Aveva un’ultima possibilità per farcela, o almeno così dice la canzone. Nel 1975 il venticinquenne Bruce Springsteen era convinto che la sua carriera fosse a rischio ed è forse per questo motivo che nei mesi difficili in cui è nato Born to Run ha portato se stesso e la E Street Band ai limiti dell’esaurimento. Nel novembre del 2005, un paio d’ore prima di salire sul palco per un concerto in solitaria del tour di Devils and Dust, Springsteen ha raccontato a Rolling Stone la storia del classico uscito il 25 agosto 1975. Ecco com’è andata.
Oggi ho parlato con Steve Van Zandt, mi ha detto che pensavate che Born to Run potesse segnare la fine della tua carriera. È così?
Ero sotto contratto con la Columbia di John Hammond e Clive Davis. Dopo il mio primo disco, Davis se n’è andato e sono caduto in disgrazia. Sono arrivate altre persone all’etichetta. Nessuno investiva più in me, eravamo finiti nel dimenticatoio. Quando è uscito The Wild, the Innocent and the E Street Shuffle non l’hanno promosso più di tanto, ricordo che andavo in radio e nessuno sapeva che avevo pubblicato un altro disco. Ricordo che quelli dell’etichetta venivano ad ascoltare la giovane band promettente che apriva i nostri concerti e poi se ne andavano prima che salissimo sul palco. Al My Father’s Place, (l’allora manager) Mike Appel stava alla porta e scriveva su un foglio chi se ne andava. L’atmosfera era tosta. All’epoca c’erano molte discussioni su The Wild and the Innocent, mi avevano chiesto di ri-registrarlo con altri musicisti. Quando mi sono rifiutato di farlo, mi hanno fatto sapere che sarebbe finito nel cestino. Questa è l’industria discografica.
Poi è uscito il 45 giri di Born to Run…
Sì, è uscito sei mesi prima dell’album, all’epoca era una cosa insolita. Avevamo impiegato davvero tanto tempo a registrare il disco, quindi abbiamo mandato la canzone alle stazioni radio pensando che fossimo praticamente finiti, anche se non era così. È passato tanto tempo prima dell’uscita dell’album e sono capitate alcune cose buone. La prima è che il singolo è andato bene in radio, c’era molto interesse. Credo che il disco sia partito bene proprio perché il singolo era da tanto tempo nelle radio FM. La seconda è che Irwin Segelstein è diventato il capo dell’etichetta. Arrivava dal dipartimento televisivo. E aveva un figlio che studiava al college…
Al Brown, se non sbaglio.
Sì. È venuto a sentire il nostro concerto, e il giorno dopo mi sono lamentato dell’etichetta in un’intervista con il giornale del college. Credo che il ragazzo sia andato a casa dal padre e abbia detto: «Che ne pensi di questi ragazzi?». Segelstein ci ha chiamati e ci ha chiesto di seppellire l’ascia di guerra. Ma all’epoca eravamo traballanti, non sapevamo cosa sarebbe successo. Non eravamo considerati artisti di successo e Born to Run era un disco delicato: speravamo di lasciare un segno, attirare l’attenzione, quindi credo che Steve abbia ragione. Allo stesso tempo, però, non credo che la nostra carriera sarebbe finita: che altro avremmo potuto fare? C’è anche questo da considerare. La sera in cui i tizi dell’etichetta se ne sono andati prima di sentire il nostro concerto, ho detto agli altri: state a sentire, possono pure pensare che siamo finiti, ma noi non abbiamo nessun posto dove andare (ride).
È un bel discorso d’incoraggiamento…
Ho detto: non preoccupatevi, non abbiamo nessun posto dove andare; non smetteremo, continueremo. Il pubblico rispondeva bene ai concerti e nessuno voleva tornare a lavorare. Anzi, nessuno aveva un lavoro, non erano preparati all’eventualità. Insomma, sapevamo di essere dove dovevamo essere.
Quando hai sentito il master dell’album l’hai odiato e lanciato in una piscina. Hai detto che la verità è che avevi paura. Ma di cosa?
