Brian Eno è un figo. Anzi: è il figo, e questo dovreste già saperlo, non serve andare a ripercorrere la storia della musica, raccontare il suo cammino tappa dopo tappa, stilare l’elenco delle collaborazioni, le cose che ha fatto e quelle che ancora deve fare. Basta osservarlo molto da vicino, mentre si prende gioco dei giornalisti e al tempo stesso controlla continuamente che i loro bicchieri siano sempre pieni di prosecco e che ognuno dei presenti si senta a proprio agio pur tenendo sempre presente che lui è lui e noi non siamo un cazzo.
L’occasione dell’incontro è data dall’inaugurazione della sua nuova personale – Light Music – alla Galleria Bonomo di Roma (aperta fino al 30 settembre), che oltre agli ormai famosi light box – una struttura quadrangolare basata sull’intreccio di led e sul “movimento” della luce come in una sorta di dipinto che muta in continuazione – espone anche gli speaker flower. Vere e proprie sculture sonore in forma di fiori dai lunghissimi steli metallici, che montano al centro degli altoparlanti da cui emergono suoni determinati dalle oscillazioni e che danno vita a composizioni potenzialmente infinite e sempre rinnovate.
Se siete interessati ad acquistare qualcosa, è il caso che sappiate subito che i prezzi variano dagli undici ai quindicimila euro per le opere dal volume maggiore, ma anche che con milleottocento euro è possibile portarsi a casa un piccolo quadro originale di Brian Eno.
Già, Brian Eno: stilosissimo, interamente vestito di nero ma con occhiali dalla mughiniana montatura rossa, in forma smagliante e colmo di una tagliente autoironia. «Prima di arrivare qui ho scoperto che il mio disco, in Inghilterra, è primo in classifica nella categoria dance ed elettronica – lo ripete ponendo forte l’accento sulle parole “dance” and “electronic” – ma sfido chiunque di voi a sapere ballare su quelle canzoni. Anzi, se qualcuno sa come fare me lo faccia vedere subito».
Sta parlando di The Ship, uscito da poco e già noto ai più per essere il disco in cui Brian Eno torna a cantare (se si esclude la collaborazione con Damon Albarn in Heavy Seas of Love): «In realtà non ho mai smesso di cantare, avevo semplicemente smesso di registrare la mia voce. E così quando ho cominciato a lavorare a questo nuovo progetto mi sono reso conto che i brani erano tutti in chiave di do, e provando a cantarci sopra ho scoperto di riuscire a fare il do basso come mai prima d’ora. Forse questo è l’unico vantaggio che mi ha dato la vecchiaia».
The Ship – dice ancora Eno – nasce da un’idea che gli frullava in testa da quarant’anni: quella di far convivere melodia e cantato con le strutture non proprio da classica forma canzone della musica ambient. «In realtà questo disco non era stato pensato all’inizio per essere un vero e proprio album: si trattava di un installazione multicanale che ho realizzato a Stoccolma. Ho cominciato a creare queste canzoni con l’idea che la gente potesse camminarci intorno come se si trattasse di sculture sonore da esplorare».
Poi però in The Ship c’è finita anche una cover di I’m Set Free dei Velvet Underground: «Ho sempre voluto riregistrare quel pezzo, ma non ho mai trovato l’occasione giusta per farlo. Questa versione girava nel mio studio da circa dodici anni, ma non riuscivo mai a finalizzarla o trovare il contesto adatto per pubblicarla. Alla fine mi sembrava che stesse bene con il resto di questo album. That’s it!»
Ogni volta che uno dei giornalisti presenti si dilunga troppo nel fare una domanda, il sarcasmo di Eno torna a farla da padrone: «Domanda troppo lunga. Taglia. Te l’ho detto che sono vecchio. Non voglio passare il resto della mia vita a fare interviste. Alla fine, se c’è una cosa che questo mestiere mi ha dato è la libertà di essere artefice del mio destino. La possibilità di svegliarmi la mattina e non avere nessuno che mi obbliga a fare cose che non voglio fare, ma questo significa anche che non ho nessuno a cui dare la colpa quando sono infelice.»
Quando gli chiedono se dopo essere tornato a cantare su nastro stia pensando di tornare a farlo presto anche dal vivo, risponde secco e perentorio: «No. In questo momento non ci penso proprio», mentre si lascia andare più volentieri quando è chiamato a spiegare le differenze tra la sua opera di artista visivo e quella di musicista: «All’inizio pensavo che fossero due mondi completamente separati, ma col tempo le due cose sono diventate sempre più dipendenti l’una dall’altra. Non a caso mi piace definire le opere che sono esposte in questa mostra ‘ambient painting’, perché in qualche modo lo stile che ho nel dipingere, che si basa su movimento lento della luce, è molto legato al concetto stesso della musica d’ambiente, che non è narrativa ma è uno ‘stato costante’. In pratica ho passato molti anni della mia carriera a trovare un modo per fare musica come se fosse un dipinto, e viceversa.» A essere diverso, ovviamente, è il mercato dell’arte rispetto a quello della musica: “Fare un’opera d’arte spesso equivale a realizzare pochi oggetti ma molto costosi per chi li deve acquistare, mentre i dischi sono roba economica che può essere acquistata da chiunque. Io non ho problemi col mercato, la gente ama vendere e comprare cose e alla fine è così che io mi guadagno da vivere: vendendo cose…»
Ormai si sta facendo tardi e c’è tempo solo per un ultima domanda: «Un ricordo di Bowie?»
«Ecco, lo sapevo! Ho appena perso una scommessa da cento euro! Ero convinto che questa domanda sarebbe arrivata entro le prime tre, e invece eccola qui. Solo ora. E meno male. Mi spiace, ma non rispondo. Ho smesso di rispondere a questa domanda. Basta. Stando a quello che mi chiede la gente avrei dovuto passare gli ultimi sei mesi a parlare della morte di David. Sono certo che potete capirmi quando dico che non lo voglio più fare.»
Che figo. E che adorabile stronzo, Brian.