Il mercato di riferimento è quello di Seattle, ma è Tacoma la città perfetta per uno come Bruce Springsteen. Ci è arrivato con la E Street Band proveniente da Vancouver durante il tour di Born in the U.S.A. e subito si sono tutti ammalati. Forse è qualcosa nell’aria. Il «Tacoma aroma» come lo chiamano i locali, un fetore che ti prende i polmoni fatto di fumi nocivi provenienti dalle segherie e altre immonde emissioni industriali ha fatto diventare verdognola la pelle di buona parte dei musicisti di Springsteen e ha fatto venire il voltastomaco pure a lui. Ciononostante, il suo primo concerto sold out al Tacoma Dome, un palazzetto da 25 mila posti, va come previsto. Bruce è uno che non molla.
Avrebbe potuto andare a suonare al Kingdome di Seattle, che sta a soli 45 chilometri da qui, dove l’aria è pulita e l’atmosfera meno popolare. Ma il Tacoma Dome ha un’acustica migliore e anche se oramai è benestante Springsteen è ancora interessato alla realtà e alle lotte della classe operaia. Tacoma, a modo suo, è la città perfetta per uno come lui.
Ma è sul serio malaticcio ed è bianco come un cencio quando sale sul palco e anche se non lo dà a vedere è sicuramente a pezzi quando lo lascia quattro ore dopo. Attacca con Born in the U.S.A., canta alcuni pezzi di Nebraska, tiene in pugno la gente per tutto il tempo. In questo tour parla tantissimo, ad esempio a un certo punto di sentirsi impotenti e di «fede cieca nella tua ragazza o nel governo». È il 1984, dice al pubblico, «e tutti sembrano alla ricerca di qualcosa». Prima di intonare My Hometown, fa un lungo discorso a favore di un’organizzazione locale chiama Washington Fair Share che di recente ha contribuito alla bonifica di una discarica illegale e sta lavorando per far eliminare il veto che il governatore John Spellman ha messo su una legge che richiederebbe alle fabbriche locali di informare i dipendenti a proposito delle sostanze chimiche tossiche a cui sono esposti sul lavoro. «Per loro le persone vengono prima del profitto, la comunità prima dell’azienda. Questa è la vostra città».
È rock di prima categoria, siamo d’accordo, ma c’è dell’altro. Nel 1984 Bruce Springsteen è diventato qualcosa di più di una rockstar con un album da vendere. È una personalità nazionale, il suo carisma è stato cooptato da un fan improbabile come Ronald Reagan, anche se tutto sommato Springsteen fruga senza sosta nello stesso sottobosco culturale appassito del presidente. È stato tenace nel seguire il suo sogno. Ha mollato l’Ocean County College nel nativo New Jersey nel 1968 per cercare di battere la strada impervia del rock e ha atteso con caparbietà la fine di una devastante disputa legale con l’ex manager Mike Appel che per quasi un anno nella seconda metà dei ’70 gli ha impedito di registrare. Dopo aver venduto due milioni di copie del doppio The River, ha buttato fuori Nebraska, una suggestiva meditazione per voce e chitarra sul dolore e la follia tipiche dell’America profonda, per poi trattare gli stessi temi, però con l’accompagnamento della band, con Born in the U.S.A., il suo best seller.
Durante la tournée Springsteen si è concesso per interviste a Oakland, in California, dove ha contributo al Berkeley Emergency Food Project, e a Los Angeles, dove ha una casa sulle Hollywood Hill. Chiedetegli come riesce a mantenere vivo il suo concerto e vi dirà che «è una questione di vivere fino in fondo ogni istante». E a quanto pare, lui lo fa su e giù dal palco.
Born in the U.S.A. è il raro caso di pezzo rock che dà voce al dolore di gente dimenticata, in questo caso i veterani del Vietnam. Da quanto tempo sei a conoscenza delle loro esperienze?
Qualcuno è in grado di immaginare cos’hanno vissuto? Io non credo. Bisogna viverle quelle cose. Ma è evidente che il Paese ha approfittato dell’altruismo dei giovani uomini e donne che sono morti in Vietnam e di chi è morto dopo essere tornato. Hanno sacrificato generosamente le loro vite.
Qual è stata la tua esperienza in Vietnam?
Non ne ho avuta una. Alla fine degli anni ’60 non c’era alcun tipo di coscienza politica a Freehold. Era una cittadina di provincia, la guerra sembrava lontanissima. Voglio dire, sapevo che c’era perché qualche amico era partito per il Vietnam, come il batterista della mia prima band, che è morto laggiù. Si chiamava Bart Hanes, era uno di quei tipi che scherzano sempre, uno molto gioviale. Un giorno è venuto e ha detto: «Mi sono arruolato, vado in Vietnam». Manco sapeva dove fosse, il Vietnam. È partito e non più tornato. E quelli che ce l’hanno fatta a tornare non sono più stati gli stessi.
