Quando un tuo brano riesce a superare i 43 milioni di ascolti su Spotify, non c’è algoritmo che tenga, nella tua carriera sta succedendo qualcosa di molto importante; roba grossa. Se poi quel brano è il singolo che anticipa il tuo prossimo disco, l’aspettativa intorno a quel lavoro cresce a dismisura. Bresh si trova proprio in questa elettrizzante posizione; la sua Angelina Jolie è stata un successo clamoroso e adesso il suo freschissimo album, Oro blu, potrebbe lanciarlo in orbita. Se il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista, Bresh è partito molto bene per affrontare questo momento delicato.
Il nome di Bresh, inizia a girare con una certa insistenza nel 2017 con l’uscita di Amici miei, un mixtape condiviso con i suoi fratelli di sempre, Tedua, Nader, Disme, Vaz Tè e Nebbia, una convergenza tra una serie di realtà collettive della scena trap/drill ligure come Wild Bandana e Drilliguria. Il mixtape diventa un piccolo culto nell’underground italiano e – sospinto dal successo nazionale di Tedua e di Izi – mette prepotentemente la Liguria nel radar della trap e della drill italiana. Nel 2020 Bresh pubblica Che io mi aiuti, il suo primo disco solista nonché primo lavoro in major, che nonostante la concomitanza con l’esplosione della pandemia riesce a ottenere ottimi risultati soprattutto nelle collaborazioni con Rkomi, Izi e Tedua, confermando le aspettative sul talento genovese, capace, come pochi nel genere, di mischiare rap e cantautorato, melodia trap e testi maturi (a volte anche decisamente impegnati). La particolarità di Bresh, difatti, è questa capacità di portare nel linguaggio della trap la mentalità proletaria, viaggiatrice e sindacalista che incarna la sua città, una corda tesa attraverso la storia di Genova. Cresciuto a pane e De André, Bresh porta coi suoi testi una ventata portuale che si allontana dai triti topos del genere, un viaggio verso un altrove da conoscere.
Abbiamo avuto l’occasione di fare una lunga e densa chiacchierata con Bresh per l’uscita di Oro blu e ci siamo trovati di fronte a un ragazzo maturo, tutt’altro che viziato da questo successo improvviso e che ai weekend di bagordi preferisce le domeniche popolari allo stadio.
Oro blu arriva a due anni esatti da Che io mi aiuti, il tuo primo album, uscito proprio all’inizio della pandemia. Cosa è successo nella tua vita e nella tua carriera in questi due anni?
Non essere un big è stata una piccola fortuna; sono riuscito comunque a fare un tour estivo con un bel po’ di sold out. Senza entrare nel racconto di quanto il mondo è cambiato in questi due anni, sicuramente per me sono cambiate tante cose: il mio modo di lavorare in primis, e sicuramente siamo cambiati sia io che Shune, che i dischi li ha prodotti. Lo scorso disco aveva avuto una lunga gestazione, quasi tre anni, ed era una raccolta di tracce del passato unite e assemblate. Questo disco invece è stato fatto da ottobre ad ottobre, un periodo definito, un blocco. Ci siamo dati un metodo, è stato più semplice.
Che disco è rispetto al precedente?
È un disco che nasce e arriva durante una pandemia e per forza di cose se la porta dentro. Sono anni in cui tutti abbiamo iniziato a guardarci con più insistenza, anche se io di mio sono già molto introspettivo. Sono cambiati i rapporti, i modi di relazionarti, di conoscerci. Dentro si trovano queste cose.
Oro blu è stato anticipato dal singolo Angelina Jolie, un successo pazzesco, forse anche difficile da prevedere per la sua portata. Ti sei una ragione del perché quel brano ha funzionato tanto bene?
Sapevamo che era un pezzo fresco. Era piaciuto molto a chi l’avevo fatto ascoltare prima dell’uscita, ma in realtà non volevo diventasse il primo singolo perché è un brano che parla di donne e non volevo sembrare il ragazzetto che parla di donne. Anche se poi ho scoperto che quando parli di certe cose, quando parli d’amore, funziona sempre, soprattutto nel mio genere.
Subito dopo è uscito Andrea, che invece è un brano che va da tutt’altra parte, molto introverso, tempo fa l’avremmo definito conscious. Andrea, nome a parte, mi sempre decisamente più tuo.
