Chissà come sarebbe cambiata, la musica rock se, anziché come “Il Boss”, Bruce Springsteen fosse passato alla storia come “Il Coordinatore”, “Il Principale”, “Un Mio Superiore”. La sua figura avrebbe avuto lo stesso impatto? Ai suoi concerti ci sarebbe stata gente che regge cartelli con scritto “Ti sogno sempre, Coordinatore”? Sono le uniche domande che Bruce Springsteen non si è posto su se stesso all’interno della sua autobiografia, Born to Run, edita in Italia da Mondadori e uscita negli ultimi giorni di settembre.
Ieri, “Il Boss” era nel centro di Londra, a trecento metri dalla casa di un altro Boss (la Regina). Era alle prese con il primo book tour della sua vita. Benché si tratti di uno che, di tour, se ne intende abbastanza (2500 concerti dal 1968, puntualizza Antoine de Caunes, in conversazione con lui), è la prima volta che Springsteen si trova a stringere la mano al suo pubblico al ritmo di un fan per volta.
Gli è toccato firmare il suo nome “diciassettemila cazzo di volte”, ma a una sensazione del genere potrebbe abituarsi senza problemi, perché “di solito non ho occasione di incontrare i fan uno a uno – e, anche se si tratta di un saluto di dieci secondi, ti danno l’idea del tipo di persone che sono”.
Il rispetto che Springsteen ha per il suo pubblico è ben noto, come lo è la sua propensione a dimostrarglielo con concerti lunghi quattro ore, da cui il soprannome “Il Lav Diaz degli stadi” che gli ho appena assegnato. La sua conversazione con l’audience, dice Springsteen, è una “enorme parte della mia vita, una parte che prendo molto seriamente. Quando ho cominciato la mia carriera, avevo un’idea di come la musica avesse influenzato me, di come mi avesse dato un’idea del mondo al di fuori della mia città. La musica mi dava un senso di gioia, di tristezza, di opportunità. Tutte cose che ho cercato di comunicare anch’io, e il pubblico riflette questi sentimenti, ti dà la possibilità di capire se hai davvero trasmesso queste emozioni.”
L’autobiografia del Principale, come la sua carriera di cantautore, è fatta di prosa schietta e musicale, e l’immaginario della polverosa provincia americana. Parla del saltare su un piano con i vecchi stivali, parla di se stesso bambino, che entra in un bar per recuperare il padre, e così facendo entra anche nel regno mistico degli uomini.
Devoto di Bob Dylan (“il padre della nostra nazione”), appassionato dei grandi autori americani (Cheever, James M Cain, Flannery O’Connor – “ho appena finito di leggere Moby Dick – non è così difficile come dicono, ma si imparano più cose sulle balene di quanto sia necessario”), Springsteen non si aspetta di reindossare presto i panni dello scrittore. Inizialmente, ci aveva preso gusto scrivendo un saggio breve sul suo concerto del Super Bowl, e da lì stilare un’autobiografia non gli era più sembrata un’idea surreale. Se si trovasse a produrre un secondo libro, però, sarebbe come il Difficile Secondo Album: “Quando scrivi il primo album hai venticinque anni di vita cui ti sei ispirato, e in quelle dieci canzoni ce li butti tutti. Poi arriva il secondo album, e a quel punto hai circa sei mesi di esperienza di vita di cui raccontare. E allora sei lì che speri, santo cielo, di non aver sprecato tutto quello che avevi nel primo disco”.
Born to Run è anche, e soprattutto, un’autobiografia onesta, in cui Springsteen racconta della sua convivenza con la depressione, del suo rapporto con la madre e con il padre, creature semi-mitologiche di cui ha parlato in versi, nelle sue canzoni, ma cui voleva fare ulteriore giustizia: “Era un’opportunità per parlare in maggiore dettaglio della complessità delle relazioni che ho raccontato nelle canzoni. La vita di mio padre era molto più complessa di quella che ho cantato, e quindi volevo dipingerlo come più complicatamente umano”.
Senza fronzoli, con umiltà, spiega che non avrebbe avuto senso scrivere un’autobiografia che non fosse onesta. I personaggi delle canzoni sono sempre frutto di un incontro tra la fantasia e l’esperienza personale, ma un’autobiografia è un’autobiografia. Springsteen voleva scrivere qualcosa di utile, di informativo, per i suoi figli e per i suoi fan. Qualcosa che offrisse uno sguardo più dettagliato all’esperienza di vita di un autoproclamato “lavoratore a giornata”, uno che a quindici anni – coi brufoli in faccia e la musica in testa – sognava a occhi aperti di andare a vedere i Rolling Stones nel New Jersey, trovare Mick Jagger ammalato, e venire invitato sul palco a sostituirlo. “E la folla, ovviamente, impazzisce, e Mick non manca proprio più a nessuno.”