Come hai fatto a evitare d’essere arruolato?
Quando avevo 17 anni ho avuto un incidente in modo che ha comportato un forte trauma cranico. Ma al di là di questo, ho fatto quel che facevano tutti, ho dato risposte da pazzo ai test psicologici. Avevo 19 anni e non avevo alcuna intenzione di dare agli altri la mia vita. Ho ricevuto la cartolina e quando sono salito sul bus per andare alla visita medica ho pensato che laggiù non ci sarei mai andato. Avevo provato a frequentare un college, ma non faceva per me. Mi ero iscritto a una scuola dalla mentalità ristretta, la gente mi dava il tormento, ero stato cacciato dal campus. Ero un diverso, nell’aspetto e nel comportamento, e alla fine me ne sono andato. Ricordo che mentre mi trovavo su quel bus assieme a un paio dei ragazzi che suonavano con me mi resi conto che quasi tutti gli altri passeggeri erano ragazzi di colore di Asbury Park. M’ha fatto riflettere: cos’è che rende la mia vita o quella dei miei amici meno preziosa di quella dei ragazzi che vanno al college? Non era giusto, ma per niente.
Con mio padre poi accadde una cosa strana. Aveva fatto la Seconda guerra mondiale, diceva sempre: «Vedrai quando ti prenderanno nell’esercito, te li faranno tagliare loro, tutti quei capelli, non vedo l’ora. Ti faranno diventare un uomo». Litigavamo di continuo. Insomma, sono stato via di casa per tre giorni e quando sono tornato c’erano i miei che mi aspettavano in cucina. «Dove sei stato?». «A fare la visita di leva». «Com’è andata?». «Non m’hanno preso». Mio padre è rimasto lì seduto, senza neanche guardarmi, fissava il vuoto davanti a sé. Poi m’ha detto: «Bene». Non lo scorderò mai.
È ironico il fatto che tu sia diventato un beniamino della destra americana. L’editorialista conservatore George Will ha parlato bene del concerto che hai fatto a Washington e Reagan che ha fatto il tuo nome in un comizio elettorale nel tuo New Jersey.
La gente vuol dimenticare. Ci sono stati il Vietnam, il Watergate, l’Iran. Siamo stati battuti, imbrogliati, umiliati. Ora la gente ha bisogno di provare sentimenti positivi per questo Paese. È un bisogno legittimo e onesto che però viene manipolato e sfruttato. L’hai vista la pubblicità elettorale di Reagan in tv? Lo spot dice: «È mattino, in America». Beh, a Pittsburgh no, ma nemmeno a New York, sulla 125esima Strada. Lì è notte fonda, e il futuro non è granché bello. Ecco perché quando Reagan ha fatto il mio nome in quel comizio nel New Jersey l’ho interpretato come un altro dei suoi tentativi di manipolazione. Mi son dovuto dissociare da quel che ha detto, anche se aveva avuto belle parole per me.
Non pensi però di avere fatto il gioco dei patrioti pubblicando un disco intitolato Born in the U.S.A. proprio nell’anno delle elezioni e per di più con la bandiera americana in bella evidenza sulla copertina?
Abbiamo messo la bandiera perché la prima canzone si intitola Born in the U.S.A. e perché il tema del disco è la logica continuazione di quelli delle mie canzoni degli ultimi sei o sette anni. È vero che la bandiera è un’immagine potente, una di quelle cose che quando la si usa non sai mai come andrà a finire.
Conosco un fan che, siccome sei preso di spalle, pensa che tu stia pisciando sulla bandiera. Contiene un messaggio quella foto?
No, no, non è stato intenzionale. Abbiamo scattato un sacco di foto in un sacco di pose diverse, e alla fine quelle col mio culo erano migliori di quelle con la mia faccia. Nessun messaggio nascosto, non è una cosa da me.
Mancano due settimane alle elezioni. Qual è la tua posizione politica? Ti sei registrato per votare?
Sì, mi sono registrato, ma non per un partito particolare, non sarebbe da me. Non mi riconosco in questo sistema elettorale. Certo se un giorno trovassi qualcuno che mi piace davvero…
Non pensi che Mondale sia meglio di Reagan?
