Cantante formidabile, autore di alcuni dei più grandi classici del metal, scrittore, sceneggiatore, pilota di linea, campione di scherma. Cosa gli vuoi chiedere di più a Bruce Dickinson? Eppure, quasi vent’anni d’attesa per ascoltare nuova musica a suo nome, al netto di quattro dischi e infiniti tour con gli Iron Maiden, sono troppi per un pubblico che, alla fine dei ’90, aveva mostrato di amare più i suoi album solisti che quelli dei Maiden senza di lui. E dire che, solo pochi anni prima, nessuno avrebbe scommesso un centesimo su uno scenario di quel tipo, dato che la storia (e il suo eterno ritorno) avevano quasi sempre dato ragione ai gruppi di appartenenza e non ai cantanti in fuga.
Se vogliamo, il grande paradosso del Dickinson solista sta proprio nella scelta di tornare in seno alla band che gli ha dato la celebrità proprio nel momento più alto della sua carriera solitaria. The Mandrake Project è il secondo lavoro personale dal ritorno negli Iron Maiden e forse il più maturo. Probabilmente non il migliore in termini assoluti, ma sicuramente uno dei più centrati.
Non hai pubblicato un nuovo album per tanto tempo, non farlo più.
Mi giustifico subito dicendoti che io e Roy Z (produttore e chitarrista di Dickinson dal 1997, nda) siamo già tornati in studio per lavorare a un nuovo album. Siamo a buon punto, molte canzoni sono pronte e necessitano solo di alcuni ritocchi, quindi mi farò perdonare a breve. Inoltre Roy sta lavorando al mixaggio in Dolby Atmos tutti gli album precedenti, andrà a finire che a breve mi chiederete di tornarmene da dove sono venuto (ride).
Hai spiegato che le canzoni del disco provengono da momenti molto distanti nel tempo una dall’altra. Il rischio era quello di ascoltare canzoni slegate tra loro non solo tematicamente, ma anche a livello di sensibilità. Credo tu sia inevitabilmente cambiato come autore in vent’anni.
È strano, perché se penso al mio modo di comporre tra l’inizio degli anni ’80 e quello dei 2000 noto una differenza incredibile, mentre quando mi sono trovato a rimettere insieme i pezzi per questo disco mi sono accorto che più o meno sono l’autore che ero vent’anni fa. Non perché non sia più progredito da lì in avanti, ma forse perché dopo tanti anni ho finalmente trovato una chiusura al cerchio e in questo cerchio le idee continuano a ricrearsi. Il fatto di avere poi intorno le stesse persone da un po’ ha sicuramente aiutato il processo, ma mi accorgo di aver trovato la quadra come compositore di canzoni.
In effetti, soprattutto fuori dai Maiden, tra il 1990 e il 1998 si stenta a credere che tu sia la stessa persona e lo stesso artista almeno in tre album.
Avevo perso la bussola, non sapevo più chi fossi e cosa stessi cercando nella musica. In realtà, alcuni di quei dischi, risentiti ora spiegano perfettamente tutto il tumulto interiore che vivevo in quegli anni. Poi, ai tempi di Balls to Picasso, ho cominciato a lavorare con Roy e lì ho iniziato a intravedere chi volevo essere davvero.
Il pubblico ha fatto fatica a comprendere quel tuo momento di difficoltà, scambiandolo per un semplice tentativo di smarcarti dalla tua comfort zone. Quando acquistai Skunkworks, vedendo la copertina pensavo di avere tra le mani un album dei Pink Floyd, poi lo ascoltai e ci trovai i Soundgarden.
E il mio intento era quello di formare una band come i Tin Machine di David Bowie, pensa che casino (ride). Peraltro mi ero anche tagliato i capelli, il più grande sacrilegio che potessi compiere per molti di quelli che mi avevano seguito fino a lì. Sì, quello resta l’emblema assoluto del mio peregrinare, però sono felice di aver potuto lavorare con un produttore come Jack Endino e con lo studio Hipgnosis e che nel tempo sia diventato uno dei miei dischi più apprezzati anche da chi inizialmente l’aveva restituito al negozio. Mi piacerebbe tornare a suonarne qualche traccia dal vivo.
Nessuno a 65 anni canta meglio che a 25. Nessuno tranne Bruce Dickinson. Ha a che fare con la tua passione per l’esoterismo?
Beh, potrebbe essere, ma di certo non lo verrò a dire a te… Di certo non canto meglio di quando avevo 25 anni, siamo onesti. Ho un grande rispetto per la mia voce, non potrei più fare certe cazzate che mi permettevo a quell’età e nemmeno ci riuscirei. Ho imparato a gestirla nel modo giusto e soprattutto la conosco così bene da poterla utilizzare meglio di un tempo, su molti più registri. Ho imparato anche dai miei eroi musicali, ho capito che ci vuole fortuna ma anche molta cura e qualcuno se n’è accorto troppo tardi. Mi piace l’ispessimento della mia voce. Da giovane ero stupido, le uniche cose a cui pensavo erano quanto potesse essere alto un urlo o per quanti secondi lo potessi portare avanti. Non conoscevo ancora Johnny Cash, non sapevo quanto anche una singola parola pronunciata in un certo modo può aprire mondi interi. Oggi la mia voce racconta la mia vita, ci puoi sentire dentro molto più amore, molta più rabbia, molto più sentimento. Sicuramente è più dark di un tempo, ma è anche uno strumento migliore. Credo che un pezzo come Shadow of the Gods rappresenti al meglio cosa sia oggi la mia voce.