Ho sempre avuto un atteggiamento ambivalente nei confronti di… di cosa avevo paura? Del cambiamento, non lo so. All’epoca la musica rappresentava tutta la mia identità, ero molto coinvolto. Il disco è venuto bene perché siamo stati estremi, l’abbiamo scritto e suonato fino a impazzire. Non lo ascoltavo da 20 anni e di recente l’ho fatto per la versione rimasterizzata: mi ha sorpreso. È invecchiato davvero bene, era strutturato e costruito come un carro armato. Era indistruttibile ed era così perché ci avevamo investito una quantità enorme di tempo e lavoravamo con un atteggiamento malato e ossessivo-compulsivo. In parte avevo paura di pubblicare il disco e dire: beh, questo sono io. Le ragioni sono le solite, la gente ha paura di esporsi, di mettersi in mostra: questo sono io, questo è tutto quello che so, questo è il mio meglio, questo è il meglio che posso fare adesso.
Forse non avevi più la giusta prospettiva per giudicarlo…
Sicuramente alla fine della produzione avevo perso la capacità di ascoltarlo con lucidità. Dopo tutto quel tempo passato a lavorarci su, sentivo solo quello che non funzionava o le parti deboli. In più, abbiamo ascoltato il master a Richmond, in Virginia, in un negozio di impianti stereo. Abbiamo chiesto al commesso di poter ascoltare qualcosa lì e dopo un po’ di discussioni ci ha mandati nel retrobottega dove su uno scaffale c’era uno stereo. L’abbiamo ascoltato lì, nel retro del negozio, cercando di capire cosa ne pensassimo. Io non volevo lasciarmi andare, non volevo ammettere che era il meglio che potessi fare. Non volevo accettare che nel bene e nel male il mio futuro dipendeva da quel disco. A quei tempi era una grande responsabilità e avevamo dato tutto. Ascoltarlo è stato traumatico. Ero giovane, 24 o 25 anni, e non avevo la stabilità o l’esperienza per mettere le cose in prospettiva. Era tutto il mio presente e anche il mio futuro. Mi sembrava che dopo non ci sarebbero stati altri dischi. Per come la vedevo io, il giorno dopo saremmo tutti caduti giù da una rupe. Pensavo fosse finita.
Avevi 24 o 25 anni anche quando hai scritto: “Hai paura e pensi che forse non sei più così giovane”. Di cosa parla quel pezzo?
Quelle canzoni sono state scritte subito dopo la guerra in Vietnam, e forse dimentichi che all’epoca si sentivano tutti così. A prescindere dall’età, tutti abbiamo sentito un cambiamento radicale nell’immagine che avevamo del nostro Paese e quindi di noi stessi. Eravamo americani diversi da quelli della generazione che ci aveva preceduti. Radicalmente diversi, e quel verso era un modo per riconoscerlo. Quel disco è influenzato da molti dei miei eroi. Ma avevo realizzato che non ero come loro. Ero qualcos’altro. Avevo abbracciato tutto quello che ci rendeva singolari, individui. Non era più uno strano mix di stili del passato. C’era tanto della musica che amavamo, ma c’era anche qualcos’altro: una sensazione di terrore e incertezza sul futuro e su chi eravamo, su dove stavamo andando e su tutto il nostro Paese. Quei sentimenti si sono fatti spazio nel disco.
Lo stile lirico e in chiave maggiore delle parti di pianoforte – Thunder Road, Backstreets – è diventato un elemento fondamentale di quello che la gente considera il tuo sound. Come sono nate? Cosa ascoltavi in quel periodo?
Il fatto che alcune canzoni avessero introduzioni elaborate, parti melodiche e diversi movimenti… puoi far risalire tutto al modo in cui Roy Orbison faceva i suoi dischi. Mi piaceva. Nel mio salotto c’era un vecchio pianoforte Aeolian e all’epoca sapevo che avrei voluto scrivere sul piano, anche perché ero interessato a quei temi melodici. Se le scrivi bene, una bella introduzione e una bella coda possono dare la sensazione che il brano venga fuori da qualcosa e si stia per evolvere in qualcos’altro. Come se avesse una continuità. Erano parti drammatiche, servivano a introdurre le canzoni. Se non ricordo male qualcuno mi ha fatto la stessa domanda in un piccolo documentario che abbiamo girato e io ho detto che volevamo dare la sensazione che stesse per succedere qualcosa di bello. C’è qualcosa, nella melodia di Thunder Road, che fa pensare a un nuovo giorno. Ti fa venire in mente la mattina, qualcosa che si apre. Per questo l’ho messa prima di Born to Run. Mettere la title track all’inizio aveva senso, ma abbiamo deciso di usarla per aprire il lato B. Thunder Road era chiaramente il pezzo d’apertura, soprattutto per l’intro. E queste cose si evolvono continuamente. Credo ci siano solo otto canzoni in Born to Run, dura poco più di mezz’ora. Ma mentre lo ascolti, la sequenza delle canzoni ha senso, anche se non ci pensavamo granché. All’epoca seguivamo l’istinto.