Non so. Tra i due ci sono differenze significative, ma non so quanto significative, e non è facile giudicare basandosi sulla retorica pre-elettorale. Durante le campagne elettorali tutti promettono grandi cose ed è per questo che, ora come ora, non mi sento particolarmente vicino alla politica, non è questo il metodo migliore per trovare l’uomo più adatto a fare il lavoro più difficile al mondo. Per quanto mi riguarda, voglio provare a lavorare a più stretto contatto con la gente, voglio trovare un modo per far sì che la band possa legare con le comunità dei posti in cui suoniamo. È anche questa politica, ma lontana dalla campagna elettorale. È politica umana. La gente può fare un sacco di cose da sola. Sto cercando di capire come far combaciare la mia arte con qualche forma di azione concreta, di coinvolgimento diretto con le comunità dalle quali proviene il pubblico. Sarebbe la logica conseguenza di quel che abbiamo sempre fatto, dell’idea che ci ha spinti a iniziare. Voglio dire, abbiamo cominciato a suonare perché volevamo conoscere ragazze, fare un sacco di soldi e cambiare un pochino il mondo, no?
Hai mai votato?
Mi pare d’aver votato per McGovern nel 1972.
Cosa pensi davvero di Ronald Reagan?
Non lo conosco davvero. Proietta un’immagine mitica e affascinante, un’immagine nella quale la gente vuol credere. C’è sempre stata una certa nostalgia per l’America mitica del passato in cui andava tutto bene. E per un sacco di gente il Presidente ne è l’incarnazione. Non so se Reagan sia un uomo buono o cattivo, so però che in questo Paese ci sono un sacco di persone i cui sogni non contano granché per lui e che vergono messe da parte. Per come la vedo io, l’America è una nazione dal cuore grande e capace di compassione. Ma la coscienza sociale che aveva caratterizzato gli anni ’60 oggi è fuori moda. Ci si dà da fare, si cerca un buon impiego, si vogliono fare quanti più soldi possibile e spassarsela nel weekend. Tutto qua, e la cosa è considerata ok.
La psiche nazionale ha sempre influito in modo più o meno sottile sui personaggi delle tue canzoni. Pensi che i tuoi album siano in qualche modo collegati tra di loro dal punto di vista sociopolitico?
Ho sempre mirato a realizzare album che costituissero un corpo di lavoro e che fossero quindi complementari l’uno con l’altro, album veri, non semplici raccolte di canzoni e questa cosa fin da The Wild, The Innocent and the E Street Shuffle, particolarmente nel lato B. Volevo mettere insieme un gruppo di personaggi e seguire le loro vite man mano che andavano avanti. E così ho cercato di collegare i puntini in Born to Run, Darkness On the Edge of Town e The River. In Born to Run c’è l’ansia per la ricerca di qualcosa. In un certo senso è un disco basato sulla religione, anche se in modo strano, non parlo di religione in senso ortodosso, parlo delle cose fondamentali, come la ricerca, la fede, la speranza. In Darkness si verificava l’impatto tra questa persona e il mondo, e finiva per ritrovarsi molto sola e vuota dentro. Infine in The River c’è il tentativo da parte di questo tizio di rimettersi in piedi, di entrare a far parte di una qualche comunità. In quel disco c’erano più canzoni che parlavano di rapporti umani, parlo di brani come Stolen Car, The River, I Wanna Marry You, Drive All Night o Wreck On the Highway, c’erano persone che cercavano di trovare una qualche consolazione, un po’ di conforto reciproco. Prima di The River non c’erano quasi canzoni che parlavano di rapporti umani. In quanto a Nebraska… non so neanche com è saltato fuori quel disco, è spuntato così, all’improvviso.
Non ti eri ispirato al film di Terrence Malick La rabbia giovane che parla dei delitti di Charles Starkweather e della sua ragazza Caril Fugate?
Avevo già scritto Mansion On the Hill in tour. Una volta tornato a casa – all’epoca vivevo a Colt Necks, sempre nel Jersey – ricordo d’aver visto La rabbia giovane e di avere letto questo libro, Caril, che parlava di quei due e che sembrava riflettere il mio stato d’animo in quel periodo. Vivevo in una casa in affitto in una riserva, non uscivo quasi mai di casa e per qualche ragione ho cominciato a scrivere. Ho composto tutte le canzoni di Nebraska in un paio di mesi. M’interessava scrivere qualcosa con l’enfasi sui dettagli, cosa che comunque avevo già cominciato a fare in The River. Quindi sì, in quel periodo sono stato influenzato dal film e dai racconti di Flannery O’Connor che avevo iniziato a leggere, roba incredibile, credimi.
Pensi che nel personaggio di Starkweather ci sia qualcosa di emblematico della condizione americana?