Seppur in maniera meno marcata, ma anche in The Mandrake Project è molto presente l’elemento esoterico che collegava diversi tuoi album precedenti. Così come quello letterario. Visto che Willliam Blake era stato uno dei motori di Chemical Wedding, ora ci hai messo una spruzzata di William Wordsworth.
Se conosci il mio percorso, saprai che le due cose sono sempre andate di pari passo, anche con gli Iron Maiden. La mia passione per l’esoterismo nacque intorno ai 15 anni, quando scoprii la sezione all’interno della biblioteca della scuola. Fu una rivelazione tanto quanto quella del mondo femminile che iniziai a scoprire nello stesso periodo (ride). Mi permetteva di sognare mondi e misteri in cui perdermi, un po’ come la maggior parte dei miei compagni facevano con il fantasy. Blake arrivò poco dopo e mi cambiò la vita. Non solo per la bellezza delle sue poesie e dei suoi dipinti, ma per la stessa ragione che ti dicevo per la letteratura esoterica. E perché tutto ciò che creava proveniva dal suo subconscio. Credo che molti artisti l’abbiano amato per questo motivo. Wordsworth invece è stata un’ispirazione indiretta e casuale, forse un esempio dell’arte del subconscio che ti dicevo. Ero stato invitato a un matrimonio a Lake District, dove Wordsworth aveva composto molte delle sue opere e ho voluto visitare la chiesa dov’era sepolto. Era una giornata molto cupa e pioveva, così mi sono trovato a fissare quella tomba sotto la pioggia per 20 minuti, perso nei miei pensieri. Rain on the Graves mi sembrava un bel titolo anche per un film horror di serie B. Poi ho chiesto a Roy un sound blues e il testo è nato di getto, tipo scrittura medianica. È la mia personale Crossroads Blues, solo che invece di essere all’incrocio di Robert Johnson, mi trovavo in un cimitero.
Nel 1994, in piena guerra dei Balcani, andasti a Sarajevo unendoti a un convoglio di aiuti umanitari, scortato dalle forze di pace dell’Onu per gridare il tuo no alla guerra. Oggi faresti la stessa cosa a Gaza?
Quando suonammo in ex Jugoslavia, la gente aveva bisogno di musica e di credere che sarebbe sopravvissuta a quell’orrore. I ragazzi si ritrovavano in scantinati scampati ai bombardamenti per suonare. Di quello che sta succedendo in Palestina è difficile parlare, perché ogni cosa viene letta come fa più comodo e sempre nel modo sbagliato, perché si stanno mischiando pericolosamente avvenimenti che non hanno alcun collegamento uno con l’altro. Se sbagli, sbagli. Non è che sbagli meno se prima hai subito qualcosa di atroce a tua volta. Comunque a Gaza non andrei a suonare: non hanno bisogno di musica, ma di cibo.
In Face in the Mirror fai riferimento all’alcolismo e a quanto sia facile stigmatizzare chi si trova in quella condizione. C’è qualcosa di autobiografico nel pezzo?
In parte sì. Nella mia vita ho avuto problemi con l’alcol, ma in un contesto che non vedeva la cosa come un problema. Anzi, sembrava la cosa più normale del mondo. In Inghilterra, bere non è visto come un problema, quindi un giorno ti svegli e sei un alcolista senza nemmeno rendertene conto. A questo aggiungi che ho passato gli ultimi cinquant’anni in un altro contesto in cui bere smodatamente è visto con altrettanta superficialità. Per questo a un certo punto ho dovuto fare un lavoro su me stesso che nessun altro mi avrebbe aiutato a fare. Poi ti accorgi che la maggior parte delle persone che ne soffrono vivono in mezzo a una strada o non hanno avuto un contesto sociale adeguato, considerati la feccia della società. Quando magari prima erano persone inserite in quella stessa società, che li ha prima annientati e poi dimenticati.
Hai detto che con Afterglow of Ragnarock intendevi ciò che comincia dopo la fine di qualcosa, perché c’è sempre qualcosa dopo. Possiamo intendere il Ragnarock come un sinonimo del cancro che ti ha colpito pochi anni fa?
Sì, ho cercato di spiegare un po’ quello che intendevo anche per far capire che non mi riferivo, come avrebbero pensato subito tutti, alla mitologia norrena. Era più qualcosa di filosofico, un’idea più che qualcosa di preciso. Consciamente non ho pensato nemmeno al cancro, però successivamente ci ho riflettuto molto e probabilmente una chiave di lettura può essere quella. Sai, quando ti dicono che sei malato scatta qualcosa per cui ti ritrovi a dire le stesse cose di tutti, come «tornerò presto», «mi sto curando e sarò più forte di prima” e cose così. In realtà però sei costretto a mentirti, o andresti fuori di testa. È solo dopo che te la fai sotto veramente, quando tutto è finito. Ed è banale, ma ti rendi conto davvero di che fortuna hai avuto e hai ad essere ancora vivo. Per questo, pur non avendo riferimenti diretti a quell’esperienza, questo è l’album dove ho cercato maggiormente di smuovere emozioni in chi lo ascolta.
Com’è convivere con Bruce Dickinson? Vetri doppi e camere insonorizzate?
(Ride) Un tempo forse sì, però ho vissuto un’esperienza terrificante durante il lockdown che mi ha fatto riflettere molto e modificare alcune mie abitudini. Vivevo già a Parigi e il nostro vicino di casa decise di imparare a suonare il sax per non perdere la testa durante quelle settimane rinchiusi in casa. Ha suonato malissimo per giorni e giorni The Final Countdown degli Europe: è stata una delle cose più brutte mai subite da orecchie umane. Mi spiaceva tantissimo per noi e gli altri inquilini. Ma anche per gli Europe, perché non meritavano una punizione del genere.