Da Syd Barrett a GG Allin, c’è un filo che lega creatività e follia, disturbo mentale ed espressione musicale. Ne abbiamo parlato con Bugo che poche settimane fa ha pubblicato il video di Quando impazzirò. Fresco della seconda chiamata sanremese, ha trattato l’argomento con il consueto mix di lucidità e autoironia.
Il video di Quando impazzirò ha qualcosa di profondamente barrettiano. Quel senso di isolamento in casa che fa molto copertina di The Madcap Laughs, lo specchio, i tempi dilatatissimi.
Parli con una persona che ha letto quasi tutto il leggibile su Barrett. Quando sono venuto fuori tanti anni fa, Barrett era uno degli autori che ascoltavo di più. Al di là della follia, con cui purtroppo lui non giocava, mi ritrovavo molto in lui. Non mi sto paragonando a lui in termini di creatività, ci mancherebbe. Semplicemente, alla fine degli anni ’90 mi sentivo un’anima persa come lui. Quando raccontavo certe cose, la mia era un’ironia molto amara. Non era un gioco. Molti invece pensavano a me come a un giocherellone. Bugo il pazzerello. Invece era tutto l’opposto.
Il tema della follia nel video però sembra più legato all’alienazione dovuta al momento che stiamo vivendo. È così?
Sì, lo spunto per il video è nato proprio dall’idea che il tempo oggi è molto più dilatato. Il fatto di aspettare in casa che la vita torni normale implica il fatto che le giornate siano diventate infinite. Fare un video di tre minuti non avrebbe avuto senso, uno di otto sì. Anche la scelta di interrompere più volte l’audio aumenta quella sensazione di straniamento. Volevamo osare un po’ dopo un video più canonico come era stato quello di Mi manca, che per altro adoro. Questa volta, però, testo, video e situazione globale dovevano andare di pari passo.
Ora racconti lo stato mentale da lockdown, ma l’avevi fatto senza saperlo già con Casalingo, che invece aveva qualcosa di kafkiano.
Casalingo è stata una della canzoni più condivise in quei mesi, forse perché la gente l’ha usata per esorcizzare la paura. Io l’avevo scritta nel ’97, in un momento non felice della mia vita. Lavoravo tutto il giorno in fabbrica e arrivavo a casa completamente distrutto e frustrato. Vivevo in un paesino senza troppi amici, quindi l’idea di starmene isolato in casa dopo quelle ore in fabbrica mi sembrava una cosa davvero spettacolare. Quel pezzo mi ha aiutato a scoprire il valore dell’autoironia e forse l’ha fatto anche con chi l’ha condivisa tanto in primavera. Sono stato un grande lettore di Kafka, quindi sì, lo scarafaggio di cui parlo è proprio un omaggio. Avrei potuto farne molti altri nei miei pezzi, ma li tengo per quando scriverò un’autobiografia.
Ti sentivi un emarginato in qualche modo?
In realtà facevo anche quello che volevo, intendiamoci. Però in pochi compresero che si poteva andare oltre al primo piano di lettura. Mi ricordo proprio una recensione di Rolling Stone in cui si metteva in guardia il lettore sul non confondere la merda col cioccolato. Venivo preso un po’ come uno che faceva le cose alla cazzo. Di certo all’epoca ero molto più alienato di oggi, poi ho capito come migliorare e far evolvere la mia creatività. Chi riusciva a superare quella barriera, capiva che ero uno con una visione, che avevo la testa sulle spalle. Che volevo arrivare. Ricordo con affetto il titolo di una mia intervista dei primi anni 2000: l’autore mi definiva genio e regolatezza.
Anche perché il cliché di genio e sregolatezza ha rotto un po’ i coglioni, diciamolo.
È un mito della retorica. Quando ho scritto Quando impazzirò avevo ben in mente il fatto che il gioco della pazzia fosse uno dei più pericolosi. Non ho mai creduto nel mito della pazzia creativa: l’intuizione da cui nasce un brano non può venire dalla pazzia. Non è qualcosa di irrazionale, o quantomeno non del tutto. È qualcosa che arriva da un luogo a metà tra la ragione e la follia, sta proprio nel mezzo. Il folle puro non è in grado di organizzarsi, proprio perché la sua mente è caotica. Tornando a Barrett, all’epoca mi ritrovavo molto nella sua creatività, ma allo stesso tempo mi rendevo conto che di non essere come lui. La follia è un incidente, non è una cosa che perseguo. Tant’è vero che lui l’ha pagata carissima. Ancora oggi ascolto i suoi due album solisti, ma mi danno sempre un grande senso di infelicità.