Credo si possa arrivare a un picco di nichilismo, sempre ammesso che sia questa la parola adatta, e a quel punto le leggi fondamentali stabilite dalla società e dalla religione perdono ogni significato. Si fa buio, perdi ogni freno, tutto va in pezzi. Non saprei dire con esattezza quali siano le forze che scatenano questa cosa. Forse la frustrazione, tanta frustrazione, non riuscire a trovare qualcuno a cui legarsi e a cui appoggiarsi, la mancanza di contatti umani… È una delle cose più pericolose, questa qua: l’isolamento. Ecco, Nebraska parla di sentirsi soli in America, di quel che accade quando ti ritrovi senza amici, escluso dalla comunità, dimenticato dal governo, disoccupato. Che poi son le cose che ti evitano di impazzire e in qualche modo danno un significato alla vita. Quando vengono a mancare cominci a vivere in una sorta di vuoto dove i limiti imposti dalla società, anche quelli essenziali, non valgono più. Persino la vita non ha più alcun valore. A quel punto può succedere di tutto.
L’arrangiamento acustico e scarno di Nebraska era l’unico giusto per questo materiale?
Sai, all’inizio erano efefttivamente canzoni pensate per un album rock. Avevo capito che impiegavo un sacco di tempo per realizzare un disco perché scrivevo troppo lentamente e quando entravo in studio in sostanza non avevo niente per le mani, oppure avevo canzoni scritte, ma non abbastanza bene. E così registravo per un mese, buttavo giù un paio di cose, tornavo a casa, componevo qualche altra canzone, incidevo per un altro mese… non il massimo dell’efficienza. Così quella volta ho preso un registratore TEAC a quattro piste e ho registrato tutte le canzoni che componevo dicendomi che se erano buone suonate e cantate solo da me, allora le avrei portate alla band. Potevo cantare e suonare la chitarra, e mi restavano due piste libere per metterci qualcos’altro, un’altra chitarra o un’armonia vocale. Insomma, doveva soltanto essere un demo, mixato con un piccolo Echoplex e invece è diventato il disco, il che, se ci pensi, è incredibile, perché mi sono portato in giro in tasca le cassette delle registrazioni per un paio di settimane e per di più senza custodia. È stato difficile dal punto di vista tecnico trasferirle su disco, le avevo registrate in modo strano, l’ago leggeva un sacco di distorsione, non riusciva a lasciare la traccia sul master. Per poco non siamo stati costretti a farlo uscire solo su cassetta.
Mi pare di capire che Born in the U.S.A. è stata composta suppergiù nello stesso periodo di Nebraska. Ci sono altri pezzi dell’album che risalgono a quell’epoca?
A dire il vero una buona metà di Born in the U.S.A. è stata incisa contemporaneamente a Nebraska. Siamo entrati in studio con l’idea di registrare Nebraska con tutta la band e abbiamo inciso tutta la prima facciata di Born in the U.S.A. Il tempo restante l’ho impiegato a cercare di venire fuori con un lato B, Bobby Jean, My Hometown, quelle canzoni lì. Se ripensi alle canzoni, specie a quelle del lato A, ti rendi conto che sono nello stesso stile di Nebraska, solo che sono arrangiate per una rock band.
Mi pare che per l’album tu abbia adottato un metodo più spontaneo e meno elaborato. Max Weinberg dice che la title track è venuta fuori alla seconda take e che non sapeva neanche che la band avrebbe dovuto rientrare nel finale finché non hai fatto tu un segnale in studio.
Quel pezzo è stato registrato dal vivo, tutto quanto. Buona parte delle canzoni di Born in the U.S.A. sono state fatte in meno di cinque take: Darlington County è stata registrata dal vivo e pure Working On the Highway, Downbound Train, I’m On Fire, Bobby Jean, My Hometown, Glory Days, insomma quasi tutto l’album. Abbiamo raggiunto un buon livello di coesione e ogni canzone richiede al massimo sei take. Alla fine per Born in the U.S.A. abbiamo registrato non meno di 50 canzoni. A portare via del tempo non è stato registrarle, ma comporle e aspettare il momento in cui ho capito di avere per le mani un vero album, con una storia. Succede sempre così: registriamo un sacco di materiale e gran parte rimane inedito.
Chi compra i bootleg dice che alcuni degli inediti sono formidabili, che ci sono canzoni tra le migliori che tu abbia mai fatto. Ti dà fastidio il fatto che ci sia chi mette in giro i tuoi inediti, per più ricavandone un bel profitto?