I due brani vicini sono un bel contrasto. Quando Shune mi ha passato quel beat bellissimo, ci ho messo molto prima di scriverci, di trovare la quadra. Ricordo di aver scritto la topline in macchina, sul telefono, da solo. E da lì che è uscito il ritornello, quell’”Andre cantava cantava cantava”. E da lì ci ho costruito la storia attorno.
C’è un verso del brano che trovo molto interessante: “Per informarsi al meglio serve una dose di rassegnazione che fa da costituzione a chi la verità pretende”. Cosa intendi con questo passaggio?
Oggi è difficile ottenere la verità nell’informazione, ci sono troppe intermediazioni tra il fatto accaduto e la verità scritta. I giovani della mia generazione devono sapere che quando sposano un’idea, un credo politico o una certa fazione non è detto che si trovino davvero a supportare quello che credono. La verità non è mai quella che sembra al 100%.
A tal proposito, visto anche il tuo modo di scrivere, molto più maturo e impegnato della media del genere, pensi sia arrivato il momento storico per la trap di politicizzarsi?
Se la trap si politicizzasse, cambierebbe proprio il genere in sé; la cosa va di pari passo. La trap è anche trap per gli argomenti scelti. Sarebbe però bello avere più militanza sulle idee, come nei ’70 o negli ’80, ma questo è sempre più difficile. A politicizzarsi non saranno gli artisti, la musica che si schiera incontra sempre difficoltà nella distribuzione, ma i nerd, i geek; la rivoluzione sarà digitale.
La tua musica ha un legame indissolubile con il tema del viaggio. Anche Oro blu, ad esempio, apre con Ulisse, di cui il viaggio è tema centrale. Un verso dice “proverò a sentirmi a casa”. Cosa significa per te viaggiare?
È bello spostarsi, è bello partire, andare ovunque, ma ogni viaggio deve riportare al punto di partenza, altrimenti non è un viaggio ma un trasferimento e basta. Durante il viaggio è sempre bello provare a sentirsi a casa per provare a capire come si vive in quel luogo. Se no non ti porti a casa nulla. Proverò a sentirmi a casa va proprio in quel senso, ovvero usare il proprio punta di vista per vedere come saremmo stati se fossimo cresciuti altrove.
E come hai vissuto questi anni in cui viaggiare è stato quasi impossibile?
Malissimo. Ti faccio un esempio; dalla consegna del disco ad oggi ho avuto due mesi in cui potevo viaggiare. Volevo girare l’Indocina, da Singapore ad Hanoi, un mese dritto con lo zaino in spalla, ma con il Covid è saltato tutto. Volevo poi andare a pescare su un peschereccio sulla costiera amalfitana, ma anche quello non è stato possibile a causa delle restrizioni.
Hai sempre raccontato con fierezza e umiltà del tuo passato lavorativo. Come è cambiata la tua vita ora che puoi permetterti di fare da artista? Questa voglia di imbarcarsi su un peschereccio mi fa pensare che la vita dell’artista non sia proprio nelle tue corde.
Mi sono trasferito a Milano dopo la maturità e qui ho venduto scarpe e sconti per la palestra fuori dalle metropolitane, ho lavorato in una cucina, in un panificio, in un bar, nei festival. La vita ora è cambiata, ma – visto che sono un insoddisfatto per natura – mi girano le palle a fare la vita d’artista che non fa un cazzo. Di cosa scrivi poi? Questo è un tema importante che riguarda tutti noi. Il rapper arriva a Milano e sta lì. Guadagna soldi, gira per gli studi, esprime la sua arte, ma poi sta fermo lì. Ma che cazzo. Di cosa parliamo? Cos’è? Questo a me non piace per niente. La mia attività è fare musica e la musica è colonna sonora, ma colonna sonora di cosa se non c’è altro? Per fortuna io ho altri sfoghi, torno sempre dai miei amici, viaggio, vado allo stadio. Nella musica parlo di argomenti che non riguardano la musica. A me questa vita agiata da artista che sta in casa ed esce solo la sera non piace, non soddisfa.
“Ma fare rap che parla di rap e parlare alla gente che ascolta rap è un controsenso, come se i libri parlassero di libri e d’ogni foto stampassimo i negativi”, rappava un giovane Ghemon in Niente può fermarmi.
