Emozionata? «Sì, tantissimo!», e poi giù una risata molto sincera, disarmata e fanciullesca. Ma le concessioni di Bu Cuarón ai suoi 19 anni (è nata a fine 2003) finiscono qui. Da lì in avanti, l’impressione è quella di chiacchierare con un’artista con già una nutrita carriera alle spalle, con un sacco di esperienza – e di fiducia in sé, sì. «Io sono grata di essere cresciuta in un ambiente famigliare molto creativo, che mi ha sempre spinto ad esprimermi e – soprattutto – a farlo in maniera assolutamente libera e onesta».
Non è solo una frase di circostanza. Il padre è un signore di nome Alfonso Cuarón, uno dei più celebrati registi contemporanei, uno di quelli che vince Oscar e Golden Globe in serie, tanto per intenderci (per Gravity prima e per Roma poi). Nel momento in cui la figlia fa l’esordio sul palco a La Prima Estate, vedi comparire fra il pubblico non solo lui, ma anche un’altra serie di facce hollywoodiane piuttosto note in versione vacanziera versiliana. Non capita a tutti.
Già. Versilia. Come mai l’esordio qui? Risposta: Bu è cresciuta (anche) «a dieci minuti da qua», a dieci minuti cioè dal Parco Bussoladomani, sede del festival. La madre infatti è Annalisa Bugliani, che gli appassionati di televisione giovanilista ricorderanno agli esordi in Com’è (era un programma sgangherato ma fighissimo dove la musica era trattata in modo notevole), i feticisti della pubblicità stilosa ricorderanno nella pubblicità Campari primi 2000 affidata a Tarsem Singh e gli appassionati di gossip sapranno essere stata sposata con Cuarón dal 2001 al 2008. Bugliani è proprio di Camaiore e dopo un po’ di anni a Londra è tornata a vivere in Versilia. Devono essersi annodati dei fili con gli organizzatori de La Prima Estate e, voilà, è stato annunciato a sorpresa il debutto di Bu Cuarón nella giornata finale del secondo weekend del festival.
Raccomandata? Forse. Il punto però è che Bu Cuarón è brava davvero. O almeno: di potenziale ce n’è parecchio. Al netto di qualche esuberanza nell’usare la voce – eh, l’entusiasmo e l’inesperienza dei 19 anni – ha un bel timbro, un’ottima presenza e le canzoni non sono per niente male. Soprattutto: le canzoni sono molto farina del suo sacco, non è un burattino dal padre famoso & mediatico in mano a qualcuno. «Io ho sempre saputo solo una cosa: volevo scrivere della canzoni. Poi, volevo cantarle e costruirle. E questo ho fatto. Solo a un certo punto mi sono resa conto che ero diventata la producer di me stessa: che facevo da sola cose che di solito si delegano ad altri. Che poi, un commento che mi sono sentita fare più volte è “Ah, ma la donne in musica non fanno le produttrici, non si curano degli aspetti tecnici in studio…”. Ah no? Non lo fanno? Boh: io lo faccio. E se lo faccio io, può farlo chiunque».
Una pausa. E poi: «Davvero: siamo pieni di luoghi comuni insensati, nel mondo musicale. Basta. Sarebbe ora di superarli. Non ci vuole molto: è sufficiente fare quello che si è convinti di fare, quello per cui si sente portati. Io ho iniziato a strimpellare qualcosa con l’ukulele quando avevo 13 anni e passo dopo passo è diventata una cosa sempre più seria. All’inizio non mi dava peso quasi nessuno. Oggi, dopo che hanno sentito le mie prime cose, sono in tanti a chiedermi di collaborare. E va bene, ma che non si azzardassero a dirmi cosa devo fare o cosa non devo fare. Vedo troppe persone in giro che tentano di spiegare ai musicisti cosa sia giusto e cosa invece sia sbagliato fare, ma nell’arte, accidenti, non esiste né il giusto, né lo sbagliato. Esiste solo quello che tu ti senti di esprimere».
«Per mantenere forte la mia identità artistica ho dovuto allora riguadagnare il mio spirito da tredicenne: quella che fa le cose e basta, e non si cura di nessuno. Attorno a me invece vedo tanti che accettano di diventare dei prodotti: perché ormai il consumismo è entrato pesantemente nel mondo dell’arte. Tanti artisti, sì, che diventano però subito tanti prodotti. Il mercato così diventa saturo. Dovresti capire che proprio in una situazione così il modo migliore per farsi notare è allora proprio uscire dalle regole del gioco più facili e consolidate: uscire dall’ansia di essere un prodotto che funziona, pensando invece solo a sentirsi soddisfatti e coerenti».
Bu però fa pop. Moderno, contemporaneo, contaminato, ma comunque pop. «Sì, ma in qualsiasi genere l’arte c’è». Qualsiasi? «E in qualsiasi genere c’è una sottile linea rossa che divide la purezza artistica dal calcolo – e sei tu che decidi a chi dare la priorità. Vale per la musica, vale per il cinema, vale per qualsiasi espressione artistica».
A proposito di espressione: nel primo EP ci sono pezzi in inglese, in spagnolo, in italiano. Un gran casino linguistico. «Sono tutte parti di me. È strano. Quando sono in Italia, non sono abbastanza italiana; ma quando sono in Messico o in Inghilterra, continuano a dirmi “Ah, quanto si vede che sei italiana”, sai?». E cosa significa quindi essere italiani? «Essere molto melodrammatici». E tu lo sei? «E me lo chiedi? Ma hai sentito i miei pezzi? Io sono una maledetta drama queen!». Lo sarai anche quando sarai famosa? Se la fama arriverà, ti cambierà? «La fama è un prodotto. Non è quello che sei. È, al massimo, la conseguenza di qualcosa che fai. Se lasci che sia la fama a definirti e ad influenzare i tuoi comportamenti, vuol dire che hai accettato di perdere te stesso. E io non ho la minima intenzione di accettarlo». Per una esordiente non ancora ventenne, di personalità ce n’è. Teniamola d’occhio, Tess Bu Cuarón. E non solo per il padre.