A nessuno piace scrivere una canzone e vedersela rubare, o vedersela presentata al mondo in un modo diverso da quello che avresti scelto tu. E spesso la qualità dei bootleg è scadente e costano un sacco di soldi. Io non possiedo neanche un bootleg. Continuo a dirmi che un giorno o l’altro farò uscire un album con tutto il materiale inedito, ce n’è parecchio che merita di essere pubblicato. Sì un giorno o l’altro lo farò.
Hai affidato Dancing in the Dark e Cover Me ad Arthur Baker perché ne facesse dei remix dance, cosa che non è piaciuta a tutti. Cosa ti ha spinto a farlo?
Avevo sentito alla radio un remix di Girls Just Want to Have Fun di Cyndi Lauper che m’è sembrato incredibile e parecchio divertente. Così ho contattato Arthur, che è un bel tipo, davvero eccezionale. C’era anche un’altra persona che lavorava con lui e, credemi, sono due matti…
Tu hai dato un qualche contribuito?
Non molto, anzi diciamo che è tutta opera di Arthur Baker, che è un vero artista. È stato divertente dargli una canzone e vedere che interpretazione riusciva a dare. Ho sempre avuto un atteggiamento diciamo così iperprotettivo nei confronti della mia musica e quindi prima di farlo ho esitato un po’. Ora però mi rendo conto che le mie cose non sono fragili quanto temevo.
Recentemente hai anche iniziato a girare dei video: cosa pensi di questo mezzo?
È un media potente e voglio usarlo in qualche modo. D’altra parte, comporta anche dei problemi. Non voglio che i video rovinino l’immaginazione dei fan presentando un’immagine concreta che è la copia di un’immagine presente nella canzone. Ma non voglio nemmeno creare una storia diversa e parallela, perché la storia c’è già ed è quella della canzone.
Hai affidato la regia di Dancing in the Dark a Brian DePalma e avete realizzato un video di un concerto cantato però in playback. Come mai?
Brian è stato grande, il tempo a disposizione era poco, ci stavamo preparando per il nostro primo concerto. Chiamato con pochissimo preavviso, è stato abile nel liberarmi da questo fardello. Il video è stato fatto nel giro di tre, quattro ore. Cantare in playback è facile, ma ne vale la pena? Ad ogni modo, il video è venuto bene perché la gente che m’incontra e me ne parla conosce poco o niente della mia produzione, spesso sono ragazzi molto giovani. Tempo fa ero in spiaggia ed è venuto da me un bambino, mi pare si chiamasse Mike, aveva 7 o 8 anni. Mi ha detto: «Sai, ti ho visto su MTV e ho imparato le tue mosse». «Dai, fammele vedere». E lui ha replicato Dancing in the Dark e ti assicuro che era veramente bravo.
Di sicuro quest’anno hai avuto un successo strepitoso, sfondando nel mainstream. Il tour di Born in the U.S.A. sta facendo sold out ovunque, l’album ha già venduto oltre 5 milioni di copie in tutto il mondo. Diventare ricco ti ha cambiato?
Un cambiamento c’è stato. La ricchezza non rende la vita più facile, ma rende più facili alcuni aspetti della vita. Non ti danni per l’affitto, puoi comprare cose per i tuoi genitori, puoi aiutare gli amici e puoi anche divertirti. Ci sono stati momenti in cui c’era un po’ di confusione, mi rendevo conto d’essere un uomo ricco, ma dentro di me mi sentivo povero.
In che senso?
È per via della mia visione delle cose che ho maturato da ragazzo. In buona sostanza, per via della causa legale e di un mucchio d’altre cose, tra cui il tempo che mi ci voleva per fare i dischi, fino al tour di The River non ho mai avuto soldi in banca. E questo tour, finora, è andato alla grande. Non so dire se i soldi ti cambiano. Non credo ti cambino davvero. Sono una cosa, uno strumento, una comodità. Se averne è un problema, è sicuramente un bel problema.
Non mi pare tu spenda granché per i vestiti. Come li usi allora?
Lo sto capendo adesso. Una cose che posso fare è beneficenza, aiutare chi ha bisogno d’aiuto, le persone che sono in difficoltà e che cercano di mettere in piedi qualcosa. I soldi sono una delle cose che sognavo all’inizio, ma non ho suonato una sola nota per i soldi. Se lo facessi, la gente lo capirebbe e mi caccerebbe dai locali. Giustamente, dico io. Ma in ogni caso erano una delle cose che che sognavo, come…
La Cadillac rosa?
Sì, la Cadillac rosa. Io e Steve [Van Zandt] ci dicevamo: «Quando ce la faremo, faremo questo e quest’altro…».
Che cosa avevate in mente?