Ecco, bravissimo, parlo proprio di quello! Io non voglio far musica che parla di musica.
So che sei abbonato al Genoa da oltre dieci anni, qual è il tuo rapporto con il mondo della tifoseria?
Il tifo fomenta il calcio e lo fa vivere, ma è anche il suo darkside, se pensiamo ad un certo mondo ultras bigotto. Il tifo però crea un senso di appartenenza come è successo a me quando ero piccolo, di comunità, che non è scontato al giorno d’oggi. Il tifo è una sottocultura in un momento in cui le sottoculture sono state abbattute. Ora tutti fanno la stessa cosa, ma individualmente, separati. Andare allo stadio alla domenica è un rito, in un momento in cui ci sono sempre meno riti. Ed è importarne avere riti nella società.
È molto interessante quanto dici sui riti e sulla collettività; il tifo è prima di tutto socializzazione.
Aggiungo anche che il tifo è polemica, protesta, resistenza contro il potere, contro una parte di società privilegiata. E oggi che si sta delegittimando il potere, è fondamentale che questa controparte esista. Oggi si tende a giustificare il padrone, lo fa l’operaio quanto lo faccio io. Ma è sempre bene avere una bella distanza dal padrone e saper rompere i coglioni.
Questo è un tema fondamentale; penso ad esempio allo smartworking che porta il lavoro dentro casa e – ancor peggio – porta il padrone dentro le private mura di casa e annulla la distinzione spaziale quanto quella temporale tra giornata di lavoro e tempo lbero.
Vero. Giustificare continuamente il padrone non funziona; è bene avere sempre una buona dose di sindacalismo.
È raro sentir parlare di certi argomenti nel mondo della musica. È stata la tua città a formare in te queste idee?
Sì, Genova ti insegna a rompere i coglioni (ride).
Torniamo a Oro blu. C’è un brano che al primo ascolto mi ha colpito tantissimo, Svuotatasche. Ha un tema semplice ma colpisce per il modo con cui viene trattato, i primi versi sono davvero originali, ma non svelo nulla e lascio che siano gli ascoltatori a farsi quel viaggio. Che significato ha quel brano per te?
Ho pensato allo svuotatasche come a un contenitore dove riuscire a mettere le proprie radici, i ricordi e le esperienze migliori per poi recuperarle quando ci si sente un po’ dispersi. È una metafora semplice, ma che penso di aver trattato con cura.
Il disco ha dei featuring intriganti. Ce li racconti?
Ci sono alcuni membri della mia famiglia artistica, come Rkomi e Izi. Poi Massimo Pericolo, una delle personalità più credibili in Italia. C’è Tony Effe con cui già mi conoscevo e con cui sapevo di andare a fare qualcosa di strano. Lui e Massimo Pericolo danno quel tocco street al disco. Francesca Michielin invece è stata davvero disponibile a mettere la sua voce per il brano di chiusura mentre gli Psicologi sono “quei giovani che parlano ai giovani”; a livello musicale rappresentano qualcosa di grosso che mancava.
Ti faccio la domanda che ti stanno facendo tutti i tuoi fan da quando hai pubblicato la tracklist: come mai non c’è Tedua?
Abbiamo litigato! No, non è vero, scherzo (ride). Abbiamo fatto molte collaborazioni fino ad oggi, ma per questo disco abbiamo deciso di non far nulla e dar maggiore importanza a ciò che faremo insieme più avanti. È solo un piccolo respiro per il futuro.
Ti mancano i tempi in cui eravate tutti assieme a fare un mixtape collettivo e familiare come Amici miei?
Siamo ancora tutti molto uniti, anche se in questo disco loro mancano. Le nostre personalità restano vicine. Questo album è solo un segmento, abbiamo ancora tanto futuro davanti assieme.
Vorrei chiudere con un tuo verso da Se rinasco:”Ma per essere una leggenda non è un gran momento storico”. Ce lo spieghi?
L’opinione pubblica di oggi non è un’opinione pubblica sana. È un’opinione pubblica deviata. I personaggi più influenti non sono davvero delle leggende, non sono di certo quelli che dovrebbero dare l’esempio. Non mi pare che oggi ci sia tanto virtuosismo nell’essere numeri uno. Tanta apparenza, ma poca ciccia.