, devo lavorare». È assetata di vittoria e nervosa, vuole disperatamente essere accettata e realizzare i suoi sogni. E non capisce che sta già succedendo. La mia vita ora è diventata questo: capire che non devo sentire più quella fame, che sono accettata, che i miei sogni si stanno realizzando. Lei invece ha paura che tutto possa cadere a pezzi.

Chi ti ispira dopo tutti questi anni?
Dolly (Parton, nda). Dio, Dolly. Ma lei è completamente diversa da me. È un personaggio pubblico completamente diverso musicalmente e spiritualmente. È una bella persona, sa costruire ponti tra le persone. Bello il modo in cui sta al mondo. Non so dove saremmo senza di lei, dico sul serio. Poi, se parliamo di come vorrei essere vista – o considerata tra venti o trent’anni – allora direi Bonnie Raitt. È l’incarnazione di dignità, indipendenza, integrità artistica. E John Prine, perché non ha mai smesso di migliorarsi come autore.

In che modo la famiglia in cui sei cresciuta influenza il modo in cui cresci i figli?
Chiedo consigli e di avvertirmi se sto facendo sempre gli stessi errori. Ma mi piace pernsare che ci siano anche cose eccentriche e poco ortodosse, in senso buono, che sto trasmettendo loro. La gente mi vede nel mio ruolo di mamma e pensa che sia un personaggio di quel film, Captain Fantastic. Siamo effettivamente diversi e io voglio vivere diversamente. Voglio che i miei figli siano persone interessanti, virtuose e felici. È controcultura, un modo diverso di vivere in una comunità: ama te stesso, ma non metterti al primo posto.

La nuova Mama Werewolf sembra parlare della paura di lasciare in eredità le dipendenze di tuo padre. È così?
È la canzone preferita dei ragazzi. Loro dicono che ho la mano pesante, che non posso toccare nulla senza distruggerlo. Per loro non parlo, grido. Comunque sì, hai interpretato bene il pezzo. È una canzone di Tim Henseroth (un musicista della sua band, nda), ma ho subito capito il messaggio e mi ci sono rivista. Ho pensato: neanch’io voglio passare il peggio ai miei figli. In quanto figlia di un alcolizzato, voglio controllare il mio temperamento, la mia tendenza alle dipendenze. C’entrano la vulnerabilità e il volere ammettere che noi genitori non vogliamo trasmettere i tratti peggiori della nostra generazione.

The Mother, dal tuo ultimo album By the Way I Forgive You, è una delle canzoni più potenti scritte sull’essere genitori. È difficile suonarla senza commuoversi?
Lo è stato per tanto tempo. Poi è diventato più facile, sono riuscita a scavarmi una strada e sfruttare la memoria muscolare. Ma ancora oggi, se vedo uno del pubblico che piange, perdo il controllo. E la cosa strana è che succede di più con gli uomini. Non ho ancora capito perché. Ma mi capita di vedere maschi con il volto pieno di lacrime mentre la canto. Non so cosa provino, se c’entra con l’essere genitori – è uguale se sei uomo o donna – o se pensano alla madre. Ma quando succede, mentre canto il pezzo, sono a tanto così da crollare.

Non ti piace l’idea di scrivere una hit?
Mi sembra una cosa di un altro universo. E sai, io sono sempre stata anti-hit, tutta la carriera. Le hit sono il bacio della morte. Non vuoi una hit, vuoi che le persone amino tutto il disco, che cantino tutte le canzoni. Chi vuole vedere il pubblico che se ne va dal concerto dopo che hai suonato una hit? Non fa per me.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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