Di diventare come i Rolling Stones, il gruppo che più ci piaceva all’epoca. Poi si cresce e capisci che certe cose a volte non vanno bene, o vanno diversamente, che tu sei diverso, che sono diverse le cose che vuoi fare. Apprezzo il successo che abbiamo avuto, il fatto di avere un pubblico, la stabilità finanziaria. Mi ha aiutato a fare quel che volevo fare.
Sarebbe esagerato dire che sei milionario?
No, quei soldi li ho.
Com’è casa tua a Rumson, New Jersey?
È la mansion in the hill (ride). È il tipo di posto dove mi dicevo non avrei mai vissuto. Prima di questo tour stavo in una casa piccola in affitto e ne stavo cercando una più grande. Sono sempre stato in affitto, fin da quando ero bambino, e mi sono reso conto che avevo suonato per una dozzina d’anni e non avevo nessun tipo di… niente che potessi chiamare casa. Avevo un sacco di vecchie auto collezionate nel corso degli anni, pick-up che avevo comprato per circa 500 dollari, una Chevy del ’69, una Impala che mi ha regalato Gary Bonds e una Corvette del ’60 presa grazie a Born to Run. Tutte queste vecchie auto erano sparse in vari garage nel New Jersey. Così mi sono detto: voglio prendere una casa grande. Voglio una fattoria con un grande fienile, dove poter costruire uno studio per non dover andare sempre a New York a registrare. Ed è quel che farò alla fine del tour.
E quindi casa tua a Rumson è una specie di posto di transito?
Tutte le mie case lo sono, io del resto sono uno sempre di passaggio. Non mi piace sentirmi legato a un luogo preciso, avere delle radici, il che se ci pensi è piuttosto strano, perché le cose che ammiro e che per me sono più significative hanno a che fare con avere delle radici e un posto che puoi chiamare casa. Io invece sono l’opposto, non ho radici, non mi fermo mai in un posto, mi sento a casa mia a bordo di un’auto o in tour, e questo spiega perché ho scritto un sacco di canzoni sull’argomento. Quando avevo una ventina d’anni passavo tanto tempo lontano da casa, non perché odiassi i miei, ma perché avevo bisogno di sentirmi libero. L’indipendenza è fondamentale per me, per riuscire a fare quello che volevo mi dovevo sentire libero di andare via ovunque, sempre. E in linea di massima, è così che ho sempre vissuto. Non credo sarei un grande padre di famiglia, la mia famiglia è sempre stata la band. Quand’ero giovane dovevo per forza pensarla così, perché dovevo arrivare a fine mese con 60 dollari e quindi non potevo non dico sposarmi, ma anche solo legarmi a una ragazza. Col passare degli anni, è diventato uno stile di vita.
Sei mai stato sul punto di sposarti?
Mai. Una volta però ho convissuto con una ragazza. Avevo una ventina d’anni, non avevo mai vissuto con qualcuno, men che meno con una ragazza.
Come mai?
Chi lo sa. Forse volevo sentirmi libero di muovermi, di fare il vagabondo. È stupido o perlomeno mi sembra stupido adesso, anche perché non attribuisco molto valore a quegli ideali e penso che la realizzazione di un uomo risieda nella vita familiare, che però fino a oggi non è stata la mia vita.
In compenso scrivi un sacco di canzoni che parlano di relazioni interpersonali. Che ne pensa tua madre?
Ho una nonna di origine italiana che parla in un mezzo italiano-inglese e ogni volta che vado a trovarla la prima cosa che mi chiede è: «Dov’è la tua fidanzata? Quand’è che ti sposi?».
E fino a quel giorno? Riesci ad avere relazioni normali?
Penso di sì. In passato ho avuto ragazze fisse e recentemente ne ho frequentata una conosciuta al club di Clarence. Non sono ansioso di sposarmi, perché in tutta sincerità sono troppo preso dal lavoro. Magari un giorno metterò su famiglia, moglie, bambini e tutto quanto.
E fino ad allora? Sto cercando di immaginarmi Bruce Springsteen che chiede a una ragazza normale di uscire con lui.
Lo fai e basta. Sei al bar o dove sei, incontri qualcuno, non ci stai a pensare troppo su. Vai avanti con la tua vita nel modo più normale possibile. Quando esco non è che penso a quell’altra parte della mia vita, a come la gente mi guarda. Non è rilevante, o quasi. Magari di tanto in tanto qualcuna esce con te un paio di volte perché sei famoso, ma se sei un coglione smette di frequentarti, smette di essere divertente.
Non ti sei mai permesso di finire isolato, di cadere nella sindrome di Elvis?