Prima di registrare Born to Run, come la immaginavi?
Eccitante, orgasmica (ride). Ricordo quando ho pensato per la prima volta al riff. Ascoltavo Because They’re Young di Duane Eddy, lo ascoltavo spesso perché all’epoca ero fissato con le chitarre twangy. Ma questa è una di quelle cose che non riesco a ricostruire completamente. Insomma, avevo ambizioni enormi. Volevo fare il più grande disco rock di sempre, volevo che suonasse enorme, volevo prenderti alla gola e costringerti a partire per quel viaggio, a prestare attenzione non solo alla musica, ma alla vita, all’essere vivi. La canzone chiedeva questo, ed ero in territori sconosciuti. È questa la grande differenza fra Born to Run e Born in the U.S.A.
Born in the U.S.A. parlava ovviamente di essere in un posto, Born to Run no, parlava di cercarlo. Ero giovane ed era quello che stavo facendo anch’io. Mi sentivo libero, avevo una vecchia mappa e stavo per partire alla ricerca della mia frontiera – personale ed emotiva –, e tutto mi sembrava a portata di mano. Il disco dava le stesse sensazioni: aperto, pieno di possibilità e anche di paura, perché la vita è così (ride).
Adesso, quando suoni Born to Run dal vivo, il tuo vecchio pubblico – che ora si è sistemato e non corre più – canta il pezzo come se fosse un inno. Anche tu non corri più. Che cosa significa ora quella canzone per te? Cosa è cambiato?
Credo che quelle emozioni e quei desideri – era anche un disco di desideri enormi, giganteschi – non ci abbandonino mai. Quando succede sei morto. Adesso è come se il pezzo dicesse: domani farai un altro passo avanti e nessuno sa cosa succederà. Nessuno può saperlo. La canzone continua parlare a quella parte di te, trascende la tua età e parla alla tua parte eccitata e spaventata da quello che porterà il futuro. Lo farà sempre, è scritta per questo.
Sono convinto che Meeting Across the River anticipi Nebraska e molte delle tue canzoni più scarne. Come l’hai scritta?
Avevo quel piccolo riff di piano, ma non ricordo bene da dove arrivi il testo. Aveva un qualcosa del North Jersey. Non riesco a spiegarlo… c’era questa atmosfera un po’ di New York e un po’ del New Jersey, il grande e il piccolo. È curioso, perché all’epoca chi viveva nel Jersey si sentiva a un milione di miglia da New York, eppure era lì. All’epoca ci sentivamo esclusi e il testo forse parla anche di quanto mi sentissi sottovalutato. La maggior parte delle persone che fa il mio lavoro sa cosa significa sentirsi esclusi, sottovalutati, giudicati, trattati come se la nostra vita non avesse valore. Ho scritto quel pezzo pensando: ehi, quel musicista non è ancora famoso, ma ha lo sguardo fisso su cosa lo aspetta al di là del fiume. Credo fossero queste le emozioni che provavo.
Quando guardi i filmati del tuo concerto all’Hammersmith Odeon, cosa ti colpisce di più?
Avevamo una scaletta incredibile. Born to Run era in mezzo al concerto! Era una canzone nuova. Ricordo che era difficile da suonare, era un brano scritto in studio e per qualche anno non pensavo avessimo una versione abbastanza forte per chiudere lo show. È interessante vedere quanto fosse brava la band: erano relativamente nuovi. Steven era appena arrivato. Max e Roy erano nuovi, era il loro primo tour e il primo disco. La versione precedente del gruppo era una Carnival band, qualcosa di molto diverso. In quel concerto puoi vedere la trasformazione che li ha portati alla loro forma classica. È stato bello vederlo accadere. Eravamo bravi. Eravamo davvero bravi.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.