«Il percorso che sto facendo per diventare un’agricoltrice è ridicolo». Brittany Howard è al William Vale di New York per incontrare la stampa. Sogna un futuro da proprietaria di una fattoria come quella in cui è cresciuta. È uno dei tanti modi in cui si immagina, da aggiungere alla lista dei suoi hobby extramusicali come riparare barche e pescare.
Niente paura: a 35 anni la musica è ancora al centro dei pensieri dell’ex leader degli Alabama Shakes. Il 9 febbraio ha pubblicato l’album What Now a cui ha iniziato a lavorare nel 2020 in una casa affittata a Nashville. È il suo secondo album solista dopo l’acclamato Jaime del 2019, il primo per la Island con cui ha firmato all’inizio dell’anno. È frutto di una ritrovata serenità, che si traduce in alcuni dei suoi brani più solidi e riflessivi.
Hai scritto il disco mentre ancora stavi aspettando fare un vero tour per Jaime. Come è stato?
Francamente, ci avevo messo una pietra sopra. Volevo solo rimanere viva. Stavano succedendo tante di quelle cose nel mondo, Black Lives Matter, il tornado dove vivevo a Nashville, le persone da aiutare a rimettersi in piedi. Erano tutti preoccupati per il lavoro e questo mi rattristava, ma col passare del tempo mi sono detta: è ok non essere in giro a suonare, guarda che spettacolo, la natura che si rianima, gli uccellini… È questa pausa che mi ha fatto diventare più creativa. Ho iniziato a scrivere molta musica con un diverso punto di vista sulle cose.
E cosa hai capito sul tuo conto in quel periodo?
Sono cambiata perché non potevo andare da nessuna parte. Sono stata costretta ad essere a tu per tu con me stessa. Ho dovuto rispondere alla domanda: come voglio che sia la mia vita? Ho attraversato una piccola crisi di mezza età. Ho deciso di cambiare le cose che non andavano, la mia visione della vita in generale, e di non dare per scontate le persone. Sento di essere cresciuta molto, in questi tre anni.
Hai ripensato anche al tuo approccio alla musica?
Vivevo in una casa in affitto e non avevo uno studio. Avevo solo un laptop piazzato in una cameretta per bambini. Mi sono imposta di entrarci, in quella stanza, ogni giorno e registrare qualcosa. Non importa cosa, mi bastava farlo. Non doveva per forza essere roba buona. Era un modo nuovo di procedere per me. Non come in passato, quando mi tormentavo.
Forse è uno degli aspetti positivi dell’invecchiare, rendersi conto che non è necessario trovarsi nelle peggiori circostanze possibili per creare qualcosa di buono.
Pensavo funzionasse così. Quando ho fatto Jaime, ero in una serra e c’erano 40 gradi. Ero convinta che fosse il posto giusto per scrivere. È stato strano essere così rilassata per What Now. Non avevo scadenze. Quando abbiamo fatto Sound & Color (disco degli Alabama Shakes, ndr), mi sono chiusa in cantina dove c’era anche un pipistrello. Ero stressatissima, lavoravo solo di notte, dormivo tutto il giorno, ingollavo caffè alle 2, alle 3, alle 4 del mattino. Pensavo: ecco, è così che si fa un bel lavoro.
Ma perché? Era scaramanzia o cosa?
Forse pensavo che meno limiti mentali mi ponevo, più folle ero insomma e meno avrei giudicato il mio lavoro. Per poi scoprpire che molto semplicemente si può non giudicare il proprio lavoro.
Influiva sulla tua vita extralavorativa?
Non avevo quasi nessuna vita, fuori dal lavoro. E questo era un problema.
Sei ancora in ricerca di un equilibrio?
L’ho trovato. Mica facile. Se sei una persona creativa, gran parte della tua identità sta dentro quello che crei. Non ci sono confini tra le due cose, in quella roba c’è tutta te stessa. Va benissimo, ma se ci fosse anche altro nella vita? Me sono accorta quando ci hanno portato via tutto. È stato spaventoso. Toccava farmi una vita.
E com’è questa vita che ti sei fatta?
Me la prendo con calma, apprezzo di più le persone che ho vicino, la natura, le piccole cose. Anche il sole che entra dalla finestra mi rende felice. Prima pensavo che a farci felici fossero il successo, i premi, i soldi. Ma in una manciata di anni sono arrivata a capire che c’è da essere grati del fatto che l’aria che respiriamo è pulita. In fin dei conti, non c’è alcun premio per chi lavora fino alla morte.
Hai detto che il filo conduttore dell’album è rappresentato dalle pene d’amore e da un’analisi dei tuoi atteggiamenti in amore. Puoi raccontarci qualcosa in più?
C’è un modo per rispondere senza svelare troppo? (Ride) Tendevo ad allontanarmi dalla gente. Sono cresciuta per lo più da figlia unica, ero abituata a stare per conto mio. E così facevo sentire di troppo chiunque entrasse nel mio spazio. E non è per niente carino. L’ho capito e risolto, direi.
Le relazioni sentimentali sono diventate più semplici?
Questo è da vedere. Forse mi lascio intrappolare meno nelle relazioni, una cosa in cui cascano molti, mi pare. Perché è naturale che l’amore faccia stare bene.
E l’amicizia?
Non prendo più le cose sul personale e chiedo agli amici cosa desiderano da me. Prima cercavo solo di fare quel che volevo io. Ora sto più attenta.
Hai fatto parte di un paio di band e adesso hai pubblicato due album da solista. In cos’altro vorresti cimentarti in futuro?
Seguo il flusso della creatività, tutto qui. Se finirò per annoiarmi da solista, farò qualcos’altro. Magari farò metal, prossimamente. Mi piace fin dai tempi del liceo, ma dato che gli Shakes sono decollati non ho mai avuto la possibilità di farlo.
Che band metal che ti piacciono?
Mi piacevano gli American Nightmare, i Lamb of God, gli Slipknot, i Blood Brothers. Adesso arriverà la gente a scrivere nei commenti: «Quello non è metal! Quelli sono artisti screamo, quello è hardcore!». Diciamo che mi piace il rock col volume a palla.
Da Rolling Stone US.