Ho sempre cercato di mantenere i contatti con le persone con cui sono cresciuto, di non perdere completamente di vista la comunità dalla quale provengo. Ecco perché sono sempre rimasto nel New Jersey. Il pericolo insito nella celebrità consiste nel dimenticare o venire distratti. Lo vedi succedere a un sacco di gente. Quello di Elvis Presley è un caso limite. Con quel tipo di fama, che immagino sia la stessa di Michael Jackson, le pressioni e l’isolamento diventano pesantissimi. Non ho mai permesso che succedesse a me, né voglio accada in futuro. Non voglio non poter più entrare in un bar, andare in qualche posto, non uscire più di casa. Faccio in buona sostanza quel che ho sempre fatto. Entro in un locale, la gente mi saluta e la cosa finisce lì. Salgo sul palco e attacco a suonare.
Le rock band durano finché riescono a vedere sé stesse guardando giù verso il pubblico e finché il pubblico può guardare il palco e vedere sé stesso, finché insomma band e pubblico vedono qualcosa di umano e realistico. Il miglior regalo che puoi ricevere dai fan è che ti trattino come un essere umano. Qualunque altra cosa ti rende disumano. L’isolamento ha accorciato la vita artistica ma pure anagrafica di tanti grandi del rock. Se il prezzo della celebrità è restare separato dalla gente per la quale canti, beh, cazzo, è un prezzo troppo alto.
Mi pare che tu abbia avuto modo di osservare da vicino com’è per Michael Jackson. Non vi siete incontrati dopo un concerto dei Jacksons?
Sì, a Philadelphia. È stato un concerto eccezionale, molto diverso dai miei, però molto, molto buono. Michael è stato incredibile, ma sul serio. È un autentico gentiluomo e ha un sacco di comunicativa… e anche se la gente non se ne rende conto, è alto.
Che musica hai ascoltato di recente?
Molto varia, mi piacciono gli U2, i Divinyls, Van Morrison, i Suicide.
Mi pare sensato: State Trooper, da Nebraska, sembra effettivamente un pezzo dei Suicide.
Sì, anche perché loro fanno musica per soli voce e sintetizzatore. Hanno in repertorio una delle canzoni più fantastiche che abbia mai sentito, una canzone che parla di un tipo che ammazza…
Frankie Teardrop?
Sì, mioddio, uno dei dischi migliori che abbia sentito in vita mia. Lo adoro.
E Prince? L’hai visto in concerto?
Sì, ed è pazzesco. Uno dei migliori dal vivo visti in vita mia. Fa un concerto divertente, con dentro parecchio senso dell’umorismo. Sul palco è sbucato un letto, pazzesco. Credo che lui e Steve, al momento, siano i miei artisti preferiti.
Hai visto Purple Rain?
Molto bello. Come un film di Elvis, ma uno di quelli belli, dei primi.
Una volta hai cercato d’incontrare Elvis Presley saltando il muro di cinta di Graceland. Il tentativo è fallito, ma altri idoli li hai incontrati?
Sai, ho sentimenti contrastanti su incontrare la gente che ammiro. Sai come dice, no? Fidati dell’arte, non dell’artista. È vero. Uno può fare un gran lavoro e poi essere un pazzo. Anche la mia musica è probabilmente migliore di me. Voglio dire, nella musica rappresenti i tuoi ideali e come persona non sei sempre all’altezza di questi ideali. Ci provi, ma non ci riesci ed è una delusione. Perciò dei miei idoli mi piace la musica. Se capita l’occasione, li incontro con piacere, ma non li cerco. C’è gente che si è detta delusa dopo avere incontrato Elvis, ma non sono sicuro che sia il modo giusto di vedere le cosa. Non credo che nessuno sia rimasto deluso dai suoi dischi migliori, no? Credo abbia dato il meglio che aveva, il meglio che poteva ottenere.
Se non altro, non mi pare tu abbia emulato i problemi di droga di Elvis. Ma è vero che, dopo quasi vent’anni nel mondo del rock non ha mai fumato una canna?
Mai fatto uso di droghe. Quando avevo l’età in cui era popolare, non frequentavo molto gli altri, stavo chiuso nella mia stanza a esercitarmi con la chitarra, non avevo il tipo di pressione sociale che hanno i ragazzi di oggi. E poi all’epoca mi preoccupava perdere il controllo. Adesso bevo un po’. Ci sono serate in cui esco e bevo di brutto, ma mai troppo quando siamo in tour. Il concerto è impegnativo dal punto di vista fisico, bisogna essere all’altezza.