Poi ci sono quelli che si fingono fuori dalle regole per avere visibilità.
Sì, quello è il rovescio della medaglia. Guarda quanta gente si traveste da pazzo, va in tv o sui social e fa quello che vuole. Urla, insulta, fa la parte di quello che se ne fotte delle regole sociali, ma in realtà è perfettamente inserito in un meccanismo. La loro però è solo arroganza travestita da anticonformismo. Questa vena folle va un po’ di moda ultimamente. Mi auguro davvero che la gente diventi più umana, che il tanto sventolato sviluppo 3.0, quello che dovrebbe portare all’Essere più umano, si avveri. Che la gente capisca che fare i folli per sentirsi vivi è un’idiozia.
Credi che la mancanza di empatia sia uno dei grandi mali del nostro tempo?
Assolutamente sì. L’empatia manca tra genitori e figli, figuriamoci quando ci confrontiamo col disagio. E un anno terribile come questo non può che aver acuito la cosa. Chi stava male, ora sta peggio. La follia spesso nasce da situazioni ambientali, che in alcuni casi valgono quanto i dati genetici. Se non siamo capaci di proteggere gli individui più deboli dalle cose negative, è facile che questi finiscano per sprofondare e che vengano sopraffatti dai disturbi mentali.
Hai avuto esperienze dirette con la malattia mentale?
Sì, quando andavo alle medie. Nella mia scuola avevano messo in piedi un progetto legato all’argomento. Chi voleva, il sabato pomeriggio poteva andare a trovare dei bimbi con disturbi mentali. Mi ricordo perfettamente il bimbo da cui mi recavo, si chiamava Antonio e solo a nominarlo lo rivedo di fronte a me. Mi sentivo completamente impotente, perché non sapevo cosa potessi fare per aiutarlo, però quando mi vedeva era felicissimo. Anche se non riusciva a esprimerlo a parole. Poi ho un altro ricordo. Quando mi ritrovai a decidere se fare il militare o il servizio civile, scelsi la prima opzione. Non perché ci credessi, ma perché conoscevo un sacco di obiettori che deridevano i disabili con cui avevano a che fare. Era una cosa che mi faceva schifo e non volevo finire nella stesso insieme di quei minchioni. A quel punto tolleravo di più gli atti di nonnismo, perché per lo meno erano cose tra pari, non su chi non poteva difendersi. La gente fa molta fatica a stare con chi ha problemi mentali, che non è facile, ci mancherebbe. Ma quello mi sembrava il massimo della viltà.
Perché tornare a Sanremo dopo tutto il delirio dell’anno scorso?
Non te l’aspettavi, eh? Avrai pensato che non ne volessi più sapere di tutta quella faccenda. Te lo dico in totale trasparenza: la cosa mi ha colpito e destabilizzato molto, anche perché vorrei vedere chi non avrebbe reagito così a un delirio del genere. Tuttavia, io rifarei tutto allo stesso modo. È chiaro che il senso di rivalsa è moltissimo. Ho tutti i miei difetti, ma sono sempre stato uno di grande carattere. Avevo scritto Sincero e mi avevano eliminato, quindi mi sono detto: cazzo voglio tornarci. Durante il lockdown mi sono messo a scrivere come un pazzo, visto che non potevo fare altro. Non era affatto scontato che tornassi, ma ero così contento di E invece sì che ho voluto riprovarci. E sono contento di essere stato preso perché il pezzo è piaciuto, non per compensazione.
Cosa puoi dirci del brano?
Ti posso dire che è una canzone molto diversa da Sincero, mica potevo fare un altro pezzo col synthone. È un brano meno veloce, più una ballad, ma non di quelle che rompono i coglioni. È più classico, sia dal punto di vista personale che per quanto riguarda Sanremo. Potrebbe stare bene in qualsiasi Sanremo della storia. Sincero rimandava volutamente agli anni ’80 e infatti Morgan era perfetto anche per questo. Questa invece è una canzone Bugo al 100%, roba tipo C’è crisi, Me la godo o Casalingo. Non che Sincero non mi rappresentasse, anzi, ma era pensata fin da principio come una collaborazione. Mi trovo in un momento di grande creatività. Prima c’è stata la parte razionale, che mi ha fatto dire: ok, voglio tornare a Sanremo. Poi mi sono lasciato andare alla creazione, che è un momento pazzo, dove divento totalmente passivo.