Un’altra cosa notevole dei tuoi concerti, delle canzoni, dei video è l’assenza di immagini erotiche, di quelle che si vedono di solito su MTV. Né mi pare incoraggiate le groupie a venire nel backstage. Per il rock è una cosa insolita, mi chiedo se abbia a che fare col fatto d’essere cresciuto con una madre forte e lavoratrice e con due sorelle.
Non saprei. È una questione di rispetto di base per le persone. Non è facile perché anche noi siamo cresciuti in mezzo a comportamenti sessisti e razzisti. Ma crescendo riesce a capire le cose e – so che è una banalità – cerchi di trattare il prossimo nel modo in cui vorrei trattassero te. Prendi mia sorella minore. Quando avevo 13 anni, mia madre rimase incinta di lei e mi fece seguire da vicino tutta la gravidanza. Ce ne stavamo seduti in salotto a guardare la tv e lei mi faceva appoggiare la mano sul pancione, dicendo «Senti un po’ qua» e io riuscivo a sentire la mia sorellina che si muoveva. Mi sono sentito subito legato a lei, profondamente. Uno dei giorni più belli che ricordo è quello della sua nascita. Il suo arrivo cambiò l’atmosfera in casa, sai, cose tipo «Sssh che la bambina dorme». Se la sentivo piangere correvo giù da basso per capire che problema avesse. Un giorno, lei avrà avuto sì e no un anno, cadde a testa in giù dal divano dov’eravamo seduti. «S’è spaccata la testa», pensai, «ora i miei mi ammazzano» (ride). La famiglia si trasferì in California quando lei aveva 5 o 6 anni e quindi non ci siamo più visti per un po’. Ogni volta che ci incontravamo, però, era come se non ci fossimo separati un giorno.
Quando sei giovane, ti senti impotente. Da bambino il mondo sembra un posto spaventoso. Pure casa tua, per quanto piccola sia, sembra enorme, i tuoi sembrano dei giganti. È una sensazione che non ti abbandona mai. Quando hai 15 o 16 anni tutte le tue fantasie sono fantasie di potere ed è questa la cosa che viene sfruttata da certi generi musica. Da ragazzo ti senti impotente e non sai come incanalare quella sensazione in modo ordinato oppure creando qualcosa di buono per te stesso. Io penso di essere stato fortunato, sono stato in grado di affrontare questa cosa con la chitarra. Mi sono detto: molto bene, mi sento fragile, ma quando faccio questa cosa, quando provo questa sensazione, quando tengo in mano la chitarra, mi sento un filo più forte, mi sento come se avessi un po’ più di controllo sulla mia esistenza. E invece questo senso di impotenza non solo viene sfruttato, ma mal indirizzato.
Uno dei problemi degli Stati Uniti è che sono uniti soprattutto nei pregiudizi. Spesso quel che unisce la gente è la paura. In certi posti, i bianchi sono uniti dalla paura per i neri. Gli uomini da un atteggiamento denigratorio nei confronti delle donne, e a volte viceversa. E tutte queste cose vengono sfruttate dai politici, che le trasformano in paura dei russi, del comunismo o di qualunque altro ismo. Oppure le trasformano in qualcosa di più sottile e mediato, vedi ad esempio certe politiche economiche che rappresentano un caso indiretto di razzismo, perché hanno effetto soprattutto sulla gente di colore che occupa i gradini più bassi della scala economico-sociale. Penso che, dentro di sé, la gente lo sappia, lo penso veramente. Non lo confessa apertamente, ma da qualche dentro di sé la gente prova una gioia maligna nel vedere questo fenomeno.
Penso anche che qualcosa stia cambiando ultimamente, ma quante volte durante questa campagna elettorale hai sentito gente che si lamenta del fatto che Mondale è molle? È l’istinto di sopraffazione che sembra essere insito nella cultura americana, e anche nella ma musica. Insomma è…
Soverchiante?
Esatto.
Cos’è che ti spinge ad andare avanti a 35 anni?
Sono stato fortunato. Durante la disputa legale ho capito che è la musica a tenermi in vita, i rapporti con gli amici, l’attaccamento alle persone e ai luoghi che conosco. È linfa vitale per me. E rinunciare a questo per la tv, le auto, le case… non è questo il sogno americano. È un premio in denaro, in fin dei conti. Se ci cascate, se pensate siano il fine ultimo, allora siete stati ingannati. Sono premi di consolazione per chi non ha tenuto gli occhi aperti, per chi si è svenduto, per chi ha dato le spalle alla parte migliore di sé. Devi restare vigile. Devi portare avanti l’idea con cui hai iniziato. E sperare di essere diretto verso qualcosa di più elevato.
Dal numero del 6 dicembre 1984 di Rolling Stone US.